SNOWFLAKE di Mike Bartlett, regia di Stefano Patti, con Marco Quaglia, Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida, produzione 369gradi

SNOWFLAKE di Mike Bartlett, regia di Stefano Patti, con Marco Quaglia, Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida, produzione 369gradi

(Teatro Belli – Roma, 11/15 dicembre 2021)

Racconto natalizio che ha per protagonista un padre in attesa del ritorno della figlia che non vede da tre anni. Una riflessione sullo scontro generazionale e sulla possibilità di superare le incomprensioni. Penultimo spettacolo in cartellone per Trend, la rassegna di drammaturgia contemporanea inglese curata da Rodolfo Di Gianmarco al teatro Belli.

 

Andy è impegnato nell’allestire gli addobbi natalizi per rendere il salone parrocchiale che ha preso in affitto il più accogliente possibile. Con perfezione quasi maniacale si accerta che tutto sia al suo posto. La paura di fare qualcosa di sbagliato lo tormenta. Sta aspettando il ritorno di Maya, la sua unica figlia che manca da tre anni. È andata via dopo un litigio lasciando solo un biglietto di addio. Natale è quando la famiglia si riunisce, ecco perché lo striscione che ha messo bene in vista recita welcome home, ben tornata a casa. Qualcuno ha avvisato Andy che Maya è in città. Perché abbia deciso di andarsene non è riuscito mai a spiegarselo. È ansioso, nervoso, sicuramente c’entra il fatto che la moglie morì di tumore quando Maya era solo un’adolescente. Il monologo di Marco Quaglia occupa tutta la prima parte della storia. Il suo modo di raccontare le difficoltà della vita con sarcasmo, autoironia e volto impassibile stempera il dramma e rende il personaggio simpatico al pubblico. È l’attore perfetto per incarnare lo humor inglese.

Improvvisamente entra Natalie, ospite inattesa in questo momento di affanno e agitazione. Andy spera di mandarla via presto, il tempo di un tè, ma la ragazza è curiosa, insistente e inizia a tempestarlo di domande. Nell’interpretazione di Lucrezia Forni il personaggio appare forte, sicuro di sé, deciso a studiare il carattere di Andy per capirne la personalità. Ma lui non ha voglia di confrontarsi, non ha tempo da dedicare a Natalie, perde la pazienza e va su tutte le furie. Proprio in quell’istante entra Maya, la dolce e fragile Adalgisa Manfrida. Andy prova un terribile imbarazzo. Esattamente questo suo modo di fare aveva allontanato la figlia anni prima. Lei è una ragazza troppo sensibile per poter accettare il confronto con un genitore che la frena, che la scoraggia, che la pungola con battutine e disapprovazione. Anche lui è fin troppo suscettibile ai rimproveri della figlia. Sono entrambi due fiocchi di neve, due Snowflake, parola che nello slang inglese indica una persona che si offende facilmente se contrastata con posizioni e opinioni diverse dalle sue. D’altronde un fiocco di neve non cade mai da solo.

Tornare per affrontare e superare il problema con il padre è un dovere per Maya. Non può più permettersi di scappare di fronte alle difficoltà che la vita le presenta. A rimetterci sono gli affetti che ha accanto, i suoi progetti, i suoi sogni. Questo è il momento giusto per affrontare il mostro che la spaventa.

Snowflake di Bartlett è un testo commovente, che insegna il valore dell’ascolto e l’importanza di saper spendere tempo per le persone che amiamo. Ottima e ben misurata la recitazione degli attori, merito anche della regia di Stefano Patti che ha saputo amalgamare i giovani talenti di Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida con quello ormai maturo di Marco Magli. Anche sul palco è fondamentale saper ascoltare chi ci lavora affianco.

data di pubblicazione:15/12/2021


Il nostro voto:

LA SIGNORA DELLE ROSE di Pierre Pinaud, 2021

LA SIGNORA DELLE ROSE di Pierre Pinaud, 2021

Eve (Catherine Frot), rinomata coltivatrice e creatrice di rose, per salvare la propria piccola azienda familiare ormai prossima alla bancarotta, schiacciata com’è da competitori più organizzati di lei, tenta di creare una nuova varietà di rosa. Ingaggia tre improbabili coadiutori in contratto di reinserimento sociale, del tutto sprovveduti in campo florovivaistico. Una strana coabitazione di caratteri, ma il Caso creerà delle opportunità del tutto imprevedibili…

 

 

Come talora accade, la magia di alcuni piccoli film francesi è tutta nella loro capacità di arrivare a trasmettere – al di là delle trame più o meno esili – emozioni e sentimenti. Così come la musica riesce a dare sensazioni con la sola armonia dei suoni, certi film riescono a scaldare i cuori degli spettatori con la sola forza delle immagini e della recitazione.

È il caso del film di Pinaud, la sua opera seconda. Un film che sembra venire da lontano, da un’epoca in cui al cinema si potevano vedere non solo film che raccontavano le vicende della Vita, della vita nella sua cruda realtà, ma soprattutto film che consentivano di sognare e donavano la possibilità di pensare che le cose potessero anche andare a finire bene.

Una piccola commedia, però più profonda di quel che può sembrare, sincera, toccante, ironica ed a tratti affascinante pur nella sua semplicità. Per l’appunto, un buon piccolo film del Cinema di una volta. Un film che al di là dei buoni sentimenti riesce a toccare con sensibilità, humour e tenerezza anche temi profondi: il senso dell’accudimento e dell’impegno, il ruolo del Caso nella vita, l’abbandono affettivo e il valore delle relazioni umane. Piccole sottostorie che il regista saggiamente si limita ad accennare per poi lasciarle andar via, quasi come volesse solo conservarne nell’aria la fragranza. La regia e la messa in scena – assistite da buona sceneggiatura e dialoghi ben cesellati – sono sobrie e classiche, però con qualche piccola, geniale e divertente intuizione. Al centro del film è Catherine Frot che primeggia su tutti con un’interpretazione impeccabile, con lei ed intorno a lei un quartetto di attori che caratterizzano perfettamente i loro personaggi.

La Signora delle Rose è un film gradevole e charmant, sicuramente un feel good movie, senza però essere lacrimoso, stucchevole o manicheo. Un piccolo film sensibile, come i petali delle rose, ma al contempo forte come il loro profumo che può anche restarci dentro per un bel po’.

data di pubblicazione:12/12/2021


Scopri con un click il nostro voto:

VAUDEVILLE, tre anni unici da Eugene Labiche, ideazione, drammaturgia e regia di Roberto Rustioni

VAUDEVILLE, tre anni unici da Eugene Labiche, ideazione, drammaturgia e regia di Roberto Rustioni

(Teatro India – Roma, 1/12 dicembre 2021)

Si stenta a riconoscere Labiche e sembra di più di entrare nel mondo caricaturale della telenovela utilizzando il frequente tentativo di interazione (poco riuscito in verità) con la platea. Spettacolo giovane, piccante, veloce, un po’ naif. Un diversivo per Rustioni avvezzo a tentativi più maturi e difficili.

La parola “vaudeville” riassume un mood che non si ritrova in tre virtuali atti unici senza soluzioni di continuità per la scena continuamente rimodellata e cangiante a opera degli stessi interpreti. Bravi tutti gli attori per un compito camaleontico entrando in panni sempre diversi, tra l’altro, con impressionanti variazioni vocali. C’è un intento sottilmente sovversivo nel progetto che è quello di smantellare attraverso un cliché di facile riconoscimento un mondo convenzionale squassandolo con l’obiettivo di un sorriso che a volte è risata. C’è il modello, c’è la forza straniante di rielaborarla con scarsa o alcuna attenzione per la conclusione del giallo e sottolineatura invece sul percorso e sulle sue imprevedibili varianti. Si può scrivere che gli attori si arrampichino su tutti i luoghi comuni possibili. Il resto dell’ottocento volge a un’inevitabile rimodulazione nel contemporaneo con un lavoro piuttosto immane di Rustioni, uno e trino nell’occasione. Commedia catartica e liberatoria il cui fine ultimo è un palazzeschiano “Lasciatemi divertire” senza pretese. Pubblico giovane, incuriosito da uno spettacolo non propriamente da India, ma proprio questo attrattivo e forse accuratamente pre-natalizio. La meccanica dell’azione teatrale può ricordare quella di Rumori fuori scena. All’insegna di un continuo girandolesco dentro e fuori degli attori. Una proposta di apparente semplicità che, al contrario, al proprio interno contiene una serie di scatole cinesi, degne di approfondimento e di metabolizzazione da parte dello spettatore.

data di pubblicazione:11/12/2021


Il nostro voto:

F U O R I di e con Nella Tirante, aiuto regia Gaia Benassi

F U O R I di e con Nella Tirante, aiuto regia Gaia Benassi

(Teatro Tordinona – Roma, 8/12 dicembre 2021)

Vincitore del Premio Tragos per la sezione teatro donna e secondo classificato come monologo al Premio Sipario 2021, F U O R I di Nella Tirante è ora in scena al teatro Tordinona, a pochi passi da piazza Navona. Un testo coraggioso, intimo ma anche pieno di ironia, scritto e interpretato da un’artista di eccellente bravura.

  

F U O R I è un testo pandemico. Non solo perché parla di pandemia – che in realtà funziona più come pretesto narrativo – ma perché affronta un problema che riguarda tutti: il confronto con il silenzio e i mostri che questo genera nella mente. Parte da qui il racconto di Nella Tirante e del suo personaggio, una donna confinata in casa a causa del lockdown. La musica smette quando abbassa le cuffie, è ancora in vestaglia da casa. Ci rimarrà a lungo perché alla prima pandemia ne succederanno altre. Sarà costretta a rimanere in casa, nella sua piccola stanza che è un pozzo di ricordi, ma anche un arsenale di attrezzi e costumi del suo lavoro. È un’artista, un’attrice e come tanti suoi colleghi è costretta a fermarsi. Che il teatro dovesse subire un brusco arresto con la pandemia nessuno se lo sarebbe aspettato. Nessuno era preparato. Né tantomeno lei e i personaggi rimasti senza interprete. Vagano le Giuliette, i Re Lear, i Mercuzio e gli Amleti in cerca di un Cotrone gentile che accolga il vagabondo carro di Tespi. Ma per ora solo silenzio. Un silenzio tuttavia utile, poiché in esso si nasconde la vita, perché da occasione per riflettere e prendere conoscenza e consapevolezza di sé. Succede a lei, succede a tutti. Succede a teatro, dove si sta in silenzio ad ascoltare e a pensare, tutti insieme, artisti e spettatori. Nel tempo che si sta qui seduti si perde il calcolo delle ore e dei giorni e il passato, con i suoi ricordi, riemerge e si fonda con un presente dilatato all’infinito, che scavalca perfino il limite imposto dalla morte.

F U O R I. È scritto proprio così, lettere cubitali spaziate tra un segno e l’altro. Il grido lanciato da Nella Tirante esprime il bisogno di uscire da una condizione di segregazione, di oppressione, di obbligo. Quella che vive in casa con un principe ranocchio – come chiama lei il suo compagno perennemente distratto dal lavoro – e con una figlia inappetente, annoiata, secchiona con cui è impossibile giocare. Ma anche quella che era costretta a vivere con il padre, un uomo fin troppo severo e prevenuto. È un grido che si genera dal profondo, che esprime rabbia e dolore. È un grido però che prende la forma dell’ironia quando viene lanciato, l’unica arma capace di far superare qualsiasi difficoltà, qualsiasi pandemia.

Nella Tirante è un’attrice luminosa, coraggiosa, creativa. Divora lo spazio che le sta intorno, riempiendolo di poesia e azione. Un’artista completa che da sola vale il numero di un’intera compagnia!

data di pubblicazione:11/12/2021


Il nostro voto:

LOVE AND UNDERSTANDING di Joe Penhall, lettura drammatizzata a cura di Mauro Lamanna, con Gianmarco Saurino, Mauro Lamanna e Martina Querini, progetto sonoro di Filippo Lilli, traduzione di Natalia Di Gianmarco, produzione Oscenica

LOVE AND UNDERSTANDING di Joe Penhall, lettura drammatizzata a cura di Mauro Lamanna, con Gianmarco Saurino, Mauro Lamanna e Martina Querini, progetto sonoro di Filippo Lilli, traduzione di Natalia Di Gianmarco, produzione Oscenica

(Teatro Belli – Roma, 4/6 dicembre 2021)

Rachel e Neal sono una coppia sull’orlo di una crisi. A far precipitare le cose ci pensa Richie, un loro vecchio amico, ospite di passaggio nel loro appartamento.

Neal è un giovane medico preso così tanto dal suo lavoro che per comunicare con Rachel, la sua compagna, usa post-it e messaggi in segreteria. La sua precisione quasi maniacale nelle cose e il suo atteggiamento ansioso finiscono per creare una monotonia nel rapporto, che lentamente si logora precipitando in una noia tremenda. Ogni cambiamento allora è visto come una possibile minaccia all’equilibrio della relazione, perfino sposarsi o avere dei figli. L’arrivo improvviso di Richie, un vecchio amico di Neal, dedito all’alcol e alle droghe, sempre in giro per il mondo senza una meta fissa né una relazione stabile, mette in subbuglio lo schema abitudinario della coppia. Neal si accorge che sta togliendo divertimento ai suoi trent’anni, mentre Rachel finalmente può manifestare a qualcuno il suo disagio e la sua frustrazione di amante trascurata. Per nutrire una coppia ci vuole Love and understanding dunque. Amore e comprensione. Ma la comprensione è anche complicità, intesa, come quella che si genera tra Rachel e Richie. Il classico triangolo amoroso sembra nascere quando Rachel cede alle provocazioni di Richie, ma dura poco. È il pretesto narrativo per detonare la bomba che già era stata preparata da tempo. In fondo a tenerli ancora insieme era il mutuo sulla casa che avevano comprato.

Seppure si tratti di una lettura del testo, Mauro Lamanna fa ricorso a diversi espedienti per rendere l’azione sul palco dinamica e piacevole. Il testo passa a essere letto da fogli su un leggio allo schermo di un cellulare o di un computer. L’abitudine ad avere sempre con noi questi dispositivi ci fa apparire la cosa come normale, consueta. Complice della buona riuscita del lavoro è senza dubbio anche la connessione e la professionalità di Mauro Lamanna con Gianmarco Saurino, già apprezzata nella scorsa edizione di Trend per la messa in scena online – causa pandemia – di Blue thunder di Padraic Walsh. A loro si unisce Martina Querini, che ricopre il ruolo di Rachel. A Filippo Lilli invece è affidata la parte sonora. L’architettura musicale costruita con la sua tastiera midi accompagna l’azione e sospende l’ambiente in una musicalità astratta, sensibile all’umore della scena. La continuità del suono – che avvolge nel suo intero la narrazione – cuce insieme le scene e aiuta a lasciare sospesa nello spettatore un’idea di finale che nel testo rimane aperta: Neal e Rachel torneranno insieme o la distanza tra i due rimarrà incolmabile?

data di pubblicazione: 8/12/2021


Il nostro voto:

2034 – IL ROMANZO DELLA PROSSIMA GUERRA MONDIALE di Elliot Ackerman e James Stavridis – SEM Editore, 2021

2034 – IL ROMANZO DELLA PROSSIMA GUERRA MONDIALE di Elliot Ackerman e James Stavridis – SEM Editore, 2021

Appena poche settimane fa commentando qui un libro di Geopolitica, accennavamo a quanto la Geografia, nel passato come per l’avvenire, sia uno dei fattori chiave che condizionano le scelte politiche dei vari Stati, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui si sta ritornando ad un mondo “multipolare”. Un mondo dominato dalla rivalità fra poche grandi Potenze. Se il XX secolo è stato il Secolo Americano, per molti analisti, probabilmente, il XXI secolo sarà invece il Secolo Cinese. Quindi, nello scenario politico attuale Cina e Stati Uniti non sono solo concorrenti strategici ed economici ma sembrano anche essere proiettati verso una competizione che potrà portare ad uno scontro o ad un conflitto inevitabile. Inevitabile? Parrebbe proprio di sì! Perché da sempre, quando una potenza emergente minaccia di spodestare quella dominante, il risultato più probabile è un conflitto.

Preceduto dal tam-tam del grande successo di critica, di lettori e di dibattiti fra analisti negli Stati Uniti, ecco uscire fresco di stampa anche in Italia 2034, il Thriller/Saggio che ci dice anche quando, dove e come avverrà questo conflitto fra Cina ed America. Avverrà per l’appunto nel 2034, nel Pacifico Occidentale o Mar Cinese Meridionale, cioè intorno a Taiwan a seguito di una sequenza di errori di valutazione che porteranno alle peggiori conseguenze e, soprattutto, grazie al possesso di tecnologie in grado di introdursi nelle strutture informatiche dei sistemi di difesa ed attacco dell’avversario. Si sa, quasi sempre, le ragioni scatenanti i conflitti sfuggono ad ogni logica e ad ogni deterrente se non a quello della “mutua distruzione”. Ma le tecnologie emergenti possono rendere obsoleto e bloccabile un certo tipo di Potere. Se infatti una delle potenze in competizione dovesse riuscire a trovarsi in vantaggio nella corsa alle innovazioni tecnologiche ed alle armi informatiche, la Politica potrebbe non aver più la forza di controllare le dinamiche e si potrebbe dover cedere il passo alla guerra, alla futura Cyber Guerra.

I due autori hanno tutti i titoli per poter scrivere di tali argomenti: Stavridis, ex ammiraglio, è stato comandante delle forze NATO in Europa; Ackerman (prima di divenire uno scrittore di discreto successo) ha operato sul campo con i marines e con le forze speciali USA, entrambi hanno poi lavorato alla Casa Bianca occupandosi di Sicurezza Nazionale. Sanno di che cosa scrivono, e… scrivono quasi volessero lanciare un monito per quel che potrà accadere!

Si farebbe un torto enorme a voler far passare 2034 per un’opera destinata solo e soltanto a militari, a storici o analisti di geopolitica! Tutt’altro, in realtà si tratta di un libro accessibile a tutti e che può essere letto come un romanzo, un thriller o una fiction su un’eventualità che non è affatto remota. Una fiction ben orchestrata in un universo prossimo venturo immaginario, ma molto probabile e verosimile, perché è verosimilissimo che ci siano certi sviluppi di nuove armi tecnologiche e che le tensioni fra Pechino e Washington siano destinate a crescere sempre di più. Un approccio originale, un’analisi brillante, scritta a 4 mani con prosa scorrevole, competenza e capacità di coinvolgimento. Una lettura attualissima, piacevole ed anche un’opportunità per riflettere. Agli appassionati potrà senz’altro ricordare certi lavori di cui è stato insuperabile creatore lo scomparso Tom Clancy, ma, mentre in quest’ultimo, per quanto accurato e dettagliato fosse, prevaleva scientemente l’elemento romanzesco, in 2034 il brivido è dato invece dal dubbio che possa trattarsi di una realtà futura.

data di pubblicazione:06/12/2021

CRY MACHO di Clint Eastwood, 2021

CRY MACHO di Clint Eastwood, 2021

La vicenda ruota intorno al faticoso viaggio in auto cui si sottopone per gratitudine, un arzillo vecchietto (?) ex campione di rodeo per riportare dal Messico in Texas il figlio di un suo datore di lavoro. Il ragazzo va sottratto alla madre messicana alcolizzata. Durante il viaggio fra i due nascerà un rapporto di solidale complicità.

Credo, nell’occasione (l’uscita del 40esimo lungometraggio di Eastwood), che buona parte della critica si sia fatta condizionare dalla statura del grande regista californiano, perdendo di vista, in buona sostanza, la modestia complessiva di Cry Macho. Da GranTorino in poi, a mio parere, il suo ultimo grande film, è iniziata una dignitosa ma inevitabile parabola discendente dell’ormai novantunenne attore e regista, vera icona della cinematografia e giustamente insignito di ben quattro Oscar. Non so se Cry Macho segnerà il suo definitivo congedo dal set, ma per non inficiare una carriera spettacolare attraverso un finale con pellicole insignificanti forse sarebbe giusto fermarsi qui. Sulla scia di, The Mule, ma con ancora meno frecce al suo arco, Clint, regista e attore, ripropone stancamente la favola del vecchietto ex qualcosa (qui cow boy ex stella di rodei) che compie atti eroici e/o sciagurati alla ricerca di nuovi stimoli. Ascrivibile al genere western moderno, Cry Macho (Macho non è lui ma il nome del gallo del ragazzo) ne riprende alcuni tratti: le fughe, gli inseguimenti, le scazzottature, naturalmente i cavalli, qualche paesaggio, il tutto condito da po’ di country music Le modalità non divergono molto da quelle di The Mule, ma qui il fiato si fa più corto, alcune scene sono imbarazzanti (il fascino che esercita sulle donne…) o improbabili ( quando monta cavalli imbizzarriti o sferra cazzotti degni di Mohamed Alì). La trama poi, quanto mai melensa, è degna del peggior Muccino: il giovane Rafo (l’attore messicano Eduardo Minett, bravino) con il suo gallo da battaglia Macho (sua la migliore interpretazione…) spera di ritrovare il padre e il sogno americano oltre il confine e Mike Milo (un Eastwood inevitabilmente insecchito e ingobbito) rappresenta la sua ultima speranza. Milo ha una grande sensibilità verso gli animali (si offrirà come veterinario in un piccolo villaggio messicano) e le vedove (flirterà con la padrona di una posada) e questo offre al regista   momenti di pause nel viaggio on the road verso il Texas . Tratto dal romanzo del ‘75 scritto da N. Richard Nash, Cry Macho, tocca dirlo, è il peggior film di Eastwood ma non cambia il giudizio complessivo sulla sua straordinaria carriera (un titano come lo fu John Ford), ma ne segna una evidente battuta d’arresto che a oltre novant’anni gli si può comunque perdonare.

data di pubblicazione:04/12/2021


Scopri con un click il nostro voto:

TAVOLA TAVOLA, CHIODO CHIODO, un progetto di Lino Musella e Tommaso De Filippo, tratto da appunti, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo, con Lino Musella, musiche dal vivo di Marco Vidino

TAVOLA TAVOLA, CHIODO CHIODO, un progetto di Lino Musella e Tommaso De Filippo, tratto da appunti, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo, con Lino Musella, musiche dal vivo di Marco Vidino

(Teatro Vascello – Roma, 30 novembre/5 dicembre 2021)

Ritratto sulfureo di Eduardo in un anno molto eduardiano. Musella non prova a imitarne la voce ma ad entrarne nello spirito attraverso suoi scritti diretti e puntuti. Che introducono un uomo di teatro con le idee chiare e un uomo difficile ma di inappuntabile serietà.

Con Eduardo non c’è diritto di primogenitura parentale, semmai la napoletanità è una naturale chiave d’accesso per entrare più facilmente nel personaggio, complice il dialetto. Musella seleziona suoi scritti importanti e li valorizza in uno spettacolo in cui non desta fatica e stanchezza l’attore solitario per più di novanta minuti in scena. La tavola e il chiodo del titolo riassumono il carattere globale dell’attore di teatro, fatto anche di scena, di maestranze, di personale tecnico, dunque di chiodi che entrano nella superficie, nell’abituale concretezza del lavoro pratico di tutti i giorni. E quelle sono le parole incise su una lapide del palcoscenico del San Ferdinando, ricordo di Peppino Mercurio, suo macchinista per una vita. Musella anima la scena importante del Vascello con movimenti accurati e mai casuali e con un sottofondo musicale tutt’altro che invasivo conquistando il pubblico. Forse crea leggermente più in ansia nella deriva finale. Leggendo la lettere lunga (forse troppo lunga) rivolta al Ministro Tupini. Parole che avrebbero valore anche oggi se indirizzate al Ministro Franceschini. Il teatro come pecora nera della cultura, l’assoluta valorizzazione degli Stabili a dispetto dei teatri minori e/o di provincia. Eduardo in quella missiva chiede un riscatto impossibile con parole di oggi. C’è la stanchezza dell’uomo che tanto si è speso per una causa che alla fine è persa. Eduardo è spiritoso, paradossale, conseguente. L’intellettuale, l’uomo di teatro, il capocomico, il combattente, l’uomo di teatro, logorato da tante battaglie. Con tanti consigli legati alla professione dell’attore spese in uno spettacolo di riuscita rievocazione che va dritto al cuore e al cervello anche attraverso il lavoro allo specchio di un’intervista con lampi fulminanti d’ilarità.

data di pubblicazione:03/12/2021


Il nostro voto:

BATTI CINQUE di Paolo Nanna alias Dottor Pesce – edizioni Amazon, 2021

BATTI CINQUE di Paolo Nanna alias Dottor Pesce – edizioni Amazon, 2021

One man show meglio dal vivo che dal morto, il comico da strada vedendosi vietata quest’ultima, ha fatto di necessità virtù e dall’interno della propria abitazione ha scortato presso presso la pandemia giorno dopo giorno con un diario di viaggio, ruspante e familiare. Appena sveglio, in vestaglia, in condizione di trasmissione telematica di emergenza, da solo o con ospiti, condominiale o solitario Nanna, ha reso più allegra, meno dura e più ricca di speranza la vita di centinaia di persone che hanno seguito i suoi collegamenti. E questo libro è il diario di viaggio nel tunnel della pandemia, ricco della sferzante ironia che lo ha resto celebre nel porta a porta e nella comunicazione verbale delle sue scorribande comiche, magari in coppia con Stefano Vigilante. Una descrizione fedele che registra i lutti, i sussulti della campagna, i profondi attimi di sconcerto, le illusioni, la dura quotidianità dell’esistenza. Così le dirette diventano testimonianza di un periodo che sogniamo ancora di lasciarci alle spalle. Se la letteratura pandemica non è stata gettonata nel biennio per ovvi motivi di rigetto, la traccia comica, auto-ironica e autocritica invece ha spalancato sentieri che il nostro autore ha agevolmente e disinvoltamente percorso con quella sana faccia tosta romana di periferia che lo contraddistingue. Dunque, non vi attendete nel libro concioni ideologiche o sofisticazioni intellettuale ma una sana voglia di comunicazione e il desiderio-mozione di uscire dalla palude, tutti insieme, magari tenendosi per mano e scacciando il maleficio con una battuta, un esorcismo. Dunque un manuale terapeutico e un’indicazione per il futuro oltre che un lieto auspicio. I collegamenti in quarantena sono stati un inno alla creatività e una soluzione per assistere menti turbate per le quali una risata ha avuto un effetto estremamente liberatorio. Leggendolo il cinque lo abbiamo battuto idealmente con lui un sacco di volte. Grazie Paolo, per questo enorme regalo collettivo.

data di pubblicazione:03/12/2021

IL POTERE DEL CANE di Jane Campion, 2021

IL POTERE DEL CANE di Jane Campion, 2021

Montana 1925, i fratelli Phil (Benedict Cumberbatch) e George Burbank (Jesse Plemons) dirigono uno dei più vasti allevamenti del Territorio. I loro caratteri ed aspetti fisici sono diametralmente opposti. Il primo, pur colto, ostenta atteggiamenti rudi, collerici esteriormente virili e rozzi, il secondo è timido e gentile. Quando quest’ultimo sposa la dolce ma fragile Rose (Kirsten Dunst) giovane vedova e madre di un adolescente sensibile ed effeminato e li porta a vivere nel ranch, Phil reagirà contro gli intrusi con una strategia sottile, sadica, spietata ed ambigua, fino a ….

 

Finalmente dopo 12 anni di assenza ecco tornare Jane Campion. Presentato a Venezia ove ha vinto il Leone d’argento per la regia, quest’ultimo lavoro della cineasta neozelandese ci conferma che il suo talento, la sua mano, la sua delicatezza espressiva non si sono affatto affievoliti. Tutt’altro!!

Diciamolo subito, a scanso equivoci, il film non è affatto un western, semmai è un finto western in cui la Campion destruttura i codici del genere e ne usa gli sfondi naturali per disegnare un vasto dramma psicologico dalle molteplici sfaccettature. Un dramma fra mascolinità torbida ed esteriore e dissidi interiori e repressi. La regista risuscita certo alcuni stilemi tipici del vecchio western classico ma non ci sono però pistoleri, scazzottate o duelli, il mito del cowboy è riportato alla sua realtà originaria di vaccaro, di allevatore e di proprietario terriero. La Campion però è indubbiamente innamorata del genere e, senza forzature nostalgiche, sa disseminare il film di riferimenti e citazioni dei grandi registi (John Ford in primis) che fanno la gioia degli appassionati e che servono alla regista per far notare i segni e le tematiche della modernità che avanza inesorabile. Un confronto fra la fine di un’epoca che è già leggenda e l’affermazione definitiva della nuova era.

Come sempre nei suoi film, la messa in scena della Campion è splendida ed è capace di catturare tanto la maestosità e la vastità degli ambienti che sovrastano uomini, cose ed animali (un Montana tutto neozelandese) quanto la bellezza dei dettagli. Il grande ed il piccolo in una simbiosi che si ritrova in tutto il film e che, a tratti, ricorda il migliore Terrence Malick. Tutto assume importanza ai fini della narrazione, soprattutto i dettagli!! La fotografia poi è splendida, un lavoro su luce e colori che va ben al di là del mero estetismo. Un film da vedere sul grande schermo! peccato che sia passato in sala solo per due settimane prima di essere messo in onda su Netflix.

Il Potere del Cane è un bel film ma è complesso e denso di simboli e significati, un film intimista in cui il non detto, l’accennato è più che rilevante, la suggestione è più importante del manifesto. Un’eccezionale analisi dell’animo umano e delle sue ambiguità. La regista nel farlo si prende i suoi tempi e governa magistralmente tutta l’evoluzione della storia usando ritmi lenti, una sinfonia in crescendo, quasi una tensione trattenuta, senza mai però perdere vigore, restando sempre coinvolgente. Il racconto è diviso in capitoli che seguono il corso dei fatti, delle stagioni e l’evoluzione dei personaggi ed i rapporti fra loro. Ben lungi dal tener lontano lo spettatore tutto ciò, al contrario, lo avvolge e lo coinvolge piano piano, nel sottile ingranaggio e nel gioco perverso dei protagonisti fino a quando, alla fine, le apparenze si dissolvono.

Ulteriore punto di forza del film è poi anche l’ottima performance del quartetto di attori. Al centro e su tutti brilla Cumberbatch. Assolutamente una delle sue migliori interpretazioni tutta giocata sul non esplicito, sul gesto, sulla sfumatura e sull’intensità. L’attore domina il film con la sua presenza.

Pur senza eguagliare i precedenti capolavori della Campion, Il Potere del Cane è senza dubbio un film di autentica elevata qualità, non certo facile, direi impegnativo ma affascinante. Un film in cui la Campion si conferma eccelsa maestra nel fondere gusto estetico, grande spettacolo e studio dell’essere umano.

data di pubblicazione:03/12/2021


Scopri con un click il nostro voto: