da Salvatore Cusimano | Set 6, 2024
Stefano e Giulio sono due amici, laureati in medicina, con diverse visioni della loro professione, applicate alla situazione di guerra (1918, prima guerra mondiale). Il primo (Gabriel Montesi) vorrebbe rimandare al fronte tutti al primo accenno di guarigione, mentre il secondo (Alessandro Borghi) fa di tutto per far tornare a casa i poveri soldati,. Fra i due soldati c’è Anna, ex compagna di università.
Gianni Amelio presenta a Venezia un’opera intensa, una visione sulla prima guerra mondiale che fa guardare anche alle guerre odierne, dall’Ucraina al Medio Oriente. Ambientato in Friuli Venezia Giulia, al dramma della guerra si aggiunge anche la grande epidemia di febbre spagnola. L’ambientazione prevalente nell’ospedale militare dona una versione leggermente claustrofobica del cinema del regista italiano, che si sofferma spesso sulle ferite dei poveri soldati, non solo quelle del corpo, ma anche dell’anima, quell’anima di un paese al collasso, piena di dialetti e proprio per questo apparentemente impossibilitato ad una visione unitaria. Tratto dal romanzo La sfida (2018) di Carlo Patriarca, il film ha chiaramente il suo fulcro nelle visioni contrapposte dei due amici fraterni, interpretati da due dei migliori attori della loro generazione: Alessandro Borghi e Gabriel Montesi, qui alle prese con lo sforzo di adattamento al dialetto friulano, sforzo mediamente riuscito.
L’insistenza dei colpi di tosse, mischiata ai deboli spiragli che provengono dall’esterno, con il rumore del vento, danno un tono abbastanza mesto al tutto, inevitabile per il tema trattato. I temi come l’amicizia stretta e l’amore non dichiarato sono sempre di attualità. La frase “Qui non muore nessuno” viene ripetuta due volte ed è una sorta di mantra per volersi allontanare dalla realtà, per sfiorare l’utopia che tutti sogniamo, ma il responso di una realtà come la guerra lo conosciamo tutti.
data di pubblicazione:06/09/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Set 5, 2024
Rémy e Sandra sono una coppia consolidata. Non hanno dubbi sulla profondità del loro legame. Non riescono però ad avere figli pur desiderandoli. Sono affetti dalla “Sindrome degli amori passati”. Per guarire non hanno che una soluzione: andare a letto nuovamente con i loro precedenti “ex” … con tutti i possibili rischi …
Il film, opera seconda della coppia di registi e sceneggiatori belgi, è stato presentato alla Settimana della Critica di Cannes 2023. Dopo un anno di positivi apprezzamenti di critica e di pubblico nei cinema europei, esce finalmente anche sui nostri schermi. Si tratta di un’opera originale ed insolita, fresca e buffa che con intelligenza ed ironia evidenzia le difficoltà delle coppie d’oggigiorno a viversi con accettazione l’uno dell’altro e ad aprirsi alle reciproche esigenze. Lo spunto di partenza è l’idea totalmente strampalata che impone alle coppie di ripercorrere le esperienze sessuali pregresse per poter superare la Sindrome che impedisce loro di avere i figli desiderati.
L’idea come tale da sola non potrebbe certo riuscire a reggere un intero film. Eppure, gli autori riescono a rendere la storia credibile ed a catturare l’interesse degli spettatori fino alla fine. Ci riescono grazie ad una sceneggiatura ben scritta in ogni dettaglio e ad una sapiente combinazione di toni. Una giusta alternanza di scene leggere ad altre più profonde, in un susseguirsi di situazioni stravaganti. I due registi sono sempre attenti ad evitare il dramma o le situazioni strappalacrime. Cercano piuttosto di divertire pur testimoniando le tante difficoltà di essere una coppia. Rappresentano con gusto ed ironia la ricerca e la rivisitazione “fisica” dei passati amori che consentirà ai protagonisti di capire ciò che ciascuno è, e… soprattutto comprendere anche chi è l’altro (reminiscenze e citazioni di Truffaut di Domicile Conjugal e di Kubrick di Eyes Wide Shut). Proprio tramite gli “ex” i nostri potranno infatti vivere, rivivere e confrontare i propri vissuti su temi fondamentali quali: l’Amore, il sesso, il desiderio fisico dentro e fuori la coppia, l’infedeltà, la gelosia e la singolarità dell’individuo pur nell’osmosi della coppia stessa.
Lucie Gousseau e Lazare Debay, pur se poco conosciuti dal pubblico italiano, sono bravi nel dare corpo e sostanza con finezza ed equilibrio a questo gioco continuo di ridefinizione dei ruoli. Attorno a loro dei coprotagonisti che non sono da meno per naturalezza recitativa. Il montaggio con inquadrature tagliate senza raccordo fra loro aumenta ancor più il ritmo della narrazione. I dialoghi sono cesellati al dettaglio ed essenziali. La messa in scena infine è piena di idee e piacevolmente onirica, poetica e surreale. Sia ben chiaro ci sono anche difetti: ripetizioni, cadute di tensione, ellissi eccessive… ma tutti accettabili in un’opera seconda.
La Sindrome degli Amori Passati è dunque una graziosa commedia, una piacevole favola moderna o, farsa contemporanea. È leggera e gioiosa, ricca di colpi di scena e fa bene allo spirito. Non mantiene certo tutte le promesse ma è ben fatta, intelligente, buffa e, malgrado i temi affrontati, priva di ogni gratuita volgarità.
data di pubblicazione: 05/09/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniela Palumbo | Ago 30, 2024
Un caso di cronaca che sconvolse la Lucania negli anni‘90 viene rappresentato da questa fiction diretta da Marco Pontecorvo, già trasmessa lo scorso anno su Rai uno ed approdata in sei episodi su Netflix.
La giovane Elisa – interpretata da Ludovica Ciaschetti – un giorno non fa ritorno a casa e non viene più ritrovata. L’ultimo ad averla incontrata, in una chiesa di Potenza, è Danilo Restivo, già stalker di altre giovani donne e protetto dal padre in ogni circostanza. La famiglia Claps non si arrende e conduce una lotta disperata alla ricerca di verità e giustizia. Protagonisti assoluti di una tale impresa, il fratello Gildo, che qui ha il volto di uno straordinario Gianmarco Saurino, il fratello minore Luciano (Giacomo Giorgio) e i genitori, Filomena e Antonio Claps, interpretati da Anna Ferruzzo e Vincenzo Ferrera. Una prova corale e suggestiva, per non far dimenticare Elisa. Qualcosa che lascia il segno.
È esistita davvero, Elisa Claps. Così come è scomparsa davvero, una mattina all’improvviso. Misteriosamente no. È tutto fin troppo chiaro sin dall’inizio della storia, che non a caso comincia in un giornata di sole, su una spiaggia, all’aria aperta. Dove si proietta subito anche l’ombra del male, giunto a un passo da lei, a spiarla, a coprirne la luce.
Elisa Claps vive per poco. E sulla scena vive ancora meno. Il tempo di una gita al mare col fratello e di una cena in famiglia. Poche riprese, poche inquadrature. Per noi, è come sbirciare appena da una finestra aperta, mentre qualcun altro scruta da una fessura.
Elisa Claps è un misto di tenerezza e di ironia. Lo si percepisce anche solo pronunciando il suo nome completo. Sentendola parlare col suo tono ora buffo ora quasi struggente. Guardandola negli occhi, guardandola sorridere.
Elisa – figlia, amica, compagna di scuola – muore. Muore prematuramente. Muore assassinata, per mano di qualcuno che lei conosce e chiama per nome (Ciao Danì!). Che difende persino. Da chi non è gentile con lui. Perché lo trova “strano”.
Diciassette anni dopo la sua scomparsa, davanti a una bara bianca con un corpo finalmente ritrovato, qualcun altro, che l’ha amata come se stesso, dirà: Oggi siamo qui. A celebrare il funerale di mia sorella… “Mia sorella”, dirà. Ed è in quel preciso momento che si comprende davvero: Elisa – figlia, amica, compagna – è soprattutto “sorella”. Di tutti noi (più che semplici spettatori) come di Gildo Claps. Soffriamo per lei e con lui. Ci illudiamo fino all’ultimo di tutte le illusioni possibili e impossibili, contro ogni evidenza e pur conoscendo la storia (“fatto di cronaca”, tristemente noto). Ci sentiamo legati a quella famiglia che l’ha amata così tanto, e dove ciascuno ama ciascun altro così tanto. Ci muoviamo anche noi nella città che l’ha vista nascere, abominevole ammasso di cemento in alcune inquadrature, magico presepe illuminato dalle mille fiaccole, in altre. Città dal volto duplice: costellazione e discarica.
E certamente, proviamo rabbia e impotenza per tutto quanto rimane impunito, occultato, trascurato, eluso, per un tempo che pare senza fine. Ci perdiamo, anche noi, nei vicoli ciechi e nei pozzi senza fondo come nei cantieri abbandonati e complici. In quella sagrestia che diventa porta per l’inferno, nel sottotetto di quella chiesa che si cambia in sepolcro. Immondo, come chi collude col male più nero. Siamo vicini, non solo a Gildo, “il” fratello. Vicini a quella madre irrigidita nel dolore e al tempo stesso amorevole, a quel fratello più giovane che sente di non aver “fatto abbastanza”. A quel padre, infine, che non vuole più lottare. Un po’ accusando “l’Italia dei pagliacci” un po’ incolpando se stesso per non aver saputo proteggere la sua famiglia, proteggere Elisa. Elisa Claps. Dolce come una sonata al piano, vivace come un batter di mani. Partecipare a quei funerali postumi, in piazza, tra la gente, lui non lo vorrà. Lui, il padre – mentre Gildo “il fratello” parla alla folla commossa – preferisce stare su una panchina in mezzo a un po’ di verde, in solitudine. A fissare il vuoto, a cercare un ricordo che finalmente – almeno quello – torna ad essere vivo, e risorge.
Attraverso lo schermo, il nostro posto è lì, con lui, ma restando in silenzio. Senza disturbare.
data di pubblicazione:30/08/2024
da Antonio Jacolina | Ago 28, 2024
Gerard Butler è sopravvissuto ad un’efferata rapina in cui la moglie e la figlia sono state uccise davanti ai suoi occhi. Jamie Foxx è il procuratore che per opportunismo di carriera rinuncia, in sede processuale, a chiedere pene severe per gli autori dell’eccidio. Butler avrà un’unica ossessione la vendetta. Una vendetta elaborata e spettacolare che prenderà di mira tutti coloro che sono stati coinvolti nel processo. Metterà l’intera città nel caos e nel terrore …
Diciamolo subito all’ignaro spettatore che spinto dalla persistente calura dovesse decidere di andare a vedere Giustizia Privata. Non si tratta di un film nuovo, non è nemmeno un remake, è semplicemente lo stesso film già uscito in Italia nell’ormai lontano 2010! Un’operazione commerciale di Fine Estate funzionale a fare da traino al “seguito” prodotto da Netflix con gli stessi protagonisti e di ormai prossima distribuzione. All’epoca, pur fra giudizi contrastanti Giustizia Privata ebbe un discreto successo di pubblico e di incassi, soprattutto in America. Un revenge movie che malgrado la morale molto discutibile ha continuato negli anni a collezionare apprezzamenti e sempre nuovi fan fra gli appassionati del genere e ancora di più dopo la sua distribuzione sulle piattaforme streaming. Un successo che ha convinto Netflix ed i due protagonisti ad investire significativamente per produrre, realizzare, interpretare e distribuire un suo “seguito”.
Gary Gray era ed è un buon mestierante ed un habitué degli action thriller. In questo film riprende i modelli degli exploitation movie degli anni ‘70 ed ’80 quelli dei giustizieri, dei poliziotti o degli ispettori al di sopra della legge. Al centro del plot c’è infatti l’onesto cittadino, costretto a farsi giustizia da solo davanti ad un Sistema Giudiziario lassista ed ad un Procuratore ambizioso attento solo alla carriera. L’idea centrale del film è tutta nel gioco perverso e sottile fra il vendicatore ed il procuratore. Il primo si è scientemente fatto arrestare e dal carcere realizza la vendetta preparata da tempo. Il secondo cerca di anticiparne le mosse. Un approccio narrativo interessante, insolito ed intrigante, che ben prometteva. Il film è sì ricco di colpi di scena, il ritmo è sostenuto e quasi non lascia un attimo di tregua, ma qualcosa si inceppa e non va come dovrebbe. Dopo una prima parte interessante e carica di aspettative il regista non più ben sostenuto dallo script eccede in elissi narrative, i toni si fanno esagerati e si compromette così la verosimiglianza e la credibilità della vicenda a tutto danno della suspense e della logica narrativa. I due protagonisti ce la mettono tutta, ma non basta il loro impegno. La grave carenza di sceneggiatura inficia anche i loro sforzi.
Alla fine Giustizia Privata, oggi più di 14 anni fa è un film che soddisferà quegli spettatori che cercano dei semplici stimoli emotivi. Tutti gli altri che però non amano l’approssimazione o che non si contentano di vaghe suggestioni ne resteranno abbastanza delusi.
data di pubblicazione:28/08/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Ago 27, 2024
Presentato in anteprima durante l’ultima edizione del Taormina Film Fest, il secondo lungometraggio di Riccardo Antonaroli ha come protagonisti Pilar Fogliati e Filippo Scicchitano nei ruoli di Eleonora e Valerio, coppia di novelli sposi alle prese con una prima notte di nozze un po’ anomala ed alquanto scoppiettante…
Finita la festa, gli sposi si incamminano verso la loro “Love Suite” sita all’ultimo piano di un lussuoso albergo di Roma. La suite è stata offerta da Ester e Michele, gli invadenti e protettivi genitori di Valerio, scettici da sempre su questa unione già così carica di presagi negativi. Nei corridoi gli sposi si imbattono in un singolare cameriere le cui fattezze ricordano più quelle di un fantasma che di un personaggio reale. Senza essere interpellato, l’uomo (che “apparirà” più di una volta durante questa lunga notte appena iniziata) ricorderà a chiunque lo incontri i nomi dei personaggi illustri che hanno soggiornato nella “suite dell’amore”. Ma l’idea della sposa di aprire “prima” qualche regalo, darà a questa notte una valenza completamente diversa da quella che, canonicamente, avrebbe dovuto avere. Inizierà subito un battibecco tra i due sposi che diventerà lite quando Eleonora in una busta-regalo destinata allo sposo troverà un assegno bancario e un anello con su inciso ”monamour”… E così quella che doveva essere una romantica notte d’amore si trasformerà in una angosciante odissea metropolitana, fatta di incontri sbagliati, dubbi, paure, fughe e sogni infranti.
Il film è un remake di Honeymood, una commedia israeliana del 2020 presentata solo tre anni fa proprio al Taormina Film Fest. Nonostante il film pecchi decisamente di originalità vista la così stretta vicinanza in termini temporali con “l’originale”, può fortunatamente fare affidamento su di un cast d’attori che non delude, ad iniziare dalla affiatata coppia Fogliati-Scicchitano. Lei aspirante osteopata con il sogno infranto di diventare stilista. Lui, figlio di un rabbino, appassionato di libri gialli con il sogno nel cassetto di potere un giorno scriverne uno, preferisce fare l’agente immobiliare invece di lavorare nel negozio di famiglia. Ci sono poi un singolare tassista, molto minaccioso, molto romano ma molto poco romanista, interpretato da Francesco Pannofino e Armando de Razza, il cameriere-fantasma che con le sue improvvise incursioni sulla scena riesce a strappare più di un sorriso. Ma la coppia d’assi è rappresentata da Lucia Ocone e Giorgio Tirabassi, che incarnano Ester e Michele, i genitori invadenti e soffocanti di Valerio, entrambi molto nella parte, con una vena comica da navigati attori.
Premesso che di temi come la fuga o i pentimenti prima, durante e dopo le nozze, è piena la cinematografia mondiale e che il film non è di quelli che lasciano il segno, qualche battuta carina c’è (“…non basta essere ebrei per fare battute, bisogna essere Woody Allen…”) e l’uscita nelle sale il 28 di agosto agevolerà sicuramente la pellicola che verrà vista come una continuazione, in termini di spensieratezza, delle vacanze prima della ripresa autunnale. Al pubblico l’ardua sentenza.
data di pubblicazione:27/08/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniela Palumbo | Ago 24, 2024
Tratto dal romanzo omonimo di Mariapia Veladiano, il film di Marco Tullio Giordana racconta la storia di una famiglia dell’alta borghesia vicentina negli ultimi decenni del Novecento. Da Maria e Osvaldo nasce Rebecca, la figlia tanto desiderata. L’elemento perturbante e inatteso: la bambina ha una vistosa macchia rossa su un lato del viso. Colta da una forte depressione, la madre la respinge, chiudendosi in se stessa sino al tragico epilogo. Rebecca, cresciuta sotto l’ala della zia Erminia, pianista e concertista di successo, scoprirà nella musica una via di liberazione e di salvezza.
Si può amare e respingere insieme? La storia – così come il regista ha scelto di raccontarla – ruota intorno a queste poche parole. A questo interrogativo che sembra non trovare risposta. Se non nelle pieghe nascoste di una follia visionaria, nelle apparizioni oniriche, nella musica, nelle pagine di un diario segreto.
Un’atmosfera plumbea, sin dalle primissime scene, pervade la ricca dimora di una ricca famiglia di Vicenza, in attesa del primo figlio. Ricca, ma solo nella forma (poverina, poverina… poverini tutti!) È un labirinto di stanze e di saloni, di scale e di corridoi, quella grande casa. E relegata in quel labirinto, al pari di un mostruoso Minotauro, vivrà i suoi primi anni di vita Rebecca, la bambina nata da Osvaldo (Paolo Pierobon) e Maria (Valentina Bellè). Isolata e reclusa, sottratta alla vista degli altri, estranei alla famiglia, allo “sguardo che uccide” e che giudica. Rebecca (interpretata da diverse attrici, da Sara Ciocca all’esordiente Beatrice Barison) non è una bambina “come tutte le altre”. È un “mostro di natura” che la madre rifiuta di prendere in braccio e persino di guardare in viso, per consolarne il pianto.
Esattamente come una lettera scarlatta, quella macchia rosso sangue impressa sul viso rappresenta il segno evidente della colpa, di una condanna senza possibilità di espiazione. Colpa che qui si rovescia sull’innocenza più pura. Un peccato originale ricade sulla creatura appena nata a tal punto che neppure il battesimo dei cristiani potrebbe cancellarlo. Ma l’acqua santa gliela lava via la macchia? – chiederà Maria, madonna senza Dio e senza fede. Una madre fantasma, spodestata e vicariata, per forza di cose, dalla gemella di Osvaldo, Erminia (Sonia Bergamasco). Donna determinata, volitiva, composta. Decisa, tanto nell’esecuzione di un brano al pianoforte quanto nella pianificazione della propria (ed altrui) esistenza. Alter ego. Seguendo il suo esempio, Rebecca imparerà a forgiare il suo innato talento per la musica attraverso la disciplina, con esercizi estenuanti e ripetitivi. Inutili le suppliche della madre di “suonare qualcosa” (senza le scale non si va da nessuna parte).
Ridondante è anche la simbologia cromatica, nel corso di tutta la pellicola. Il rossetto vermiglio sulle labbra di Erminia, la porpora delle poltrone a teatro si contrappongono al nero luttuoso o al bianco spettrale della figura di Maria, dall’inizio alla fine, in rapida involuzione.
Il regista, con l’ausilio di una fotografia a tratti molto suggestiva, racconta dunque il corpo e lo spirito attraverso un gioco di luci ed ombre. Di tasti bianchi e neri, con delle punte rosso fuoco che s’intravvedono nei martelletti al tocco violento delle dita.
E vivendo “accanto” alle ombre, scoperchiate e risorte – non al di sopra, né sotto di esse ma accanto, così da poterle guardare negli occhi e parlarci faccia a faccia – si arriva a scoprire una verità, che è vera luce. Anche se viene dalla notte. E dalla notte estrema.
data di pubblicazione:24/08/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Ago 21, 2024
Arriva finalmente nelle sale italiane l’ultima pellicola di Kore’eda Hirokazu premiato nel 2023 al Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura firmata da Sakamoto Yuji. Il film è dedicato alla memoria del compositore premio Oscar Ryuichi Sakamoto, autore della colonna sonora, scomparso due mesi prima che il film venisse presentato al pubblico di Cannes.
Minato e Yori sono figli di genitori single. Minato vive con la mamma vedova ed è in età preadolescenziale, Yori con il padre, manesco e sovente ubriaco. Tra i due sembra esserci uno strano rapporto: Minato è più grande e sembrerebbe bullizzare Yori, piccolo e stravagante e per questo sovente oggetto di battute e sberleffi da parte di molti compagni di scuola. Saori, la madre di Minato, si accorge che suo figlio si comporta in maniera strana, è triste, pensieroso, e sembra nasconderle qualcosa. Un giorno, nell’osservare dalla finestra il divampare di un incendio ai piani alti del palazzo di fronte dove all’interno c’è un “bar per adulti” abitualmente frequentato dal padre di Minato, questi chiede alla madre: “se a un uomo viene impiantato il cervello di un maiale è ancora un uomo o è un mostro?”. La domanda porta Saori a chiedere al figlio da chi avesse sentito una cosa simile e dopo tante insistenze Minato confessa che il suo professore, il signor Hori, gli aveva detto che aveva il cervello di un maiale. Saori si rivolge alla preside per avere spiegazioni. Ma sia lei che l’intero corpo docente non le forniscono risposte. La situazione cambia quando Minato prende parte a una rissa a scuola…
Il film è articolato in un modo tale che la storia iniziale si ripeta diverse volte inquadrata dall’angolazione di ogni partecipante. Ognuno di loro apre allo spettatore una visione differente dell’accaduto, ad iniziare dal misterioso incendio iniziale da cui sembra nascere tutto. Appare evidente che la tranquillità di una piccola cittadina giapponese nasconda “scintille” che fanno poi divampare incendi, paragonabili alle incomprensioni di alcuni adulti che non sanno o non vogliono vedere ciò che è davanti i loro occhi, in uno scenario a volte vero e autentico e a volte presunto e assai limitato dallo sguardo parziale di alcuni protagonisti.
Alla fine si arriverà, grazie ad una sceneggiatura perfetta, a qualcosa di inaspettato che ha a che fare con l’amore, con la crescita, con gli interrogativi più intimi e primari che assalgono chi è sulla linea di confine tra infanzia e adolescenza, di cui Minato e Yori ne sono i degni rappresentanti. Il pregiudizio e la cieca incomprensione sono tra i temi principali di questo film, un vero gioiello delicato e struggente che attraverso immagini e dialoghi ci insegna tanto sull’amore e l’amicizia.
data di pubblicazione:21/08/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Ago 5, 2024
Il detective Enzo Vitello è a capo delle indagini che stanno seguendo gli spietati omicidi, apparentemente senza un nesso logico tra di loro, di un serial killer a cui hanno dato il nome Dostoevskij. Alla base di questa scelta c’è il fatto che, dopo ogni esecuzione, l’omicida lascia sempre una lettera in cui manifesta la sua cupa visione del mondo. La polizia cerca di interpretare questi messaggi criptici per costruire un identikit credibile che possa rivelare la personalità dell’assassino…
Dopo il successo di Favolacce, presentato alla Berlinale nel 2020 dove ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura, e dopo l’insuccesso di America Latina, flop ammesso dagli stessi autori, ecco che i fratelli D’Innocenzo ritornano al grande pubblico questa volta con una serie televisiva. In anteprima mondiale al Festival di Berlino di quest’anno, è stata proposta per pochi giorni al cinema, dividendo i sei episodi in due parti, prima di andare in autunno su Sky. Ancora una volta i due enfant prodige del cinema italiano si trovano impegnati in qualcosa che va al di là di ogni plausibile aspettativa. La trasgressione, in tutte le forme immaginabili, sembra essere il punto di forza di questi giovani registi, per niente convenzionali, che hanno imparato a trasmettere sensazioni sgradevoli con un tono e una leggerezza a volte disarmanti. Probabilmente condizionati dalle proprie origini, i D’Innocenzo amano descrivere un’umanità di disadattati che vivono in miseria estrema, ai margini della società. Così, anche in questa storia, troviamo che i personaggi coinvolti devono fare i conti con la propria realtà nel tentativo di rappacificarsi con un passato scomodo, tutto da seppellire. Il racconto tiene ovviamente conto della figura di un killer seriale senza scrupoli, ma ciò in cui si concentra l’attenzione riguarda il personaggio del poliziotto (Filippo Timi) e del suo ruolo, di padre fallito e assente, nei confronti della figlia (Carlotta Gamba), oramai tossica all’ultimo stadio. Proprio questo tentativo di recupero di un rapporto irrecuperabile è ciò che tiene sveglio l’interesse dello spettatore. Il killer da protagonista diventa a questo punto l’attore secondario della scena. L’unica immagine di lui ci arriva tramite le sue lettere, lasciate accuratamente accanto ai cadaveri, in cui si manifesta un disadattamento sociale, e dove si concretizzano quelle che gli stessi registi definiscono “le estreme conseguenze di essere vivi”. Un film in cui ritroviamo di tutto, tra squallore e degrado estremo, dove si evidenziano gli archetipi di una società, oramai alla deriva, che non li riconosce più come suoi. Si rimane stupiti e conquistati dalla recitazione di Carlotta Gamba dove a Berlino era presente quest’anno, oltre che nella serie Dostoevskij, anche nel film in concorso Gloria di Margherita Vicario. Dopo aver interpretato l’eterea figura di Beatrice nel film di Pupi Avati su Dante, risulta difficile immaginarla nel ruolo di una ragazza istintiva, con una grande fragilità e con un enorme trauma da superare.
data di pubblicazione:05/08/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Lug 31, 2024
Miami, Florida. I due detective (Will Smith e Martin Lawrence) aspirano ormai ad una vita più tranquilla. Il loro defunto ex capitano è però accusato di essere stato colluso con i narcos. Indagheranno per rivendicare la sua onorabilità e dovranno vedersela contro i cartelli della droga e contro tutti …
La coppia Smith e Lawrence ritorna sugli schermi per il quarto capitolo della serie di Bad Boys iniziata nel lontano 1995. Anche questa avventura come Bad Boys For Life (2020) è firmata da Adil El Arbi e Bilall Fallah. Il duo di registi belgi fa di tutto per cercare di ridare freschezza, gusto e sapore ad una saga che continua da quasi trenta anni. Gli ingredienti sono i soliti: inseguimenti, acrobazie, sparatorie, battute sarcastiche e grevi ed il gioco sui contrasti caratteriali della coppia di poliziotti. Questo, in effetti, è l’Universo Bad Boys. Un Blockbuster supervitaminizzato che tiene in equilibrio humour ed azione senza mai troppo badare alla raffinatezza o all’originalità.
Gli anni ’90 sono però passati da un pezzo ed i “Cattivi Ragazzi” sono invecchiati e non hanno guadagnato in originalità. Gli autori non sono più quelli iniziali, l’umorismo è un po’ stantio, le battute datate e deboli, il filo narrativo fragile e contorto. Il tandem di registi prova a compensare la debolezza della sceneggiatura con uno stile ed un ritmo ipercinetico ed incalzante ma la realizzazione e le scene d’azione risultano talora simili ad un incrocio fra un video game ed una video clip. Siamo lontani da un film d’azione cinematografico. Nonostante alcuni momenti folgoranti che comunque ci sono, anche se pochi, il film dà una sensazione di già visto e già sentito, prevedibile, scontato e privo di profondità.
L’impegno dei due protagonisti la cui chimica, pur dopo tanti anni, non è diminuita e la buona colonna sonora che bene ricrea le atmosfere locali, non riescono a fare emergere questo nuovo episodio da una normalità commerciale. Il gioco sulla Nostalgia è fin troppo smaccato. Certo i fan della prima ora saranno più che felici ed apprezzeranno i tanti riferimenti al passato. La sola Nostalgia non può però perdonare tutto!
Bad Boys Ride or Die è quindi un buddy cop movie appena discreto con chiare finalità di continuare a fare cassa o catturare nuovi fan . Andrà certamente bene per chi ama la saga o il genere o cerca il divertimento facile, rassicurante e muscoloso. Un film estivo di mero intrattenimento!
data di pubblicazione:31/07/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Ludovica Fasciani | Lug 30, 2024
(Teatro India – Roma, 28 luglio 2024)
I tre spettacoli finalisti del Fringe, il Festival di teatro indipendente, vanno in scena al Teatro India. Il festival, con 45 alzate di sipario in meno di due settimane, ha presentato al pubblico romano il meglio delle proposte indipendenti del teatro italiano.
Il 28 luglio il Teatro India ha ospitato la finale del Roma Fringe Festival, nell’afosa atmosfera dell’estate romana caricata dagli odori umidi del Tevere in secca. Sul palco del secondo Teatro di Roma si sono succeduti i tre spettacoli selezionati da una giuria composta da direttori e direttrici dei teatri aderenti a Zona indipendente. Il Fringe, ormai una presenza fissa e importante nel panorama teatrale romano, ha proposto in questa edizione una selezione di spettacoli da tutta Italia, portando in scena le nuove tendenze del teatro indipendente italiano. Gli spettacoli finalisti sono stati La distrazione della formica, con Niccolò Felici e Daniele Trombetti, per la regia di Kabir Tavani, Ismael, di e con Massimiliano Frateschi, per la regia di Graziano Piazza, e Le nostre folli capriole nel sole, interpretato da Iulia Bonagura ed Emanuele Baroni, quest’ultimo anche alla regia.
La serata si è aperta con la descrizione dell’alienante ritmo del lavoro in fabbrica nel testo inedito de La distrazione della formica. Il formicaio della media borghesia e del basso proletariato è al centro della trama di Niccolò Felici, che esplora le dinamiche del lavoro contemporaneo e della lotta di classe. A seguire, la dissacrante leggerezza intervallata da scorci di grande intensità emotiva di Ismael, di e con Massimiliano Frateschi. La brillante presenza scenica di Frateschi e l’efficacia dei ritmi del dialogo, ancora più sorprendenti se si considera che l’attore è seduto per tutta la durata dello spettacolo, hanno permesso a Frateschi di vincere il meritatissimo premio Miglior Attore di questa edizione del Fringe. Lo spettacolo racconta l’intreccio di un viaggio straziante, quello di una persona migrante – un “abusivo”, dice lui, “perché è vero, sono abusivo” – che dalla Siria raggiunge lo squallore di un Ufficio Immigrazione romano. Una storia vera, raccolta da Frateschi dalle labbra stesse del suo reale protagonista, che si aggiudica anche il premio della Giuria. A chiudere la serata, lo spettacolo vincitore di questa edizione del Fringe Festival: Le nostre folli capriole nel sole, di Iulia Bonagura, che racconta l’amicizia tra due bambini dalle personalità opposte e sorprendentemente compatibili. L’evoluzione dei due personaggi, che attraversano un’infanzia e un’adolescenza fitte di alcuni problemi comuni, come le prime cotte, e di altri più invadenti, è seguita con attenzione alla fluidità del racconto e visualizzata grazie a piccoli, rapidi cambi di costume e scenografia. Accompagnando il pubblico verso l’inevitabile finale (con qualche concessione, forse un po’ zuccherina, al lirismo), costruito con molta fedeltà all’identità dei due protagonisti. Oltre al premio per il Migliore spettacolo, Le nostre folli capriole nel sole si aggiudica anche quello per la Migliore drammaturgia e per la Migliore attrice, quest’ultimo ex equo con Agata Marchi per lo spettacolo Comadre/ la Cantadora, che abbiamo già recensito.
Le nostre folli capriole nel sole vince dunque una tournée di 12 date italiane presso i teatri del circuito Zona Indipendente per la stagione 2024-25.
data di pubblicazione:30/07/2024
Pagina 1 di 26912345...102030...»Ultima »
Gli ultimi commenti…