da Antonio Iraci | Mar 22, 2025
Coreografia, drammaturgia e interpretazione di Cristiana Morganti
(Teatro Vascello – Roma, 21/23 marzo 2025)
Cristiana si rivolge a un pubblico esigente per spiegare alcune tecniche di rilassamento e indurre a godersi lo spettacolo e la vita che lo contiene. Un’attenta riflessione su se stessa e sulle proprie sciagure. Momenti di gioia ma anche di ribellione verso quegli stilemi imposti da Pina Bausch. Se da un lato l’hanno formata, dall’altro le hanno impedito di assaporare appieno la propria libertà d’espressione…
É così che Cristiana Morganti esordisce sulla scena. Un fascio di luce psichedelica, piena di colore e calore. Una poltrona di plastica gonfiabile, perché è estremamente importante risparmiare sui costi di produzione e la poltrona si può cosi sgonfiare e riporre in borsa. Tutto va all’essenziale come anche la scarna descrizione di avvenimenti che riguardano un passato prossimo e un presente ancora da capire. Tante sono le cose che ci hanno travolto, come un’epidemia che ci ha destabilizzato e di cui ne piangiamo ancora le conseguenze. Su uno sfondo di immagini in continuo movimento, curate con estrema attenzione da Connie Prantera, Cristiana proietta la propria immagine. Un pot-pourri di suoni accompagnato da una danza con movimenti ora flessuosi ora deliranti, proprio per esprimere la discontinuità degli stati d’animo del soggetto. Sembra essere tornati agli happening degli anni settanta, quando l’improvvisazione scenica era l’unica possibilità espressiva e il teatro imponeva una partecipazione del pubblico all’evento artistico. Le storie si accavallano tra danza e monologo, le immagini non danno spazio a possibilità di riflessione perché tutto è freneticamente prodotto e consumato all’istante. Cristiana per un tempo sospeso accompagna per mano in questo labirinto di sensazioni corporali e il pubblico si lascia trasportare in un turbinio di risate. Alla fine dello spettacolo ci si sente come liberati da quel macigno che annienta nel quotidiano. L’azione liberatrice del teatro che attraverso la poesia alleggerisce da ogni passione e fa sentire più spediti e più vicini all’irrazionale. Non è piaggeria definire la drammaturgia di Cristiana Morganti come qualcosa di tecnicamente e emotivamente perfetto, una performance di altissimo livello, rievocazione di esperienze vissute. Una produzione Teatri di Pistoia Centro di produzione Teatrale in coproduzione con Fondazione I teatri – Reggio Emilia, Théâtre de la Ville – Paris, MA scène nationale-Pays de Montbèliard e con il sostegno di Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento.
data di pubblicazione:22/03/2025
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Mar 22, 2025
con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa e Mario Arcari
(Teatro Vascello – Roma, 11/16 marzo 2025)
«Chiamatemi Ishmael». Inizia citando l’incipit del romanzo di Melville lo spettacolo di Elio De Capitani, Moby Dick alla prova – dal riuscito adattamento in versi sciolti che ne fece Orson Welles settanta anni fa per il Duke of York’s Theatre di Londra – in scena dal 2022 nella produzione curata dal Teatro Elfo Puccini di Milano insieme al Teatro Stabile di Torino per la nuova traduzione, capolavoro drammaturgico, della poetessa Cristina Viti.
È uno spettacolo definito dal regista ‘totale’ quello che Elio De Capitani, legato dagli anni Settanta al teatro dell’Elfo di Milano, sta portando in tournée sui palcoscenici italiani per la quarta stagione. Un lavoro magnifico curato in ogni aspetto: dalla musica alla scena, dal testo alla performance degli attori. In questa lettura il teatro viene prima di tutto. Come spazio di aggregazione e luogo di e non solo per la poesia. Luogo della metafora, dove prendono corpo immaginifiche visioni accanto a tremendi incubi. Dove si celebra il rito della rappresentazione della sacralità dell’umano e dell’insondabile della sua coscienza. L’inafferrabile Moby Dick è un’idea della mente che diventa ossessione, come lo spettro del padre di Amleto.
L’idea che sostiene la trama compie marinarescamente un nodo a bandiera tra il Re Lear, che gli attori di una compagnia portano in scena ogni sera, e le prove di un nuovo spettacolo condotte al pomeriggio nel teatro vuoto, Moby Dick. Una prova, appunto. Un tentativo di cui non si è certi della riuscita. Sono capolavori epici, Lear e Moby Dick, entrambi a un primo momento considerati irrappresentabili. Ma Welles riuscirà nell’impresa, trionfando con uno spettacolo che fa leva su una parola potente, evocativa, capace di trascinare il pubblico tra marosi e imprese mortali. E ci riesce De Capitani, che da copione ricopre i ruoli che ritagliò per sé il regista di Quarto Potere del re scespiriano, dell’impresario della compagnia, di padre Mapple e del leggendario capitano Achab.
La scena è essenziale, usa attrezzi comuni che si trovano in teatro (tavoli, un grande telo tirato sul fondale e alte scale a pioli) per simulare le imbarcazioni da caccia, gli alberi della nave, le vele e gli abissi marini. Il teatro diventa meraviglia quando si crede al gioco della finzione. Sopperiscono alla povertà dei mezzi le indicazioni del “direttore di scena” (Cristina Crippa) che alla maniera del teatro epico (in senso brechtiano) elenca i luoghi dell’azione. Lo spettatore è così stretto nella morsa del racconto, nelle due e più ore in cui si svolgono i due atti, in un viaggio che parte dal pontile di Nantucket per passare nella cappella dove si fa memoria dei marinai morti in mare (oscuro presagio per la nuova ciurma in procinto di salpare), per poi salire sulla baleniera Pequod e passeggiare tra il ponte della nave e la cabina del capitano fino a giungere all’incontro con il mostruoso Leviatano che, sì, appare in scena. I colori sono quelli del mare in tempesta, delle sconfinate, brumose e gelide acque oceaniche. Un grigio malinconico che si attacca ai costumi (meravigliosi) di Ferdinando Bruni come la salsedine rimane addosso alla pelle nella navigazione.
Anche la musica e le luci sono protagoniste. Mario Arcari ha composto e suonato dal vivo una colonna sonora suggestiva quanto le parole, in cui si evoca al sassofono la sirena della nave che lascia il porto, le onde che si infrangono sullo scafo, la tempesta che lo percuote a colpi di grancassa mentre nell’aria risuonano minacciosi tuoni che prendono voce da un gong. E poi i canti marinareschi (diretti da Francesca Breschi) che dànno ritmo alla navigazione e alla vicenda. Una partitura complessa e costante, che si affianca a quella delle luci di Michele Ceglia. Un altro ricco repertorio fatto di bagliori improvvisi e ombre. Perché se nella musica sono importanti i silenzi, nel teatro è importante il buio. È la sospensione necessaria affinché la mente possa figurarsi i suoi mostri, le sue visioni. Il riverbero delle superfici fredde e metalliche degli oggetti di scena gli fanno contrappunto. Insieme ai tagli di luce, compatta e concentrata sui corpi, a gettare fiamme sulle anime tormentate. L’immensità del mare simulata dalle silhouette delle figure in controluce. Con questo contrasto De Capitani dipinge così bene la morte da farcene sentire con persistenza l’olezzo soffocante.
Ma su tutto è straordinaria la compagnia di attori. Anime possedute da una cieca e ostinata volontà a cui fa capo Achab, che comanda obbedienza nella sfida all’impossibile. Trascina tutti nel suo folle volo verso la cattura del Leviatano. Anche il pubblico. Lo spettatore si immedesima con Ishmael e il suo desiderio di imbarcarsi per vedere il mondo. E non c’è posto migliore dove affacciarsi per vederlo se non dalla platea.
Il sipario, chiamato dal capocomico, si chiude su un sogno che si sarebbe voluto interminabile e invece è durato il tempo di un giro di clessidra.
data di pubblicazione:22/03/2025
Il nostro voto: 
da Antonio Jacolina | Mar 22, 2025
New York metà Anni ’50. Frank Costello e Vito Genovese (entrambi R. De Niro) sono due boss mafiosi. Il primo è diplomatico e calcolatore, il secondo violento e accentratore. La loro amicizia di lunga data si deteriora per gelosie, ambizioni e vicende giudiziarie fino a sfociare in una rivalità distruttiva…
Ancora un film di gangster e di mafia? The Alto Knights non aggiunge né tanto meno pretende di aggiungere qualcosa di nuovo al Genere. Invece è un grande affresco del mondo della mafia di New York degli Anni ’50. Soprattutto è una splendida lettera d’addio ai film di gangster mafiosi da parte di una generazione leggendaria di Hollywood, un gruppo di giovani ultraottantenni: attore, sceneggiatore e regista. Al contempo è anche un grande colpo da maestro di De Niro e la sua definitiva incoronazione come attore emblematico di tutto un Genere.
…la Magia del Cinema, un po’ di trucco, qualche effetto speciale, la bravura di un grandissimo interprete… ed ecco due De Niro al prezzo di uno! La sua eccezionale performance gli consente di ricoprire i ruoli dei due protagonisti differenziandoli con sottili sfumature nelle posture, negli sguardi, nei caratteri. Un tour de force tecnico e attoriale.
Con una ricostruzione accurata dell’epoca il regista filma un dramma crepuscolare, fedele ai classici del Genere, che rivisita le rivalità al vertice della mafia italoamericana. Due personalità antitetiche, due facce della stessa cattiva moneta, da qui l’idea di De Niro di interpretarli entrambi.
La messa in scena si ispira ai modelli dei Grandi. Il tratto è elegante e immersivo con una cinepresa in costante movimento. Primi piani insistiti sottolineano la tensione psicologica e le qualità recitative negli scontri verbali. Dominano i toni del chiaroscuro ad evidenziare la dualità morale dei due protagonisti. Dopo un inizio vibrante, tutto azione, il ritmo diviene ineguale alternando momenti di alta intensità drammatica a passaggi più riflessivi che frenano la dinamica del racconto. Ne risulta più uno studio psicologico che un film d’azione. Levinson avrebbe forse potuto provare ad osare di più. Gli è mancata la vitalità e la genialità del tocco autoriale dei modelli cui si rifà. Si limita ad adagiarsi, pur con classe e mestiere, sui canoni del Genere.
The Alto Knights risulta quindi un buon succedaneo meno esplosivo ed impietoso dei suoi autorevoli precedenti ma pur sempre interessante. Con le sue atmosfere, la buona scrittura e la forza dell’interpretazione è in ogni caso un film che piacerà agli amanti del Genere e soprattutto ai fan di De Niro.
data di pubblicazione:22/03/2025
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da Antonio Jacolina | Mar 19, 2025
Marsiglia. Un’ondata di calore estivo obbliga tutti a restare a casa. Tre giovani amiche sul balcone del loro appartamento guardano il prestante dirimpettaio. Ognuna fantastica su di lui. Riescono a farsi invitare a casa sua per un drink serale. Si risveglieranno la mattina dopo con un cadavere. Una situazione delirante…
Rivelatasi come interprete di talento in Ritratto di una giovane in fiamme (2019) Noémie Merlant oltre ad essere attrice in sicura ascesa è passata anche a scrivere e dirigere. Le donne al balcone è la sua opera seconda presentata a Cannes ’24 e alla Festa di Roma. L’intento della regista era affrontare il tema della vulnerabilità femminile e delle violenze sessiste e sessuali contro le donne utilizzando come chiave narrativa la commedia e lo humour dell’assurdo. Un’idea coraggiosa, innovativa, audace e provocatoria che dà luogo ad un film che flirta con generi ed universi cinematografici estremamente vari e diversi fra loro. Il fantastico, il farsesco, l’horror, il thriller, la ghost story, i morti viventi, il gore e lo splatter.
Una combinazione esplosiva ed una scommessa non da poco. La sfida però non riesce a pieno nel senso che lungo il cammino il film si prende troppo sul serio per essere una commedia dell’assurdo e, nello stesso tempo, troppo poco sul serio per essere una dura denuncia della realtà. La narrazione si diluisce infatti in troppi rivoli, la vicenda perde in parte il filo ed il senso narrativo. I personaggi risultano un po’ abbozzati e la sequenzialità della vicenda frammentata. La logica di ciò che si sta osservando si riduce e lo spettatore si ritrova sconcertato in un magma vorticoso. Peccato! Eppure lo spunto era interessante e brillante e la regista ha, a tratti, anche un tocco intenso e lirico. L’incipit del film faceva sperare molto bene. Un misto di atmosfere e rimandi. Luminosità, situazioni e colori forti alla Almodovar, suspense e tensione alla Hitchcock, un tocco disturbante ed agghiacciante alla Dario Argento e infine splatter da horror orientale. Purtroppo la sceneggiatura non ben articolata rende un po’squilibrato e altalenante il lavoro. Si vanifica così parte dell’apprezzabile e coraggioso impegno della Merlant sia come regista sia come interprete ed anche quello delle altre due protagoniste.
Le donne al balcone è quindi senza dubbio un film degno di attenzione e intrigante. Alla regista va riconosciuto il merito dell’intuizione dell’horror al femminile e di un discreto risultato parziale. Per meglio valutarla come regista le andrà offerta una prova d’appello.
data di pubblicazione:19/03/2025
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da Daniela Palumbo | Mar 18, 2025
Una famiglia apparentemente tranquilla viene sconvolta da un evento traumatico: l’arresto del figlio appena tredicenne, Jamie, accusato di aver accoltellato a morte una compagna di scuola. “Non ho fatto nulla” – ripeterà il ragazzo. I genitori, dal canto loro, sono convinti che si tratti di un errore di persona. Sarà vero? O è vero il contrario?
Si ispira al genere true crime questa miniserie britannica girata in piano sequenza, senza tagli e senza interruzioni. Solo un cambio di prospettiva, seguendo il cammino spesso tortuoso dell’uno o dell’altro personaggio. Un filo che non si spezza né si recide, ma si avvolge e si dipana via via come una matassa. O si espande come una ragnatela. Un male che coinvolge in primo luogo il giovane Jamie Miller (Owen Cooper, ottimo interprete), protagonista della vicenda. Ma anche la sua famiglia, gli amici, la comunità tutta intera.
Chi è il vero colpevole? Chi ha ucciso chi, e come lo ha fatto. Poiché si può uccidere in tanti modi. E soprattutto, come può un bambino – poco più di questo, in realtà – essere all’origine di un tale crimine. E subirne le conseguenze, proprio come fosse un uomo, un adulto.
Tra le primissime scene, l’irruzione degli agenti di polizia dentro casa dei Miller. Per arrestare lui, il ragazzino. Prelevarlo, stanarlo da sotto le coperte, lì dove appare gracile e indifeso, e col pigiama irrorato di paura. Irrompono in egual misura l’incredulità, lo sgomento, e al tempo stesso il sospetto, terribile. Ma a risultare davvero straziante, nel corso di tutta la narrazione in “presa diretta”, non è il pianto di Jamie. Piuttosto, è quel baratro negli occhi smarriti del padre, Eddie Miller (interpretato da un intenso Stephen Graham), la smorfia atroce sul viso contratto di lui, man mano che gli eventi si susseguono e il “vero” si disvela. Sono le lacrime trattenute a fatica dalla psicologa (Erin Doherty) al termine dell’ultimo estenuante colloquio col ragazzo/detenuto. È lo sguardo attonito di Luke, l’ispettore incaricato del caso (Ashley Walters), di fronte a una realtà che egli stesso (a sua volta padre di un adolescente) ignorava. Mentre gli adulti armeggiano con logiche e tecniche ormai prive di senso (ricerca del movente, testimonianze di altri per “capire perché”), i giovanissimi si muovono sotterraneamente, con linguaggi cifrati, portatori di ambiguità e violenza (“Non lo sapevo! È difficile credere a tutto questo tramite due simboli…”).
Si cerca dunque una verità che nella “rete” virtuale dei rapporti fasulli semplicemente non esiste. Distorta, deformata, mutata in pensiero fallace nella mente dei figli (“Per me è importante quello che pensi, non quello che è vero”). E proprio in questa mancata corrispondenza tra intima percezione e dato di realtà risiede il dramma di questa “Adolescence”. Che non fa più rima con “Innocence”. In un mondo di piccoli che fa paura ai grandi.
data di pubblicazione:18/03/2025
da Antonio Jacolina | Mar 15, 2025
Lee Miller (K.Winslet) è una donna libera che vive in modo anticonformista. Modella di successo a New York si trasferisce a Parigi. Compagna e Musa di Man Ray diviene un’affermata fotografa. Allo scoppio della II Guerra Mondiale, spinta dal gusto per l’avventura e dal proprio codice etico dell’impegno, nonostante i pregiudizi, riesce a essere una delle prime corrispondenti di guerra…
La regista avrebbe dovuto avere tutto il coraggio, l’intraprendenza e la passione della vera Lee Miller per riuscire a raccontare in modo autentico e coinvolgente la sua storia. A maggior ragione avendo a disposizione anche un’attrice come la Winslet che con realismo, fisicità, somiglianza e bravura poteva incarnare il talento e la determinazione di una delle più coraggiose reporter di guerra e grande fotografa del XX secolo. In tal modo sì che avrebbe potuto dare la giusta profondità narrativa, la tensione emotiva e la passione per coinvolgere a fondo gli spettatori. Sarebbe riuscita a fare il giusto ritratto con luci e ombre di un’epoca e di una donna testimone volontaria, con i suoi scatti, della Storia. E avrebbe reso un omaggio vero e sentito al talento di una personalità complessa che con le sue foto iconiche ha cambiato il nostro modo di vedere il Mondo. Peccato!
La Kuras ha scelto invece di realizzare un biopic distaccato, formalmente molto classico, convenzionale e documentaristico, a metà strada fra un ritratto intimo e un affresco bellico.
Lee Miller infatti parte dallo spunto più che tradizionale di un’intervista in cui, in un’alternanza narrativa fra Passato e Presente, la protagonista racconta la sua vita in Europa prima e durante la guerra. Le sue “battaglie” per superare convenzioni e pregiudizi e riuscire a essere reporter dal Fronte. La sua testimonianza diretta dei combattimenti, della liberazione della Francia e di Parigi, dell’avanzata in Germania e delle atrocità e orrori dei campi di sterminio. Con un ruolo cucito su misura la Winslet porta il film sulle sue spalle e incarna con efficacia la rabbia e l’empatia del suo personaggio. La circonda uno stuolo di buoni secondi ruoli. Anche se la regista cerca di evitare i luoghi comuni, la messa in scena, il montaggio e il ritmo restano formali e dimostrativi, quasi distanti. Il film non esce quindi da una rappresentazione accademica e convenzionale che non innova il genere e nemmeno ci prova. Le emozioni, il soffio etico e le passioni sono troppo contenute. In sintesi, Lee Miller è un lavoro discreto, ben documentato e diretto in modo lineare ma nulla più di un compito ben eseguito anche se ben interpretato.
data di pubblicazione:15/03/2025
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da Paolo Talone | Mar 15, 2025
con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia di Riccardo Fazi
(Teatro Tor Bella Monaca – Roma, 6/8 marzo 2025)
Poggio Corbello è un luogo “senza intrusi” dove Nives vive ormai sola dopo la morte del marito Anteo. A farle compagnia nella grossa tenuta ci sono gli animali. In particolare Giacomina, una gallina azzoppata che la donna decide di mettersi in casa per curare la solitudine e l’insonnia. Una sera però la chioccia rimane paralizzata davanti alla TV. Non c’è modo di svegliarla. Così Nives chiama al telefono Loriano, il bravo veterinario del paese il cui unico difetto apparentemente sembra ridursi al troppo bere.
Tutti abbiamo scheletri nell’armadio. Storie del passato che giacciono silenziose in qualche luogo nascosto della mente. Può trattarsi di un avvenimento che ha determinato delle scelte o magari un rimpianto, in cui si incastra il pensiero di qualcosa che poteva essere e non è stato. A volte è il dolore di un amore non vissuto che ha lasciato strascichi indelebili. Come in Nives, il romanzo di Sasha Naspini (Edizioni e/o, tradotto in 25 lingue) che dà il titolo a questa trasposizione teatrale diretta da Giorgio Zorcù e che vede protagonisti l’attore comico – qui prestato a un ruolo drammatico – Sergio Sgrilli e Sara Donzelli, fondatrice di Accademia Mutamenti, che ha prodotto lo spettacolo insieme a Muta Imago (Riccardo Fazi ne ha curato anche la drammaturgia).
Un lungo tavolo percorre tutta la scena. Agli estremi ci sono Nives e Loriano che parlano ininterrottamente al telefono per tutta una notte. Sono molto distanti tra loro eppure proprio l’elemento del tavolo, quasi l’unico oggetto a caratterizzare la scena insieme a due sedie, fornisce l’indizio di un’unione, di un filo comune che percorre le due esistenze. Il pubblico ascolta la conversazione indossando delle cuffie wireless. Un espediente che crea una sensazione intima e avvolgente e che permette di cogliere le minime sfumature di emozione nella voce degli attori. Dopotutto si sta origliando una confessione piena di colpi di scena in cui è lei a distribuire le carte del gioco.
Tra i due protagonisti si scopre esserci stato un passato di amore e passione. Ma circostanze esterne e la mancanza di coraggio ne hanno decretato l’allontanamento. Da allora i loro corpi si sono solamente sfiorati, come fa capire bene la danza di movimenti curata insieme a Giulia Mureddu. L’elemento comico presente nel romanzo di una Nives schietta e sferzante è smorzato nell’interpretazione della Donzelli in cui risalta invece cinismo e disillusione, rammarico e vendetta. Il Loriano di Sgrilli, attenta e intonata spalla, risponde con rassegnata mestizia, si dimena impotente come un animale ingabbiato, nel crescendo di tensione che tiene lo spettatore inchiodato all’ascolto.
data di pubblicazione:15/03/2025
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Mar 14, 2025
con Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio
(Teatro Lo Spazio – Roma, 7/9 marzo 2025)
Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio sono le protagoniste di InVIOLAta, lo spettacolo vincitore dell’edizione 2024 di Idee nello Spazio, il contest di corti teatrali ideato da Manuel Paruccini e Antonella Granata al Teatro Lo Spazio di Roma. Il lavoro, concepito e diretto da Teresa Cecere e David Marzi, è un meccanismo completo e funzionante di ritmo, gestualità, passione artistica, profondità di messaggio e intesa scenica.
Che la nostra cultura e la nostra educazione siano impregnate profondamente di atteggiamenti bigotti e risposte che favoriscono la tracotanza maschile ce lo dice quel tipo di frasi a commento di fatti di cronaca che raccontano abusi e violenze sulle donne, del tipo «se l’è cercata», «se non fosse andata in giro da sola», «se non vestiva a quel modo». È sempre la stessa storia. Ma la battaglia per la parità di genere, oggi più viva che mai, ha nel passato le radici. Esattamente cinquant’anni fa ad Alcamo, nel trapanese, quando una giovane Franca Viola, abusata dal suo aguzzino, decide di ribellarsi alla tremenda pratica del matrimonio riparatore.
La vicenda è nota. Il testo drammaturgico fa largo uso della cronaca del tempo ed è arricchito da importanti fonti letterarie (la “voce” del popolo è presa dal libro-inchiesta Le svergognate di Lieta Harrison che usciva proprio in quegli anni, mentre la deposizione di Franca Viola in tribunale prende a prestito i versi del cunto siciliano di Don Chisciotte). Franca inizia a frequentare Filippo Melodia ancora minorenne. Il padre di lei, Bernardo, non vede di buon occhio il ragazzo. È un poco di buono che sbarca il lunario commettendo furti ed estorcendo denaro che poi spende in prostitute. Dopo un periodo in cui migra in Germania torna in Sicilia per sposare Franca, ma lei rifiuta di netto la proposta. Filippo, furioso, decide quindi in accordo con altri dodici complici di rapire Franca. Nei giorni a seguire subirà maltrattamenti e verrà più volte violentata. Disonorata sarà allora costretta a sposare il suo carnefice, a lavare l’ignominia con una manciata di riso. Così vuole la prassi comune a cui tutti si adeguano recitando a menadito il decalogo della donna onorata. Ma Franca si oppone: «Io non sono proprietà di nessuno, l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce», dirà a processo dopo aver denunciato il Melodia. Un gesto rivoluzionario per l’epoca, che spaccherà l’Italia in due tra chi continua a credere che la donna sia come un oggetto da possedere e sottomettere e chi invece inizia a lottare per l’emancipazione e i diritti di genere.
L’allestimento scenico, curato da Lisa Serio, ci trasporta in un cortile domestico dove si vedono panni stesi al caldo sole dell’isola. Tra gli oggetti di una vita contadina, arcaica e profondamente italiana, si muovono le tre giovanissime attrici. A loro sono affidati indistintamente tutti i personaggi della vicenda, senza un ruolo fisso. Basta impugnare un determinato oggetto o vestire un semplice indumento per caratterizzare il personaggio e scambiarselo tra loro. Sono pura materia attoriale, un magma ribollente di energia e passione, con cui i due registi hanno lavorato modellando e indirizzandone il talento.
La storia si snoda con un ritmo incalzante e preciso di movimenti e complesse coreografie, a cui dànno supporto le musiche originali di Kemonia. A ribadire che l’arte e il teatro possono essere un potente strumento per sradicare una mentalità ipocrita e maschilista che ancora stagna nella nostra società.
data di pubblicazione:14/03/2025
Il nostro voto: 
da Giovanni M. Ripoli | Mar 14, 2025
Seconda stagione della serie con al centro Dwight Manfredi, mafioso leale che si fa 25 anni di galera e per “ricompenza” viene spedito dai capi e sodali newyorkesi a Tulsa in Oklaoma, località che non ha mai sentito parlare di crimine organizzato prima del suo arrivo. Troverà modo di organizzarsi e rendere la sua presenza in loco sufficientemente avventurosa, piacevole e redditizia. Non senza provocare problemi con la casa madre ed altri trafficanti delle aree circostanti, a causa dei suoi successi, per così dire, imprenditoriali.
Non si può parlare di Tulsa King, senza aprire una necessaria digressione sul suo autore, Taylor Sheridan, lo sceneggiatore statunitense autore di molti dei grandi successi dello streaming mondiale, vedi la saga di Yellowstone, con i prequel, 1883, e 1923 ma anche Landman, Lioness. Mayor of Kingstown, per citare i più riusciti. In buona sostanza, tutto quello che tocca Sheridan si trasforma in oro, ossia in prodotti di grande appeal e risonanza. Le sue storie, però, fanno storcere il naso a molti: non possono infatti definirsi propriamente politicamente corrette. Al centro c’è in genere un bianco alfa, wasp o similare, capo carismatico di una enclave, incline alla violenza, forte, generoso, anti- sistema, vagamente trumpiano, dunque.
Tornando alla serie, va dato atto che la sua riuscita è nel binomio Sheridan, autore e Sylvester Stallone, attore e produttore esecutivo. Confesso di non essere mai stato un grande estimatore di Rambo e suoi succedanei, ma, nell’occasione, Stallone del ruolo di Dwight Manfredi è, come non mai, nel personaggio e rende la serie particolarmente calzante, avvincente sempre, comunque, sul filo dell’ironia. Lui è davvero il re di Tulsa, e ne diventa il catalizzatore di tutte le attività lecite e illecite del luogo coinvolgendo nella storia ottimi comprimari (soci fidanzate ed ex mogli) in molteplici storie che nella seconda stagione ancor meglio si delineano. L’idea di partenza, occorre dirlo, non è nuova del tutto. Nel 2010, la serie USA-Norvegia, Lilyhammer, con un grande Steven Van Zand nel ruolo di un pentito di Cosa Nostra finito in Norvegia, nella città dei giochi olimpici, per sfuggire a ex complici ne anticipava lo schema: personaggio losco, ignorantello e disinvolto alle prese con un popolo estremamente ligio alle regole. Per associazione di idee era un po’ come si comportava il nostro Checco Zallone in, Quo Vado. A Tulsa, mutatis mutandis, il buon Manfredi fa lo stesso: trasforma una piccola, operosa cittadina, con piccoli vizi (la marijuana) in un centro dedito ad ogni fruttuosa attività illecita. Carismatico, ingombrante, sornione, persino seduttivo e simpatico, Stallone fornisce la sua migliore interpretazione di sempre e fa di, Tulsa King una delle migliori serie tv del periodo.
data di pubblicazione:14/03/2025
da Maria Letizia Panerai | Mar 14, 2025
Siamo nel 1940. Umberto Cassola (Paolo Pierobon) e la sua compagna Julia Szapolowska (Catherine Bertoni De Laet) si riuniscono su un treno che attraversa l’Europa Centrale in missione segreta per il Cominter: con loro c’è la figlia Olga (Angelica Kazankova). Condividono lo spazio con l’agente Molnàr, un personaggio ambiguo incaricato di interrogare (o forse di proteggere?) Cassola. Sullo stesso treno viaggiano il fascista Guido Clerici (Tommaso Ragno), amico d’infanzia di Cassola, e sua moglie Gerda Hermet (Matilde Vigna). Subito si crea una certa tensione tra chi deve portare a termine la propria missione.
Europa centrale, il film di esordio di Gianluca Minucci presentato in concorso alla 42ma edizione del TFF, ha avuto il suo battesimo con il grande pubblico in sala giovedì 13 marzo al cinema Farnese di Roma, per poi toccare le piazze di Bologna, Milano e Trieste.
Proveniente dal mondo dei videoclip e dalla pubblicità, Gianluca Minucci (nato a Trieste nel 1987, laureato alla facoltà di lettere e filosofia) ha descritto il suo lungometraggio come un kammerspiel metafisico, genere teatrale e cinematografico nato negli anni ’20 in Germania, ambientato in uno spazio ristretto (in questo caso nei vagoni di un treno), in cui pochi personaggi affrontano dialoghi di una certa intensità, esplorando temi profondi a livello filosofico su questioni universali, andando oltre quella che è la realtà concreta.
Come tutte le opere prime il regista ha fatto di Europa centrale un film “grande”, un contenitore di tutto ciò che con urgenza voleva trasporre. Un gioiello molto prezioso, pieno di pietre che irradiano luce diretta e riflessa, a tratti algido e inarrivabile, troppo dotto in alcuni passaggi. Tuttavia la pellicola emana vibrazioni come un quadro di espressionismo astratto, che arrivano al pubblico senza troppe spiegazioni razionali o conoscenze storico-filosofiche particolari. Inevitabili alcune influenze che fanno parte del bagaglio culturale del regista, che spaziano da Trintignant alla Cavani sino alla filmografia di Volontè (Todo modo, La classe operaia va in paradiso).
É il fluire delle storie individuali, che scaturiscono da confessioni private, sino ai dialoghi tra coniugi e nel confronto con l’opposto, a darci la pienezza delle innumerevoli contraddizioni che albergano dentro ognuno dei personaggi in scena, grazie ad una interpretazione attoriale di altissimo livello, in un tutt’uno di profonda attualità che travalica lo scenario spazio-temporale per arrivare sino ai nostri tempi. Tale contemporaneità la si coglie in particolare nello sviluppo dei due ruoli femminili principali. Le due interpreti hanno un peso nella narrazione non solo come consorti di Cassola e Clerici, ma soprattutto come rappresentanti di genere: sono madri, mogli, compagne, amanti ed in quanto tali vengono amate, usate, dominate, maltrattate, violentate, derise e abbandonate. Fa eccezione la piccola Olga, figlia-non figlia dei coniugi non-coniugi Cassola che rappresenta l’agghiacciante frutto dei nostri tempi confusi.
Il film non ha una trama precisa se non la narrazione di un periodo storico attraverso le storie incrociate di 4 individui, due uomini e due donne, che si scontrano per raccontare l’uomo inteso come individuo, mettendo a nudo dubbi e contraddizioni. Sicuramente Europa Centrale è un film complesso, non per tutti, a tratti criptico, ma l’energia che sprigiona aiuta ad entrare in sintonia con la rappresentazione, grazie anche ad una colonna sonora strepitosa, opera del compositore polacco Zbigniew Preisner (sono sue le musiche della trilogia di Kieslowski) e ad un girato seppiato che ci riporta agli anni 40. La tecnica è molto avanzata e l’atmosfera inevitabilmente claustrofobica per aver girato tutto nei vagoni angusti di un treno all’interno del Museo Ferroviario di Budapest, utilizzando carrozze originali degli anni ’20 e ’30, dove anche i reali limiti nell’aprire porte e finestrini hanno contribuito a conferire a tutta la storia un fascino ed una atmosfera unici e coinvolgenti. Una vera scommessa per questo giovane regista.
data di pubblicazione:14/03/2025
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