NIVES dal romanzo di Sasha Naspini, a cura di Giorgio Zorcù

NIVES dal romanzo di Sasha Naspini, a cura di Giorgio Zorcù

con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia di Riccardo Fazi

(Teatro Tor Bella Monaca – Roma, 6/8 marzo 2025)

Poggio Corbello è un luogo “senza intrusi” dove Nives vive ormai sola dopo la morte del marito Anteo. A farle compagnia nella grossa tenuta ci sono gli animali. In particolare Giacomina, una gallina azzoppata che la donna decide di mettersi in casa per curare la solitudine e l’insonnia. Una sera però la chioccia rimane paralizzata davanti alla TV. Non c’è modo di svegliarla. Così Nives chiama al telefono Loriano, il bravo veterinario del paese il cui unico difetto apparentemente sembra ridursi al troppo bere.

 

Tutti abbiamo scheletri nell’armadio. Storie del passato che giacciono silenziose in qualche luogo nascosto della mente. Può trattarsi di un avvenimento che ha determinato delle scelte o magari un rimpianto, in cui si incastra il pensiero di qualcosa che poteva essere e non è stato. A volte è il dolore di un amore non vissuto che ha lasciato strascichi indelebili. Come in Nives, il romanzo di Sasha Naspini (Edizioni e/o, tradotto in 25 lingue) che dà il titolo a questa trasposizione teatrale diretta da Giorgio Zorcù e che vede protagonisti l’attore comico – qui prestato a un ruolo drammatico – Sergio Sgrilli e Sara Donzelli, fondatrice di Accademia Mutamenti, che ha prodotto lo spettacolo insieme a Muta Imago (Riccardo Fazi ne ha curato anche la drammaturgia).

Un lungo tavolo percorre tutta la scena. Agli estremi ci sono Nives e Loriano che parlano ininterrottamente al telefono per tutta una notte. Sono molto distanti tra loro eppure proprio l’elemento del tavolo, quasi l’unico oggetto a caratterizzare la scena insieme a due sedie, fornisce l’indizio di un’unione, di un filo comune che percorre le due esistenze. Il pubblico ascolta la conversazione indossando delle cuffie wireless. Un espediente che crea una sensazione intima e avvolgente e che permette di cogliere le minime sfumature di emozione nella voce degli attori. Dopotutto si sta origliando una confessione piena di colpi di scena in cui è lei a distribuire le carte del gioco.

Tra i due protagonisti si scopre esserci stato un passato di amore e passione. Ma circostanze esterne e la mancanza di coraggio ne hanno decretato l’allontanamento. Da allora i loro corpi si sono solamente sfiorati, come fa capire bene la danza di movimenti curata insieme a Giulia Mureddu. L’elemento comico presente nel romanzo di una Nives schietta e sferzante è smorzato nell’interpretazione della Donzelli in cui risalta invece cinismo e disillusione, rammarico e vendetta. Il Loriano di Sgrilli, attenta e intonata spalla, risponde con rassegnata mestizia, si dimena impotente come un animale ingabbiato, nel crescendo di tensione che tiene lo spettatore inchiodato all’ascolto.

data di pubblicazione:15/03/2025


Il nostro voto:

InVIOLAta, regia di Teresa Cecere e David Marzi

InVIOLAta, regia di Teresa Cecere e David Marzi

con Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio

(Teatro Lo Spazio – Roma, 7/9 marzo 2025)

Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio sono le protagoniste di InVIOLAta, lo spettacolo vincitore dell’edizione 2024 di Idee nello Spazio, il contest di corti teatrali ideato da Manuel Paruccini e Antonella Granata al Teatro Lo Spazio di Roma. Il lavoro, concepito e diretto da Teresa Cecere e David Marzi, è un meccanismo completo e funzionante di ritmo, gestualità, passione artistica, profondità di messaggio e intesa scenica.

Che la nostra cultura e la nostra educazione siano impregnate profondamente di atteggiamenti bigotti e risposte che favoriscono la tracotanza maschile ce lo dice quel tipo di frasi a commento di fatti di cronaca che raccontano abusi e violenze sulle donne, del tipo «se l’è cercata», «se non fosse andata in giro da sola», «se non vestiva a quel modo». È sempre la stessa storia. Ma la battaglia per la parità di genere, oggi più viva che mai, ha nel passato le radici. Esattamente cinquant’anni fa ad Alcamo, nel trapanese, quando una giovane Franca Viola, abusata dal suo aguzzino, decide di ribellarsi alla tremenda pratica del matrimonio riparatore.

La vicenda è nota. Il testo drammaturgico fa largo uso della cronaca del tempo ed è arricchito da importanti fonti letterarie (la “voce” del popolo è presa dal libro-inchiesta Le svergognate di Lieta Harrison che usciva proprio in quegli anni, mentre la deposizione di Franca Viola in tribunale prende a prestito i versi del cunto siciliano di Don Chisciotte). Franca inizia a frequentare Filippo Melodia ancora minorenne. Il padre di lei, Bernardo, non vede di buon occhio il ragazzo. È un poco di buono che sbarca il lunario commettendo furti ed estorcendo denaro che poi spende in prostitute. Dopo un periodo in cui migra in Germania torna in Sicilia per sposare Franca, ma lei rifiuta di netto la proposta. Filippo, furioso, decide quindi in accordo con altri dodici complici di rapire Franca. Nei giorni a seguire subirà maltrattamenti e verrà più volte violentata. Disonorata sarà allora costretta a sposare il suo carnefice, a lavare l’ignominia con una manciata di riso. Così vuole la prassi comune a cui tutti si adeguano recitando a menadito il decalogo della donna onorata. Ma Franca si oppone: «Io non sono proprietà di nessuno, l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce», dirà a processo dopo aver denunciato il Melodia. Un gesto rivoluzionario per l’epoca, che spaccherà l’Italia in due tra chi continua a credere che la donna sia come un oggetto da possedere e sottomettere e chi invece inizia a lottare per l’emancipazione e i diritti di genere.

L’allestimento scenico, curato da Lisa Serio, ci trasporta in un cortile domestico dove si vedono panni stesi al caldo sole dell’isola. Tra gli oggetti di una vita contadina, arcaica e profondamente italiana, si muovono le tre giovanissime attrici. A loro sono affidati indistintamente tutti i personaggi della vicenda, senza un ruolo fisso. Basta impugnare un determinato oggetto o vestire un semplice indumento per caratterizzare il personaggio e scambiarselo tra loro. Sono pura materia attoriale, un magma ribollente di energia e passione, con cui i due registi hanno lavorato modellando e indirizzandone il talento.

La storia si snoda con un ritmo incalzante e preciso di movimenti e complesse coreografie, a cui dànno supporto le musiche originali di Kemonia. A ribadire che l’arte e il teatro possono essere un potente strumento per sradicare una mentalità ipocrita e maschilista che ancora stagna nella nostra società.

data di pubblicazione:14/03/2025


Il nostro voto:

TULSA KING di Taylor Sheridan – serie tv Paramount

TULSA KING di Taylor Sheridan – serie tv Paramount

Seconda stagione della serie con al centro Dwight Manfredi, mafioso leale che si fa 25 anni di galera e per “ricompenza” viene spedito dai capi e sodali newyorkesi a Tulsa in Oklaoma, località che non ha mai sentito parlare di crimine organizzato prima del suo arrivo. Troverà modo di organizzarsi e rendere la sua presenza in loco sufficientemente avventurosa, piacevole e redditizia. Non senza provocare problemi con la casa madre ed altri trafficanti delle aree circostanti, a causa dei suoi successi, per così dire, imprenditoriali.

Non si può parlare di Tulsa King, senza aprire una necessaria digressione sul suo autore, Taylor Sheridan, lo sceneggiatore statunitense autore di molti dei grandi successi dello streaming mondiale, vedi la saga di Yellowstone, con i prequel, 1883, e 1923 ma anche Landman, Lioness. Mayor of Kingstown, per citare i più riusciti. In buona sostanza, tutto quello che tocca Sheridan si trasforma in oro, ossia in prodotti di grande appeal e risonanza. Le sue storie, però, fanno storcere il naso a molti: non possono infatti definirsi propriamente politicamente corrette. Al centro c’è in genere un bianco alfa, wasp o similare, capo carismatico di una enclave, incline alla violenza, forte, generoso, anti- sistema, vagamente trumpiano, dunque.

Tornando alla serie, va dato atto che la sua riuscita è nel binomio Sheridan, autore e Sylvester Stallone, attore e produttore esecutivo. Confesso di non essere mai stato un grande estimatore di Rambo e suoi succedanei, ma, nell’occasione, Stallone del ruolo di Dwight Manfredi è, come non mai, nel personaggio e rende la serie particolarmente calzante, avvincente sempre, comunque, sul filo dell’ironia. Lui è davvero il re di Tulsa, e ne diventa il catalizzatore di tutte le attività lecite e illecite del luogo coinvolgendo nella storia ottimi comprimari (soci fidanzate ed ex mogli) in molteplici storie che nella seconda stagione ancor meglio si delineano. L’idea di partenza, occorre dirlo, non è nuova del tutto. Nel 2010, la serie USA-Norvegia, Lilyhammer, con un grande Steven Van Zand nel ruolo di un pentito di Cosa Nostra finito in Norvegia, nella città dei giochi olimpici, per sfuggire a ex complici ne anticipava lo schema: personaggio losco, ignorantello e disinvolto alle prese con un popolo estremamente ligio alle regole. Per associazione di idee era un po’ come si comportava il nostro Checco Zallone in, Quo Vado. A Tulsa, mutatis mutandis, il buon Manfredi fa lo stesso: trasforma una piccola, operosa cittadina, con piccoli vizi (la marijuana) in un centro dedito ad ogni fruttuosa attività illecita. Carismatico, ingombrante, sornione, persino seduttivo e simpatico, Stallone fornisce la sua migliore interpretazione di sempre e fa di, Tulsa King una delle migliori serie tv del periodo.

data di pubblicazione:14/03/2025

EUROPA CENTRALE di Gianluca Minucci, 2025

EUROPA CENTRALE di Gianluca Minucci, 2025

Siamo nel 1940. Umberto Cassola (Paolo Pierobon) e la sua compagna Julia Szapolowska (Catherine Bertoni De Laet) si riuniscono su un treno che attraversa l’Europa Centrale in missione segreta per il Cominter: con loro c’è la figlia Olga (Angelica Kazankova). Condividono lo spazio con l’agente Molnàr, un personaggio ambiguo incaricato di interrogare (o forse di proteggere?) Cassola. Sullo stesso treno viaggiano il fascista Guido Clerici (Tommaso Ragno), amico d’infanzia di Cassola, e sua moglie Gerda Hermet (Matilde Vigna). Subito si crea una certa tensione tra chi deve portare a termine la propria missione.

Europa centrale, il film di esordio di Gianluca Minucci presentato in concorso alla 42ma edizione del TFF, ha avuto il suo battesimo con il grande pubblico in sala giovedì 13 marzo al cinema Farnese di Roma, per poi toccare le piazze di Bologna, Milano e Trieste.

Proveniente dal mondo dei videoclip e dalla pubblicità, Gianluca Minucci (nato a Trieste nel 1987, laureato alla facoltà di lettere e filosofia) ha descritto il suo lungometraggio come un kammerspiel metafisico, genere teatrale e cinematografico nato negli anni ’20 in Germania, ambientato in uno spazio ristretto (in questo caso nei vagoni di un treno), in cui pochi personaggi affrontano dialoghi di una certa intensità, esplorando temi profondi a livello filosofico su questioni universali, andando oltre quella che è la realtà concreta.

Come tutte le opere prime il regista ha fatto di Europa centrale un film “grande”, un contenitore di tutto ciò che con urgenza voleva trasporre. Un gioiello molto prezioso, pieno di pietre che irradiano luce diretta e riflessa, a tratti algido e inarrivabile, troppo dotto in alcuni passaggi. Tuttavia la pellicola emana vibrazioni come un quadro di espressionismo astratto, che arrivano al pubblico senza troppe spiegazioni razionali o conoscenze storico-filosofiche particolari. Inevitabili alcune influenze che fanno parte del bagaglio culturale del regista, che spaziano da Trintignant alla Cavani sino alla filmografia di Volontè (Todo modo, La classe operaia va in paradiso).

É il fluire delle storie individuali, che scaturiscono da confessioni private, sino ai dialoghi tra coniugi e nel confronto con l’opposto, a darci la pienezza delle innumerevoli contraddizioni che albergano dentro ognuno dei personaggi in scena, grazie ad una interpretazione attoriale di altissimo livello, in un tutt’uno di profonda attualità che travalica lo scenario spazio-temporale per arrivare sino ai nostri tempi. Tale contemporaneità la si coglie in particolare nello sviluppo dei due ruoli femminili principali. Le due interpreti hanno un peso nella narrazione non solo come consorti di Cassola e Clerici, ma soprattutto come rappresentanti di genere: sono madri, mogli, compagne, amanti ed in quanto tali vengono amate, usate, dominate, maltrattate, violentate, derise e abbandonate. Fa eccezione la piccola Olga, figlia-non figlia dei coniugi non-coniugi Cassola che rappresenta l’agghiacciante frutto dei nostri tempi confusi.

Il film non ha una trama precisa se non la narrazione di un periodo storico attraverso le storie incrociate di 4 individui, due uomini e due donne, che si scontrano per raccontare l’uomo inteso come individuo, mettendo a nudo dubbi e contraddizioni. Sicuramente Europa Centrale è un film complesso, non per tutti, a tratti criptico, ma l’energia che sprigiona aiuta ad entrare in sintonia con la rappresentazione, grazie anche ad una colonna sonora strepitosa, opera del compositore polacco Zbigniew Preisner (sono sue le musiche della trilogia di Kieslowski) e ad un girato seppiato che ci riporta agli anni 40. La tecnica è molto avanzata e l’atmosfera inevitabilmente claustrofobica per aver girato tutto nei vagoni angusti di un treno all’interno del Museo Ferroviario di Budapest, utilizzando carrozze originali degli anni ’20 e ’30, dove anche i reali limiti nell’aprire porte e finestrini hanno contribuito a conferire a tutta la storia un fascino ed una atmosfera unici e coinvolgenti. Una vera scommessa per questo giovane regista.

data di pubblicazione:14/03/2025


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IL GATTOPARDO di Tom Shankland, 2025 – Serie Netflix

IL GATTOPARDO di Tom Shankland, 2025 – Serie Netflix

Con la spedizione dei Mille, al comando di Giuseppe Garibaldi, si tenterà di rovesciare il governo borbonico per annettere la Sicilia al nascente Regno d’Italia, sotto la monarchia dei Savoia. Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, gode ancora dei privilegi di un’aristocrazia destinata però ad essere travolta dai nuovi moti rivoluzionari. Tancredi, nipote del principe, nonostante si sia arruolato nelle truppe garibaldine, riassicura lo zio con la celebre frase: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”…

Se si vuole tentare un approccio obiettivo e sincero a questa recente edizione cinematografica del famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa bisognerà dimenticare l’omonimo film diretto da Luchino Visconti. Non sarà impresa facile perché, anche se si deve tornare a ritroso di sessanta anni, nella memoria di noi tutti riappaiono le immagini patinate di interpreti quali Alain Delon, Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Rina Morelli e tanti altri ancora. Lo stesso regista inglese Tom Shankland, nel firmare questa mini serie per conto di Netflix, non ha perso l’occasione per ribadire che il suo lavoro non era uno scontato remake, quanto un approfondimento e una attualizzazione di eventi storici che a suo tempo avevano profondamente scosso la Sicilia. Le continue digressioni dal romanzo originale, sono da considerare delle licenze poetiche del tutto pertinenti e quindi accettabili nel contesto generale. Questa volta i personaggi assumono un carattere più umano, e lo stesso principe, con le sue naturali debolezze, incarna meglio la figura dello studioso, e meno quella dell’indiscusso padre padrone. Siamo già a conoscenza delle vicende storiche trattate, tra combattimenti e gli sfarzi di una nobiltà ancora non perfettamente consapevole dei cambiamenti che presto l’avrebbero travolta. Ciò nonostante si riesce a seguire con interesse le nuove vicende che si sovrappongono alle vecchie e che danno comunque una omogeneità coerente all’intera narrazione. Kim Rossi Stuart è un Gattopardo tutto sommato accettabile, istrione tanto quanto basta e più accessibile rispetto al precedente. Benedetta Porcaroli interpreta Concetta, la figlia primogenita, sulla quale sono concentrate in massima parte le scene più convincenti. Scelta poco felice invece per Tancredi Falconeri, ruolo affidato a Saul Nanni, astro nascente del cinema nostrano. Senza ricadere in odiosi paragoni, a lui manca proprio quella verve, quella spavalderia seducente e quel carattere fascinoso, concentrato in Alain Delon. Deva Cassel, figlia d’arte di una coppia super famosa, è sicuramente di una bellezza straordinaria, ma anche troppo maliziosa per rappresentare una giovane che tutto sommato aveva passato la sua vita nello sperduto paese di Donnafugata. Senza entrare nel merito degli altri personaggi, alcuni ben interpretati, e senza voler criticare le location e i costumi, super curati, questa attesa serie tv in effetti ha disatteso molto le aspettative. Un’operazione riuscita a metà e che vale comunque la pena di seguire, non foss’altro per entrare in quei palazzi sfarzosi, il cui accesso era riservato a pochi eletti.

data di pubblicazione:12/03/2025

IL CASO BELLE STEINER di Benoît Jacquot, 2025

IL CASO BELLE STEINER di Benoît Jacquot, 2025

Pierre e Cléa (G. Canet e C. Gainsbourg) conducono una vita normale in una tranquilla cittadina. La loro esistenza è stravolta quando viene trovata strangolata nella sua stanza la loro giovane ospite Belle. I sospetti cadono su Pierre, unico presente in casa…

Lo sceneggiatore e regista Jacquot adatta liberamente La morte di Belle di Simenon trasportandone i fatti dagli anni Cinquanta ai giorni nostri e dalla provincia americana a quella francese. I lavori dello scrittore belga per la loro modernità e capacità di scandagliare gli ambienti sociali e l’accecamento degli animi umani sono stati sempre apprezzati dalla Settima Arte.

Con Il caso Belle Steiner Jacquot ci regala un buon film di genere, certamente anche commerciale ma convincente e di apprezzabile fattura. Siamo in una piccola comunità della Francia profonda con i suoi non detti, segreti, invidie e rancori. Un’atmosfera degna di un ritratto dei peccati occulti di provincia tipico del migliore Chabrol. Un film efficace che gioca non tanto sul mistero o sull’intrigo quanto piuttosto sulle atmosfere, sui luoghi e sugli sconvolgimenti del piccolo mondo cittadino. Una vita ristretta, una realtà borghese, la casa, la famiglia, motivi tutti per cui si può mentire o consumare delitti. In particolare il regista ci restituisce un ritratto umano denso di sfumature, capace di tenere alta la tensione facendo anche riflettere su interrogativi profondi. Il confine fra Bene e Male, Verità e Menzogna, sospetto e presunzione di innocenza, ostilità della stampa e della gente. Ci fa anche ragionare su come un evento straordinario possa stravolgere l’esistenza di persone normali e innocenti. Più che un thriller siamo in un noir avvincente, ambiguo e inquietante. Pur senza grandi innovazioni il regista conferma di avere una buona mano. La messa in scena elegante, la direzione fluida e un giusto ritmo narrativo fanno sembrare tutto naturale. La scrittura è efficace e i dialoghi sono veri e ben calibrati. Come nella migliore tradizione del cinema francese siamo in un film di attori. I primi piani prolungati sottolineano infatti la recitazione fatta di sguardi e di emozioni contenute. Un cast di secondi ruoli impeccabili fa da contorno ai due ottimi protagonisti. Canet in particolare restituisce con efficacia tutta l’ambiguità disturbante del suo personaggio compreso tra freddezza esteriore e tormento interno.

Il caso Belle Steiner è dunque un film apprezzabile, intelligente e coinvolgente. Senza pretendere di essere un capolavoro sa parlarci anche di temi drammatici con gusto e stile.

data di pubblicazione:13/03/2025


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LA CITTÀ PROIBITA di Gabriele Mainetti, 2025

LA CITTÀ PROIBITA di Gabriele Mainetti, 2025

La storia è quella di Mei (Yaxi Liu), una ragazza cinese che arriva a Roma per cercare la sorella scomparsa. Qui si imbatte in Marcello (Enrico Borello), che porta avanti il ristorante della sua famiglia all’Esquilino, in compagnia della madre (Sabrina Ferilli) e sotto l’egida di un criminale locale amico di famiglia (Marco Giallini)

Dopo i super-eroi, Mainetti si cimenta in un’opera piena d’arti marziali provenienti dall’Oriente, ambientata dove se non nei pressi di Piazza Vittorio a Roma, il quartiere più multiculturale della città, la Chinatown romana di Gabriele Mainetti, nel segno della ‘fusione’ di etnie, culture e modi di vivere profondamente diversi.

La domanda si pone spontanea: il giovane regista ha per caso ridotto la forza delle sue ambizioni? È diventato qualcosa di più ‘ordinario’? La risposta è: neanche per sogno! Kung Fu in salsa romana, ladies and gentleman, con quel tocco di ironia e comicità surreale, ben adattata alla sceneggiatura e al contesto romano, in ciò supportata dal bravo e giovane Borello e da uno strepitoso (come sempre) Giallini. ‘Sabrina nazionale’, anche lei, in grande spolvero. Si tende sempre (ahimé!) a fare i confronti con le opere precedenti, e possiamo anche dire che non siamo ai livelli del primo originalissimo e riuscitissimo Lo chiamavano Jeeg Robot.

L’adrenalina risulta sempre e comunque la stessa, con spunti tarantiniani alla ‘Kill Bill’ e anche un po’ felliniani (il nome del protagonista, Marcello, il giro in vespa, ecc), ma sappiamo bene che Mainetti non ha paura di citare, mettendoci però sempre del proprio, con tanto di arti marziali, di quelle che per andare bene hanno bisogno di coreografie centrate, di sangue versato a bizzeffe, di denti che finiscono ad adornare il pavimento e di combattimenti selvaggi. La protagonista risulta molto credibile e si muove in questo contesto molto bene.

In sintesi: guardatelo, La città proibita lo merita, in modo che poi non si potrà più dire che di italiano, al cinema, ci sono sempre gli stessi film.

data di pubblicazione:12/03/2023


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UN MONDE MERVEILLEUX di Giulio Callegari, 2025 – XV Francofilm Festival

UN MONDE MERVEILLEUX di Giulio Callegari, 2025 – XV Francofilm Festival

Un futuro prossimo venturo in cui gli umani dipendono sempre più dai robot. Max (B. Gardin), refrattaria alla tecnologia, tira avanti con la figlia grazie a piccoli espedienti. Vuole rapire un robot di ultima generazione e venderne i pezzi. Tutto però le sfugge di mano. Inizia così un’avventura rocambolesca…

Il giovane regista Callegari presenta una commedia audace, una favola moderna che immagina un futuro in cui l’Umanità è in continua interazione con i robot. Una storia in cui si fondono la critica sociale e la ricerca di una propria dimensione personale. Occasione per una riflessione leggera e coinvolgente sul rapporto del singolo con la modernità e gli esseri umani che lo circondano. Al centro una ex professoressa, madre single, in lotta contro la tecnologia ormai dominante, costretta a cooperare con un robot per il bene della figlia. La dinamica fra l’attrice e il robot, tra il serio e il satirico, dà luogo a una serie di contrappunti, scenette e gag che costituiscono lo spunto comico centrale del film. Quasi un Buddy Movie futuristico in cui l’automa diviene specchio dei dilemmi umani davanti all’avanzare inarrestabile dell’Intelligenza Artificiale e alle tecnologie strabordanti. Una storia eccentrica e bizzarra che gioca con i codici del reale e dell’assurdo.

In sintesi, Un Monde Merveilleux è una discreta commedia distopica, accessibile e stimolante con un’idea originale e un casting promettente.  Con il suo mix di satira sociale e humour potrà piacere a un pubblico sensibile alle tematiche futuristiche e alle vicende umane. Non un grande film ma un piccolo racconto simpatico e stimolante, sospeso fra ironia e riflessioni sull’avvenire con al centro delle preoccupazioni l’Umanità.

data di pubblicazione:10/03/2025


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BRIDGET JONES – UN AMORE DI RAGAZZO di Michael Morris, 2025

BRIDGET JONES – UN AMORE DI RAGAZZO di Michael Morris, 2025

Per apprezzare appieno l’impatto socio-culturale di Bridget Jones – Un amore di ragazzo, l’ultimo e definitivo capitolo della saga, è vantaggioso avere un’esperienza simile a quella di una donna di circa 50 anni. In effetti, negli ultimi 20 anni, poche figure femminili del cinema, come Bridget Jones, sono riuscite a rappresentare così bene gli alti e bassi della vita quotidiana e le aspirazioni delle donne di questa fascia d’età, specialmente quelle che vivono nelle grandi città. Bridget, una londinese doc, incarna la loro continua ricerca dell’amore con la “A” maiuscola e il desiderio di trovare il proprio posto nella società moderna e nel mondo lavorativo.

Se nel primo film del 2001 (Il diario di Bridget Jones diretto da Sharon Maguire) si ricalcava ancora la storia d’amore per eccellenza del mondo occidentale moderno, giunta fino ai giorni nostri, ovvero Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen, nel 2004 con Che pasticcio, Bridget Jones viene affrontata la tematica: “Aiuto, ma come funziona una relazione seria tra adulti?” Infine, nel terzo film del 2016 Bridget Jones’ Baby, viene esplorata la tematica della gravidanza inaspettata di una donna single non più giovanissima.

Ora, il quarto film si addentra in un altro argomento tabuizzato: la relazione tra una donna di 50 anni e un uomo molto più giovane. Il tutto, naturalmente, con la consueta iperbolica ironia, perché ciò che Bridget Jones vuole, in fondo, è solo una cosa: essere sé stessa, senza paura e senza “ma”. E essere amata e rispettata per questo.

Accanto a Bridget ci sono sempre stati Mark Darcy (Colin Firth), il suo grande amore, e Daniel Cleaver (Hugh Grant), il suo rivale in amore. Tuttavia, in questo ultimo capitolo, Mark è solo un ricordo, Bridget è vedova, mentre Daniel riveste il ruolo di amico e zio dei suoi adorabili figli.

Si presenta quindi una nuova fase della vita di Bridget, che si confronta con la realtà di essere una madre single, ancora un po’ depressa per la perdita di Mark, e che porta i figli a scuola in modo trasandato dove uno dei compagni di scuola chiede al figlio: “Ma tua nonna cosa ci fa in pigiama fuori dalla scuola?” In questo senso, sembra giusto ringraziare Bridget a nome di tutte le donne che hanno avuto figli intorno ai 40 anni, per aver condiviso dei momenti bizzarri che questo può comportare. E grazie, Bridget, per aver mostrato che è possibile ricostruirsi una vita da donna al di là del ruolo di madre.

Attraverso il monologo interiore di Bridget, viviamo da sempre la sua paura di rimanere sola, la gioia di trovare l’amore (o almeno un’intensa avventura), la tristezza per ciò che sembra perduto, e la rabbia per i tradimenti subiti. Il suo soliloquio riflette le esperienze di molte donne, dalla vergogna per non conformarsi agli standard sociali, alla determinazione di reinventarsi e alla celebrazione delle piccole vittorie, che possono includere anche una sana sbronza.

E anche se in nessuno dei film la figura di Bridget Jones riesce a liberarsi completamente dalle aspettative sociali, almeno fa vedere che è consentito e ammirevole provarci. Questo è già molto. Ed è per questo che ci mancherà.

data di pubblicazione:10/03/2025


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LE PANACHE di J. Devoldère, 2025 – XV Francofilm Festival

LE PANACHE di J. Devoldère, 2025 – XV Francofilm Festival

Un carismatico insegnante di Francese e Teatro (J. Garcia) aiuta un liceale timido e balbuziente (J. Arseguel) a integrarsi e a superare le sue paure interpretando il Cyrano davanti a tutta la scuola…

Si sa, i film sul mondo della Scuola sono un genere assai delicato da gestire e da portare sullo schermo senza scadere nei cliché e nella banalità. Proprio con un lungometraggio su questo tema si è aperto il XV Francofilm Festival. Va subito detto, presentato fuori concorso e in anteprima nazionale Le Panache della sceneggiatrice e regista Devoldère riesce ad affrontare l’argomento con un risultato apprezzabile. Il merito va al suo talento, a un buono script, alla collaborazione di un gruppo di giovani promettenti e al grande carisma interpretativo di Garcia. Le Panache è un’equilibrata fusione dei due modelli fondamentali: L’attimo fuggente di P. Weir e Billy Elliot di S. Daldry. Sorprende piacevolmente grazie a una messa in scena intelligente, ben ritmata e fluida. La mano della regista sfiora senza insistere e con finezza temi non banali quali handicap, divorzio dei genitori, problematiche di genere, bullismo, tolleranza, solidarietà e impegno. Lo fa con tono leggero e agrodolce, reale empatia e sguardo acuto sull’insieme delle dinamiche relazionali e sociali dei giovani. Al centro di questa gradevole commedia iniziatica il ritratto luminoso di un adolescente problematico e balbuziente che riesce a emergere e a trovare nel teatro l’autostima, grazie all’impegno e alla passione coinvolgente del suo insegnante. Una storia ben pensata e ben realizzata che certamente non innova né rivoluziona il Genere e nemmeno intende farlo. L’argomento è stato visto e rivisto al cinema e l’Autrice corre infatti il rischio di toccare più di un cliché ma riesce intelligentemente a non farsi mai catturare dalla banalità. Come detto la sostiene la buona sceneggiatura e l’ottima qualità di dialoghi arguti e autentici, mai retorici. L’interpretazione sincera dei giovani attori e la performance di Garcia e Arseguel ne fanno uno spettacolo interessante e coinvolgente. Una storia piena di vita e di buone intenzioni, diretta e recitata con passione. Le Panache è quindi una commedia sociale toccante e sensibile. Un cinema ottimista e gioioso, commovente e realistico. Un cinema di buoni sentimenti.

data di pubblicazione:08/03/2025


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