NIVES dal romanzo di Sasha Naspini, a cura di Giorgio Zorcù

NIVES dal romanzo di Sasha Naspini, a cura di Giorgio Zorcù

con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia di Riccardo Fazi

(Teatro Tor Bella Monaca – Roma, 6/8 marzo 2025)

Poggio Corbello è un luogo “senza intrusi” dove Nives vive ormai sola dopo la morte del marito Anteo. A farle compagnia nella grossa tenuta ci sono gli animali. In particolare Giacomina, una gallina azzoppata che la donna decide di mettersi in casa per curare la solitudine e l’insonnia. Una sera però la chioccia rimane paralizzata davanti alla TV. Non c’è modo di svegliarla. Così Nives chiama al telefono Loriano, il bravo veterinario del paese il cui unico difetto apparentemente sembra ridursi al troppo bere.

 

Tutti abbiamo scheletri nell’armadio. Storie del passato che giacciono silenziose in qualche luogo nascosto della mente. Può trattarsi di un avvenimento che ha determinato delle scelte o magari un rimpianto, in cui si incastra il pensiero di qualcosa che poteva essere e non è stato. A volte è il dolore di un amore non vissuto che ha lasciato strascichi indelebili. Come in Nives, il romanzo di Sasha Naspini (Edizioni e/o, tradotto in 25 lingue) che dà il titolo a questa trasposizione teatrale diretta da Giorgio Zorcù e che vede protagonisti l’attore comico – qui prestato a un ruolo drammatico – Sergio Sgrilli e Sara Donzelli, fondatrice di Accademia Mutamenti, che ha prodotto lo spettacolo insieme a Muta Imago (Riccardo Fazi ne ha curato anche la drammaturgia).

Un lungo tavolo percorre tutta la scena. Agli estremi ci sono Nives e Loriano che parlano ininterrottamente al telefono per tutta una notte. Sono molto distanti tra loro eppure proprio l’elemento del tavolo, quasi l’unico oggetto a caratterizzare la scena insieme a due sedie, fornisce l’indizio di un’unione, di un filo comune che percorre le due esistenze. Il pubblico ascolta la conversazione indossando delle cuffie wireless. Un espediente che crea una sensazione intima e avvolgente e che permette di cogliere le minime sfumature di emozione nella voce degli attori. Dopotutto si sta origliando una confessione piena di colpi di scena in cui è lei a distribuire le carte del gioco.

Tra i due protagonisti si scopre esserci stato un passato di amore e passione. Ma circostanze esterne e la mancanza di coraggio ne hanno decretato l’allontanamento. Da allora i loro corpi si sono solamente sfiorati, come fa capire bene la danza di movimenti curata insieme a Giulia Mureddu. L’elemento comico presente nel romanzo di una Nives schietta e sferzante è smorzato nell’interpretazione della Donzelli in cui risalta invece cinismo e disillusione, rammarico e vendetta. Il Loriano di Sgrilli, attenta e intonata spalla, risponde con rassegnata mestizia, si dimena impotente come un animale ingabbiato, nel crescendo di tensione che tiene lo spettatore inchiodato all’ascolto.

data di pubblicazione:15/03/2025


Il nostro voto:

InVIOLAta, regia di Teresa Cecere e David Marzi

InVIOLAta, regia di Teresa Cecere e David Marzi

con Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio

(Teatro Lo Spazio – Roma, 7/9 marzo 2025)

Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio sono le protagoniste di InVIOLAta, lo spettacolo vincitore dell’edizione 2024 di Idee nello Spazio, il contest di corti teatrali ideato da Manuel Paruccini e Antonella Granata al Teatro Lo Spazio di Roma. Il lavoro, concepito e diretto da Teresa Cecere e David Marzi, è un meccanismo completo e funzionante di ritmo, gestualità, passione artistica, profondità di messaggio e intesa scenica.

Che la nostra cultura e la nostra educazione siano impregnate profondamente di atteggiamenti bigotti e risposte che favoriscono la tracotanza maschile ce lo dice quel tipo di frasi a commento di fatti di cronaca che raccontano abusi e violenze sulle donne, del tipo «se l’è cercata», «se non fosse andata in giro da sola», «se non vestiva a quel modo». È sempre la stessa storia. Ma la battaglia per la parità di genere, oggi più viva che mai, ha nel passato le radici. Esattamente cinquant’anni fa ad Alcamo, nel trapanese, quando una giovane Franca Viola, abusata dal suo aguzzino, decide di ribellarsi alla tremenda pratica del matrimonio riparatore.

La vicenda è nota. Il testo drammaturgico fa largo uso della cronaca del tempo ed è arricchito da importanti fonti letterarie (la “voce” del popolo è presa dal libro-inchiesta Le svergognate di Lieta Harrison che usciva proprio in quegli anni, mentre la deposizione di Franca Viola in tribunale prende a prestito i versi del cunto siciliano di Don Chisciotte). Franca inizia a frequentare Filippo Melodia ancora minorenne. Il padre di lei, Bernardo, non vede di buon occhio il ragazzo. È un poco di buono che sbarca il lunario commettendo furti ed estorcendo denaro che poi spende in prostitute. Dopo un periodo in cui migra in Germania torna in Sicilia per sposare Franca, ma lei rifiuta di netto la proposta. Filippo, furioso, decide quindi in accordo con altri dodici complici di rapire Franca. Nei giorni a seguire subirà maltrattamenti e verrà più volte violentata. Disonorata sarà allora costretta a sposare il suo carnefice, a lavare l’ignominia con una manciata di riso. Così vuole la prassi comune a cui tutti si adeguano recitando a menadito il decalogo della donna onorata. Ma Franca si oppone: «Io non sono proprietà di nessuno, l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce», dirà a processo dopo aver denunciato il Melodia. Un gesto rivoluzionario per l’epoca, che spaccherà l’Italia in due tra chi continua a credere che la donna sia come un oggetto da possedere e sottomettere e chi invece inizia a lottare per l’emancipazione e i diritti di genere.

L’allestimento scenico, curato da Lisa Serio, ci trasporta in un cortile domestico dove si vedono panni stesi al caldo sole dell’isola. Tra gli oggetti di una vita contadina, arcaica e profondamente italiana, si muovono le tre giovanissime attrici. A loro sono affidati indistintamente tutti i personaggi della vicenda, senza un ruolo fisso. Basta impugnare un determinato oggetto o vestire un semplice indumento per caratterizzare il personaggio e scambiarselo tra loro. Sono pura materia attoriale, un magma ribollente di energia e passione, con cui i due registi hanno lavorato modellando e indirizzandone il talento.

La storia si snoda con un ritmo incalzante e preciso di movimenti e complesse coreografie, a cui dànno supporto le musiche originali di Kemonia. A ribadire che l’arte e il teatro possono essere un potente strumento per sradicare una mentalità ipocrita e maschilista che ancora stagna nella nostra società.

data di pubblicazione:14/03/2025


Il nostro voto:

LE CINQUE ROSE DI JENNIFER di Annibale Ruccello, regia di Geppy Gleijeses

LE CINQUE ROSE DI JENNIFER di Annibale Ruccello, regia di Geppy Gleijeses

con Geppy Gleijeses e Lorenzo Gleijeses

(Teatro India – Roma, 5/9 marzo 2025)

Tra i lavori più rappresentati di Annibale Ruccello – prematuramente scomparso a soli trent’anni nel 1986 – Le cinque rose di Jennifer è ora al teatro India per la divertente e insieme commovente interpretazione di Geppy Gleijeses (Produzione Dear Friends). Del drammaturgo napoletano il Teatro di Roma ha proposto a gennaio Anna Cappelli (con la regia di Claudio Tolcachir e l’interpretazione di Valentina Picello) e ad aprile è in programma il suo capolavoro, Ferdinando, per la regia di Arturo Cirillo.

Jennifer abita in un monolocale nel quartiere dove per una non specificata ragione sono stati confinati a margine tutti i travestiti. Più una condizione sociale che un luogo fisico situato chissà dove alla periferia di Napoli. Lo stile di vita a cui si ispira il suo comportamento è copiato dai giornali e dalla radio, che trasmette di continuo canzoni di Mina, Patty Pravo e Romina Power. Ma anche cattive notizie. Un serial killer si aggira infatti nella zona e miete vittime tra gli omosessuali. L’atmosfera noir della trama cela però una verità ben più profonda e teatrale. Jennifer vive una situazione di emarginazione e solitudine, aggravata dal cattivo funzionamento del telefono che intercetta telefonate di appartamenti vicini, ma non suona mai per lei. È infatti in attesa della chiamata di Franco, l’avventura di una sera, che le ha promesso l’impossibile: un amore esclusivo che promette di strapparla dal disagio.

La Jennifer di Gleijeses prende il carattere dal popolo, dai bassi napoletani, dove il dialetto è brusco, crudo e la vita si affronta con apparente strafottenza. Al suo fianco recita il figlio Lorenzo, nei panni di Anna, il travestito che piomba in casa sua con una scusa che per compensare l’isolamento – ulteriore ritratto di disperazione – si è trovato a rivolgere tutto l’affetto a una gatta, Rusinella.

Entrambi i personaggi vestono una solida armatura fatta di orpelli e distrazioni, feticci e falsi miti, per coprire la miseria e il degrado della loro condizione. E su questo forte contrasto si basa anche la scena di Paolo Calafiore. Allo spettatore infatti è concesso di vedere l’impalcatura che sorregge la scenografia iperrealista. Nella cucina dell’appartamento Jennifer prepara davvero il caffè e un sugo al pomodoro. Le pareti hanno uno squarcio e la claustrofobica stanza si vede contestualizzata nel luogo per eccellenza dell’illusione: il palcoscenico. Quando la realtà prende il sopravvento sulla finzione e questa viene mostrata nella sua effimera consistenza (la radio si azzittisce perché viene a mancare la corrente e il telefono rimane isolato per un guasto), allora tutto il mondo intorno a Jennifer si frantuma, risucchiandola nel vuoto. A causarne la morte è la disperazione che arriva quando crolla ogni fronzolo al quale si appoggiava la sua sicurezza.

La regia di Geppy Gleijeses coglie quindi le intenzioni del testo in questa versione apparsa la prima volta al Festival di Spoleto nel 2017. Come maestro indiscusso della scena, propone un lavoro nel pieno rispetto e valorizzazione di una tradizione partenopea e nazionale che, anche dopo e oltre Eduardo (forse evocato nella scenografia dalla presenza della ringhiera di un finto balcone), continua a stupire e a commuovere il pubblico attraverso un’analisi veritiera e sconcertante della società in cui siamo immersi.

data di pubblicazione:08/03/2025


Il nostro voto:

LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE di Joseph Roth

LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE di Joseph Roth

adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah, con Carlo Cecchi, Claudia Grassi e Giovanni Lucini

(Teatro India – Roma, 25 febbraio/2 marzo)

Carlo Cecchi veste i panni del santo bevitore nel racconto di Joseph Roth adattato per lui dalla regista e direttrice artistica del Franco Parenti di Milano, Andrée Ruth Shammah. La miracolosa ed enigmatica vicenda del clochard Andreas Kartak, migrato a Parigi dall’Europa dell’Est negli anni ’30, rivive in un racconto narrato in terza persona.

La grande tela su cui è proiettata una vecchia foto in bianco e nero di una strada alberata si apre come un sipario sulla scena disegnata da Gianmaurizio Fercioni, amico e collaboratore di tanti spettacoli della Shammah. Appare la sala di un bar abitata da solitudini al cui bancone è seduto un anziano bevitore. Attraverso la porta di ingresso al caffè e l’unica finestra si vedono proiettate all’esterno immagini della città di Parigi a contestualizzare un ambiente dall’atmosfera piovosa e retrò (le suggestioni visive sono di Luca Scarzella e Vinicio Bordin). All’interno, come in un quadro di Hopper dalle geometrie chiuse dello spazio, è incastonata la parabola effimera di un uomo.

Effimera, perché tutto in questo spettacolo sembra dire che il viaggio dell’umano verte verso il nulla. Si avverte come l’eco di un vecchio racconto chassidico che narra di un povero, vestito di stracci, il quale compare davanti a un re: ha forse bisogno di chiedere cosa desidera o la sua stessa presenza non parla già da sé? Ed è così che Carlo Cecchi ci presenta il personaggio di Andreas Kartak. Come un uomo bisognoso, che vive la sua misera vita sotto i ponti di Parigi. Un giorno incontra la fortuna per poi perderla e ritrovarla in altri incontri. Negli amori, nelle amicizie del passato in un gioco continuo di meschino e miracoloso.

Con la sua caratterizzante voce roca e con un certo ironico distacco dalla vicenda – che non è cinismo, ma consapevolezza del fatto che si può guardare la vita senza precipitare nella malinconia – Carlo Cecchi conduce lo spettatore all’interno di una storia comune eppure straordinaria. Illumina di volta in volta passi dello scritto con la sua perfezione di abile narratore. È un po’ Andreas e un po’ sé stesso. Ma è anche in parte la voce di Joseph Roth, l’autore di questa novella autobiografica, giornalista e romanziere, costretto dalle leggi raziali a fuggire dalla Germania nella capitale francese dove morirà per complicazioni dovute al troppo bere.

Completa la messa in scena una colonna sonora che cita canti yiddish, vecchie canzoni popolari francesi e soprattutto omaggia, usando gli stessi brani di Stravinskij, il film di Ermanno Olmi tratto dal racconto, che valse al regista il Leone d’Oro a Venezia nel 1988.

data di pubblicazione:04/03/2025


Il nostro voto:

UNA STORIA VERA FATTA DI BUGIE dal romanzo di Jennifer Clement

UNA STORIA VERA FATTA DI BUGIE dal romanzo di Jennifer Clement

regia di Yaser Mohamed, con Sabrina Biagioli, Iris Basilicata, Mathilde Serre e Yaser Mohamed

(Teatro di Villa Lazzaroni – Roma, 21/23 febbraio 2025)

Città del Messico, seconda metà dello scorso secolo. In casa degli O’Conner trova accoglienza e lavoro Leonora, una povera ragazza che arriva dalla provincia. Il divario sociale la renderà presto vittima di abuso e sopraffazione. Aura Olivia, la figlia più piccola dei signori, è la testimone innocente del mondo creato dalla scrittrice statunitense cresciuta in Messico Jennifer Clement. Ha debuttato lo spettacolo che porta il titolo del romanzo, firmato da Sabrina Biagioli e Iris Basilicata per Sabris Teatro e la regia di Yaser Mohamed.

Nella società raccontata dalla scrittrice Jennifer Clement il divario che separa il povero dal ricco è abissale. Siamo a Città del Messico e la famiglia O’Conner assume come bambinaia Leonora, una ragazza che viene dal contesto marginale della provincia. Educata a dire sempre di sì e mai a esternare quello che pensa, ha ricevuto un’educazione votata al servizio. Un sapere fatto di rituali che mischiano il sacro con il profano trasmessole direttamente dalla madre.

Per sopravvivere da piccola raccoglieva insieme ai fratelli dei ramoscelli per fabbricare scope. Ma adesso ha un buon lavoro e può mangiare carne più volte a settimana. In casa con lei vivono anche Sofia, la cuoca, e Josefa, la donna delle pulizie che non sa parlare. Leonora si prende cura di Aura, l’ultimogenita della casa attorno alla quale si muove un mondo che una bambina come lei non può ancora comprendere.

Prodotto letterario di incantevole originalità, il romanzo della Clement, uscito nel 2001 – la traduzione italiana è di Paola Brusasco (Instar Libri, 2003) – presenta uno stile di scrittura che fonde brani di prosa e versi poetici, in buona parte ispirati dalla salmodia biblica. Il racconto della vicenda di Leonora in casa degli O’Conner, narrata in terza persona, si alterna alla voce in prima persona di Aura che osserva la vita con gli occhi innocenti di una bambina. L’uso frequente poi delle virgolette basse per il discorso diretto ha favorito sicuramente la scrittura drammaturgica, che non fa mistero di riportare sulla scena brani interi tratti dal libro.

Se per un verso questa decisione ha reso omaggio all’autrice, presente eccezionalmente alla prima, dall’altro ha costretto la scrittura drammaturgica a moderare la libertà creativa e la regia a adeguarsi al racconto risolvendo con stacchi di buio e ripetizioni l’incedere delle scene. Soluzione che però rallenta il ritmo della storia. Dopotutto il tempo della lettura, che offre più spazio per dipanare l’intricato simbolismo di un testo così profondamente poetico come Una storia vera fatta di bugie, non batte la stessa misura di quello imposto da una visione e da un ascolto dalla platea.

Ciò non significa però che lo spettacolo non sia un buon prodotto dal punto di vista visivo e interpretativo. Entrambi gli aspetti hanno saputo cogliere l’essenza del romanzo. La scena di Francesca Fontana, essenziale negli elementi, mostra al centro un grande albero di pompelmo, custode silenzioso del giardino dove si consuma la vicenda. Sul fondale, invece, compare come sospesa in aria una casa di bambole a raffigurare il piccolo mondo raccontato. Come a dire che lo spazio di casa O’Conner è troppo piccolo per l’immensità delle esistenze che lo abitano.

data di pubblicazione:25/02/2025


Il nostro voto: