da Paolo Talone | Apr 9, 2025
con Sabrina Scuccimarra, Anna Rita Vitolo, Arturo Cirillo e Riccardo Ciccarelli
(Teatro India – Roma, 1/6 aprile 2025)
Con Ferdinando si è chiusa la triade di spettacoli che il Teatro di Roma ha dedicato all’indimenticabile e compianto interprete del teatro napoletano Annibale Ruccello. Esempio luminoso di una drammaturgia legata alla tradizione e insieme nuova definita del ‘dopo Eduardo’, a cui parteciparono anche Santanelli e Moscato. Dopo Anna Cappelli con Valentina Picello diretta da Claudio Tolcachir e Le cinque rose di Jennifer con Geppy e Lorenzo Gleijeses, Arturo Cirillo firma la regia e l’interpretazione (nel ruolo che fu dello stesso Ruccello nella primissima edizione del 1984) del capolavoro premio IDI dell’autore stabiese.
Una certa attenzione a smascherare il marcio e l’ipocrisia che alberga nella società in cui siamo immersi, supportata da un linguaggio teatrale che pesca nella forma dialettale espressioni inequivocabili, è in qualche modo la cifra stilistica di Annibale Ruccello. Non è da meno Ferdinando in cui si prende gioco, attraverso la sottile ironia e l’immediatezza dei caratteri dei personaggi, di un certo bigotto conformismo che sopravvive ancora oggi nonostante siano passati quarant’anni dal debutto. Ed è un testo tuttora vivo e contemporaneo, sebbene anche l’ambientazione riporti la vicenda nel 1870, come da didascalia, nove anni dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie.
Ancora tra la fitta e dettagliata didascalia si dà indicazione un pesante tendaggio. Cirillo lo riprende nella regia come elemento scenico caratterizzante, protagonista. Un ponderoso tappeto damascato, sbiadito dal tempo e dall’usura, percorre infatti tutta la scena, fungendo da fondale e insieme da piano di recitazione. Fuori dal perimetro tracciato si concedono baci di lussuria e si dà sfogo a voglie carnali. Oltre al mobilio d’epoca, un’oscurità appena attenuata da deboli luci suggerisce a chi guarda la sensazione di essere di fronte a qualcosa di polveroso e trasandato.
Decadenti appaiono i personaggi. Su di loro pesano gli anni e i fatti recenti della storia di un’Italia da poco unita, che ha portato con sé il declino delle famiglie nobili. E soprattutto ha uniformato il linguaggio a discapito della ricchezza del dialetto. Per questo Donna Clotilde pretende che in casa si parli solo il napoletano. Nella parte della protagonista Sabrina Scuccimarra lo rimarca con forza. È come inacidita dalla novità, alla quale si oppone con protesta passiva dal suo letto di finta malata. Eppure ha ancora qualcosa di avvenente, di vivo che la infiamma e la tiene sveglia nonostante l’apparente depressione. La comicità del personaggio sta nel trasformare la proverbiale gaiezza della napoletanità in spigoloso e pungente sarcasmo, prodotto dal rancore e dalla delusione.
Di lei si prende cura Gesualda, una parente povera, accusata ingiustamente di aspettare la morte della cugina per rilevare le sue pur scarse ricchezze. A vestirne i panni è Anna Rita Vitolo che sa toccare nello spazio di coprotagonista esilaranti punte di comicità. È espressione di una umanità arresa, bloccata, delusa, costretta ad accontentarsi del poco che la vita le mette davanti nel claustrofobico spazio dell’appartamento in cui è a servizio. Non disdegna infatti la compagnia di Don Catello, l’ambiguo prete del paese che ogni giorno fa visita alla malata, interpretato dallo stesso Cirillo.
Quando arriva Ferdinando – un giovane parente di Donna Clotilde rimasto orfano – in casa si respira un’aria nuova. Tutti se ne innamorano, anche Don Catello, per il quale rappresenta la possibilità, il futuro, la fiducia nello sperato cambiamento. Per Donna Clotilde invece è l’occasione attesa per riprendere la vita in mano, ma per Gesualda, che inizialmente soffrirà la concorrenza per le attenzioni che Don Catello rivolgerà al ragazzo, sarà solo un mezzo utile per dare smacco a chi l’ha scansata.
Ma il genio di Ruccello è nel finale, in cui l’acquistata serenità verrà nuovamente ribaltata. Ma ormai è troppo tardi e non rimane altro da fare che prendere coscienza della propria piccolezza a cui, più che con religioso perdono, sarebbe opportuno guardare con una sana e umana comprensione.
data di pubblicazione:09/04/2025
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Apr 5, 2025
regia di Carmelo Rifici
con (in ordine alfabetico), Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Carlotta Viscovo
(Teatro Vascello – Roma, 28 marzo/6 aprile 2025)
Una fabbrica di trovate comiche costruita sulle parole e le situazioni questa messa in scena del classico di Feydeau La pulce nell’orecchio firmata da Carmelo Rifici. È una fiera del riso e una girandola di follia, creata in collaborazione con Tindaro Granata per la traduzione e l’adattamento, e affidata a un eccezionale gruppo di attori. Una produzione impegnativa che vede collaborare LAC (Lugano Arte e Cultura), Piccolo Teatro di Milano e La Fabbrica dell’attore – Teatro Vascello di Roma.
Commedia degli equivoci, delle coincidenze e degli imbrogli. Chiaro esempio di quel genere chiamato vaudeville che Feydeau porta a perfezione seguendo le orme di grandi autori come Labiche. Un’occasione del tutto eccezionale per un regista come Rifici – solitamente alla prova con testi più impegnati – di dirigere un intreccio comico come La pulce nell’orecchio. Sceglie un impianto moderno, privando il contesto dei riferimenti borghesi insiti nella struttura del testo e lascia scoperto il meccanismo comico che invece lo caratterizza.
Il sospetto accende la bomba, mette la pulce nell’orecchio. Per colpa di uno scambio di bretelle una moglie crede che il marito la tradisca. Per avere prova della sua infedeltà gli fa scrivere una lettera da un’amica, invitandolo in un albergo di equivoca fama. È qui che gli eventi si moltiplicano, ingarbugliandosi in una matassa fitta che farà venire a galla intrighi piccanti, tresche segrete, piaceri libidinosi e inconfessabili voglie, fino allo scioglimento finale.
Capovolgimenti, immoralità, difetti e storpiature linguistiche. Rifici sfrutta il potere comico del testo, utilizzando qualsiasi espediente per fa ridere il pubblico. Il catalogo delle soluzioni comiche è completo. Dalle ripetizioni allo scambio di persona, dal degenerare delle situazioni fino all’imitazione dell’umano nei suoi lati grotteschi e animaleschi. E poi veri esercizi di clownerie e acrobazie sui blocchi di gommapiuma – a sostituzione del mobilio belle époque – che fungono da praticabili. La scena di Guido Buganza è una stanza dei giochi posizionata su un piano girevole che ruota come un carosello svelando inevitabilmente i nascondigli dove si consumano le segrete perversioni dei personaggi. È un giardino dell’infanzia in cui non ci si fa male. In fondo il teatro è il luogo della finzione, dove tutto accade per scherzo («Davvero potete credere che qui qualcuno possa morire veramente?»). Anche i colori sono gioiosi, un lavoro di riduzione a vibranti campiture che vanno a riempire spazi geometricamente definiti. Colori puri e cristallizzati che sono anche nel disegno dei costumi di Margherita Baldoni.
Il lavoro ermetico investe anche i personaggi. La realtà umana, dissezionata e come esplosa nel disordine del gioco, rimane tuttavia riconoscibile. Rifici la spoglia delle sovrastrutture sociali, dà pari dignità al genere e osserva con una lente i tratti di ognuno fino a esasperarne la ridicolezza. Agli attori è richiesta ogni tipo di attitudine e abilità, dall’elasticità alle doti vocali, da una grande memoria per gesti e intrichi verbali – alla bisogna sdoppiati in più ruoli – fino alla capacità di saper suonare uno strumento musicale. Ma soprattutto una dote: sapersi divertire in squadra. E la compagnia di attori messa in piedi da Rifici dimostra di essere un corpo unico, in cui gli elementi lavorano in sinergia e su cui (si immagina in prova e durante la tournée) sono state costruite le innumerevoli gag che vanno oltre la perfetta macchina di divertimento creata da Feydeau.
data di pubblicazione:05/04/2025
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Apr 1, 2025
con Valentina Carli e Giuseppe Tantillo
(Teatro Belli – Roma, 25/30 marzo 2025)
Debutto romano per la coppia artistica Tantillo/Carli di Bestfriend teatro nell’ambito di EXPO – rassegna diffusa di drammaturgia contemporanea italiana (con spettacoli in cartellone al Belli di Trastevere fino all’11 maggio). Dopo Best friend (2015) e Senza glutine (2017), l’autore e attore palermitano Giuseppe Tantillo presenta il suo terzo lavoro, Bianco. Una riflessione – condita di sana ironia – sulla percezione del tempo che rimane da vivere a due pazienti oncologici.
Lucio e Mia vivono una vita che ha perso colore. O meglio, è diventata dello stesso colore del male che portano dentro: bianco. Così appaiono infatti la maggior parte delle volte le masse tumorali quando si vanno a sviluppare all’interno dell’organismo. I due si conoscono mentre aspettano il proprio turno di visita nella sala d’aspetto di un ospedale oncologico. La storia è divisa in quadri. Ogni quadro è un passo avanti nella relazione che da semplici conoscenti li porterà a vivere una relazione stabile. Nessuno dei due parte avvantaggiato rispetto all’altro. Così l’analisi sulle conseguenze del tumore può dirigersi verso le emozioni, i pensieri, sulle possibili implicazioni che il loro rapporto avrebbe potuto avere.
Lucio è un professore di italiano e storia, con un tumore ai polmoni. La malattia ha invaso totalmente i suoi pensieri. È così insistente che anche nei sogni, invece di evadere, rivive come in un film la giornata appena trascorsa. Il pensiero della morte lo tormenta e si accentua quando gli viene data la notizia di una nuova operazione. Accanto a lui c’è Mia che di professione è un medico gastroenterologo. Il male l’ha colpita al seno. Il suo personaggio esprime come una sorta di distacco e freddezza scientifica rispetto alla tragedia della malattia. Ne misura la percentuale che lascia di sopravvivenza (in base alla quale pianifica il suo prossimo viaggio); scommette, guardando un gruppo di infermieri in sciopero per un miglior trattamento salariale, su chi sarà il prossimo a morire (combatterebbe allo stesso modo sapendo di dover morire?).
Eppure, nonostante l’apparente impassibilità, è quella che sa andare oltre e sa indicare a Lucio la strada. Senza stupide illusioni. Senza moralismi che fanno perdere tempo. Il tempo è infatti il tesoro più prezioso da non sprecare. Fatti i dovuti conti con la malattia, le rimane abbastanza spazio per essere scanzonata e tremendamente ironica. Mia sa andare oltre e aggiungere colore al bianco. Fino a trascinare Lucio addirittura fino in Cambogia, dove i tramonti sono di un rosso vivo. Gli occhi sono la prima cosa a decomporsi dopo che si è morti: per questo è necessario riempirli di meraviglia.
È una scrittura contemporanea quella di Tantillo, se per questo si intende strappare dalla realtà dialoghi e considerazioni che non hanno pretesa di morale. Imprime sulla scena – con la parola prima e il modo di recitare poi – una verità specchio del reale. Valentina Carli lo segue, in perfetta sintonia con lo stile crudo e naturale. Il lavoro sdrammatizza, senza cadere nel banale, un tema delicato e complesso. Guarda alla malattia per quello che è: un’intromissione, una castrazione. Ma la vita è qualcosa di più, si prende il suo spazio. Anche quello che non le è concesso.
data di pubblicazione:01/04/2025
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Mar 22, 2025
con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa e Mario Arcari
(Teatro Vascello – Roma, 11/16 marzo 2025)
«Chiamatemi Ishmael». Inizia citando l’incipit del romanzo di Melville lo spettacolo di Elio De Capitani, Moby Dick alla prova – dal riuscito adattamento in versi sciolti che ne fece Orson Welles settanta anni fa per il Duke of York’s Theatre di Londra – in scena dal 2022 nella produzione curata dal Teatro Elfo Puccini di Milano insieme al Teatro Stabile di Torino per la nuova traduzione, capolavoro drammaturgico, della poetessa Cristina Viti.
È uno spettacolo definito dal regista ‘totale’ quello che Elio De Capitani, legato dagli anni Settanta al teatro dell’Elfo di Milano, sta portando in tournée sui palcoscenici italiani per la quarta stagione. Un lavoro magnifico curato in ogni aspetto: dalla musica alla scena, dal testo alla performance degli attori. In questa lettura il teatro viene prima di tutto. Come spazio di aggregazione e luogo di e non solo per la poesia. Luogo della metafora, dove prendono corpo immaginifiche visioni accanto a tremendi incubi. Dove si celebra il rito della rappresentazione della sacralità dell’umano e dell’insondabile della sua coscienza. L’inafferrabile Moby Dick è un’idea della mente che diventa ossessione, come lo spettro del padre di Amleto.
L’idea che sostiene la trama compie marinarescamente un nodo a bandiera tra il Re Lear, che gli attori di una compagnia portano in scena ogni sera, e le prove di un nuovo spettacolo condotte al pomeriggio nel teatro vuoto, Moby Dick. Una prova, appunto. Un tentativo di cui non si è certi della riuscita. Sono capolavori epici, Lear e Moby Dick, entrambi a un primo momento considerati irrappresentabili. Ma Welles riuscirà nell’impresa, trionfando con uno spettacolo che fa leva su una parola potente, evocativa, capace di trascinare il pubblico tra marosi e imprese mortali. E ci riesce De Capitani, che da copione ricopre i ruoli che ritagliò per sé il regista di Quarto Potere del re scespiriano, dell’impresario della compagnia, di padre Mapple e del leggendario capitano Achab.
La scena è essenziale, usa attrezzi comuni che si trovano in teatro (tavoli, un grande telo tirato sul fondale e alte scale a pioli) per simulare le imbarcazioni da caccia, gli alberi della nave, le vele e gli abissi marini. Il teatro diventa meraviglia quando si crede al gioco della finzione. Sopperiscono alla povertà dei mezzi le indicazioni del “direttore di scena” (Cristina Crippa) che alla maniera del teatro epico (in senso brechtiano) elenca i luoghi dell’azione. Lo spettatore è così stretto nella morsa del racconto, nelle due e più ore in cui si svolgono i due atti, in un viaggio che parte dal pontile di Nantucket per passare nella cappella dove si fa memoria dei marinai morti in mare (oscuro presagio per la nuova ciurma in procinto di salpare), per poi salire sulla baleniera Pequod e passeggiare tra il ponte della nave e la cabina del capitano fino a giungere all’incontro con il mostruoso Leviatano che, sì, appare in scena. I colori sono quelli del mare in tempesta, delle sconfinate, brumose e gelide acque oceaniche. Un grigio malinconico che si attacca ai costumi (meravigliosi) di Ferdinando Bruni come la salsedine rimane addosso alla pelle nella navigazione.
Anche la musica e le luci sono protagoniste. Mario Arcari ha composto e suonato dal vivo una colonna sonora suggestiva quanto le parole, in cui si evoca al sassofono la sirena della nave che lascia il porto, le onde che si infrangono sullo scafo, la tempesta che lo percuote a colpi di grancassa mentre nell’aria risuonano minacciosi tuoni che prendono voce da un gong. E poi i canti marinareschi (diretti da Francesca Breschi) che dànno ritmo alla navigazione e alla vicenda. Una partitura complessa e costante, che si affianca a quella delle luci di Michele Ceglia. Un altro ricco repertorio fatto di bagliori improvvisi e ombre. Perché se nella musica sono importanti i silenzi, nel teatro è importante il buio. È la sospensione necessaria affinché la mente possa figurarsi i suoi mostri, le sue visioni. Il riverbero delle superfici fredde e metalliche degli oggetti di scena gli fanno contrappunto. Insieme ai tagli di luce, compatta e concentrata sui corpi, a gettare fiamme sulle anime tormentate. L’immensità del mare simulata dalle silhouette delle figure in controluce. Con questo contrasto De Capitani dipinge così bene la morte da farcene sentire con persistenza l’olezzo soffocante.
Ma su tutto è straordinaria la compagnia di attori. Anime possedute da una cieca e ostinata volontà a cui fa capo Achab, che comanda obbedienza nella sfida all’impossibile. Trascina tutti nel suo folle volo verso la cattura del Leviatano. Anche il pubblico. Lo spettatore si immedesima con Ishmael e il suo desiderio di imbarcarsi per vedere il mondo. E non c’è posto migliore dove affacciarsi per vederlo se non dalla platea.
Il sipario, chiamato dal capocomico, si chiude su un sogno che si sarebbe voluto interminabile e invece è durato il tempo di un giro di clessidra.
data di pubblicazione:22/03/2025
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Mar 15, 2025
con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia di Riccardo Fazi
(Teatro Tor Bella Monaca – Roma, 6/8 marzo 2025)
Poggio Corbello è un luogo “senza intrusi” dove Nives vive ormai sola dopo la morte del marito Anteo. A farle compagnia nella grossa tenuta ci sono gli animali. In particolare Giacomina, una gallina azzoppata che la donna decide di mettersi in casa per curare la solitudine e l’insonnia. Una sera però la chioccia rimane paralizzata davanti alla TV. Non c’è modo di svegliarla. Così Nives chiama al telefono Loriano, il bravo veterinario del paese il cui unico difetto apparentemente sembra ridursi al troppo bere.
Tutti abbiamo scheletri nell’armadio. Storie del passato che giacciono silenziose in qualche luogo nascosto della mente. Può trattarsi di un avvenimento che ha determinato delle scelte o magari un rimpianto, in cui si incastra il pensiero di qualcosa che poteva essere e non è stato. A volte è il dolore di un amore non vissuto che ha lasciato strascichi indelebili. Come in Nives, il romanzo di Sasha Naspini (Edizioni e/o, tradotto in 25 lingue) che dà il titolo a questa trasposizione teatrale diretta da Giorgio Zorcù e che vede protagonisti l’attore comico – qui prestato a un ruolo drammatico – Sergio Sgrilli e Sara Donzelli, fondatrice di Accademia Mutamenti, che ha prodotto lo spettacolo insieme a Muta Imago (Riccardo Fazi ne ha curato anche la drammaturgia).
Un lungo tavolo percorre tutta la scena. Agli estremi ci sono Nives e Loriano che parlano ininterrottamente al telefono per tutta una notte. Sono molto distanti tra loro eppure proprio l’elemento del tavolo, quasi l’unico oggetto a caratterizzare la scena insieme a due sedie, fornisce l’indizio di un’unione, di un filo comune che percorre le due esistenze. Il pubblico ascolta la conversazione indossando delle cuffie wireless. Un espediente che crea una sensazione intima e avvolgente e che permette di cogliere le minime sfumature di emozione nella voce degli attori. Dopotutto si sta origliando una confessione piena di colpi di scena in cui è lei a distribuire le carte del gioco.
Tra i due protagonisti si scopre esserci stato un passato di amore e passione. Ma circostanze esterne e la mancanza di coraggio ne hanno decretato l’allontanamento. Da allora i loro corpi si sono solamente sfiorati, come fa capire bene la danza di movimenti curata insieme a Giulia Mureddu. L’elemento comico presente nel romanzo di una Nives schietta e sferzante è smorzato nell’interpretazione della Donzelli in cui risalta invece cinismo e disillusione, rammarico e vendetta. Il Loriano di Sgrilli, attenta e intonata spalla, risponde con rassegnata mestizia, si dimena impotente come un animale ingabbiato, nel crescendo di tensione che tiene lo spettatore inchiodato all’ascolto.
data di pubblicazione:15/03/2025
Il nostro voto: 
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