DARKMOON di Matteo Fasanella

DARKMOON di Matteo Fasanella

con Sabrina Sacchelli, Nicolò Berti e Giuseppe Coppola

(Teatrosophia – Roma, 4/7 aprile 2024)

Due fratelli e una sorella. Un mistero di morti avvenute in un’estate di molti anni prima. Un ragazzo consumato dal desiderio di conoscere che trova redenzione nella poesia. Debutta al Teatrosophia, la centralissima sala romana gestita con ammirevole passione da Guido Lomoro, il nuovo spettacolo di DarkSide LabTheatre Company. (Foto di Agnese Carinci)

  

Un’atmosfera lattiginosa e crepuscolare avvolge la scena dell’accogliente Teatrosophia. La storia familiare di Salesio, Orazio e Pilla – due fratelli e una sorella – è turbata dal ricordo di un passato che torna a funestare un presente solo in apparenza sereno. Siamo nel 1825. Orazio è preoccupato per il comportamento del fratello Salesio. Questi passa tutto il tempo chiuso nella biblioteca di famiglia, dove conduce le sue ricerche con preoccupante smania e irrequietezza. Nell’attitudine, nelle movenze e nel costante racconto dell’agitazione che lo abita Salesio è Giacomo Leopardi. Solo Pilla sembra comprenderne e accettarne il segreto movimento. È lei che cerca di mitigare il sempre più teso rapporto tra i due fratelli. Intanto il ricordo delle terribili uccisioni avvenute nell’estate del 1813, quando i tre erano poco più che adolescenti, fa nascere nuovi sospetti e paure. Tre pecore di un ovile, un cane e il nipote di un fattore vennero sgozzati da quello che si pensava potesse essere un orso o un lupo. Un libro gelosamente custodito nella biblioteca rivela una genia di licantropi il cui sangue scorre ora nelle vene di Salesio. I sospetti si spostano su di lui, attratto misteriosamente dalla luna. Il suo interesse scientifico per l’astro notturno si trasforma però in motivo di ispirazione. Sortisce nel suo animo una creatività poetica che da sola saprà mitigare il suo animo tormentato, fugherà le paure e darà giustizia al suo lato oscuro e taciuto.

Ispirato al romanzo Io venìa pien d’angoscia a rimirarti (1990) dello scrittore Michele Mari, l’adattamento per la scena di Matteo Fasanella percorre finemente la strada del sogno e del mistero, trasportando lo spettatore in un’epoca lontana tanto nel linguaggio quanto nei costumi. La profonda interpretazione di Giuseppe Coppola nei panni del licantropo Salesio/Leopardi si avvale del sostegno ben calibrato di Sabrina Sacchelli (Pilla) e Nicolò Berti (Orazio). Ben distribuite le parti tra loro, tanto da renderli protagonisti alla stessa misura. L’avventura collettiva si avvale anche del prezioso aiuto di Virna Zordan e Lorenzo Martinelli per l’assistenza alla regia e dell’allestimento scenico di Alessio Giusto, la cui luna lascia davvero abbagliati. Uno spettacolo che deve la sua buona resa all’ottimo lavoro di squadra e che ci ricorda che coltivare la poesia a volte salva di più della scienza.

data di pubblicazione:10/04/2024


Il nostro voto:

CHILOMETRO_42 di Giovanni Bonacci

CHILOMETRO_42 di Giovanni Bonacci

diretto e interpretato da Angela Ciaburri, musiche dal vivo di Munendo

(Teatro Cometa OFF – Roma, 27/29 marzo 2024)

Angela Ciaburri duetta sul palco con il musicista romano Munendo. Insieme disegnano le tappe del percorso di preparazione che ha portato Kathrine Switzer a diventare la prima atleta donna al mondo a correre una maratona. Una storia che ha per protagonista la sfida (vinta) a sé stessi e al pregiudizio del senso comune.

 

Un barattolo di zuppa al pomodoro Campbell è così facile da aprire che anche una donna riuscirebbe a farlo. Su questa incontrovertibile provocazione si intreccia il racconto biografico di Kathrine Switzer, la prima donna a correre una maratona quando la disciplina era riservata ai soli uomini (il corpo delle donne era considerato troppo fragile per affrontare la sfida). È il 1967, la maratona è quella di Boston e nella società i ruoli di donna e uomo sono ancora pregiudizialmente definiti. Kathrine, classe 1947, elude i controlli degli organizzatori e si iscrive alla corsa guadagnando il numero di pettorale 261. Un giudice di gara la strattona, ma lei rimane al suo posto riuscendo comunque a raggiungere il traguardo. Quella corsa è una guerra che deve assolutamente vincere. Per sé e per tutte le donne che verranno dopo di lei.

Tuttavia questo è solo il felice epilogo di Chilometro_42. Tutto il resto della scrittura drammaturgica, complesso e ritmato lavoro di Giovanni Bonacci nato in collaborazione con progetto SUPERFICIE di Matteo Santilli e sviluppato in sinergia con l’interprete Angela Ciaburri e il cantautore Armando Valletta in arte Munendo, ripercorre le tappe della vita della maratoneta statunitense. Kathrine è una ragazzina che vive la fatica della crescita, del cambiamento. Sente di essere diversa dalle altre ragazze. Non si accontenta di far parte delle cheerleader. Vuole qualcosa di più, ma per ottenerlo deve anche soffrire, accettare la sconfitta e le cadute. Sopportare la violenza di un paese che ti vuole vincitrice ma che poi ti lascia sola nei momenti di fragilità. Indovinata la digressione su Simone Biles, la grande ginnasta più volte campionessa mondiale, rimasta vittima degli abusi sessuali del medico della nazionale. Kathrine non è la sola a combattere per la propria affermazione.

La performance di Angela Ciaburri è coinvolgente, viene voglia di tifare per lei come dagli spalti di un campo di allenamento. La fatica che fa sul palco sembra estenuante, eppure arriva vincitrice al traguardo dell’applauso. La ricca impalcatura sonora di Munendo enfatizza e contestualizza la sua prova. Si fonde con il monologo, tanto da diventare un’estensione dei pensieri della ragazza. Stimola la fantasia dello spettatore creando nella sua mente immagini che sopperiscono alla mancanza di scenografia. Appaiono i muri di persone attorno al tracciato della maratona. Appare la cameretta dove Kathrine prova le coreografie da cheerleader. Appaiono i campi degli allenamenti, con i prati erbosi e le tribune.

Per paradosso lo scopo non è il podio. Il successo non si misura in tempi record e chilometri percorsi. Si vince ascoltando sé stessi, nella scoperta e nel superamento dei propri limiti. Nella sfida alle proprie paure e alle gabbie imposte dalla società. Perché la vera vittoria coincide con il raggiungimento della libertà.

data di pubblicazione:05/04/2024


Il nostro voto:

LA DONNA DI PIETRA di Federico Malvaldi

LA DONNA DI PIETRA di Federico Malvaldi

con Veronica Rivolta, regia di Sara Younes e Federico Malvaldi

(Teatro Spazio 18b – Roma, 7/17 marzo 2024)

Nei giorni in cui si ricorda con più attenzione la lotta ai diritti per le donne, è in scena al Teatro Spazio 18B, la sala teatrale nel quartiere di Garbatella gestita dalla Compagnia dei Masnadieri, il nuovo testo del giovane e promettente autore Federico Malvaldi. Camille Claudel, artista allieva e amante di Auguste Rodin, racconta la sua disperata verità nell’interpretazione di Veronica Rivolta, La donna di pietra.

 

La figura della scultrice francese Camille Claudel – di cui si celebrano quest’anno i 160 anni dalla nascita – è colta nel pieno delle sue persecuzioni e dei ricordi che la abitano. Chiama in causa direttamente il pubblico per confessare la propria verità e rendere giustizia di sé e della sua memoria. Resa dura come la pietra dalla sofferenza, è inasprita dall’isolamento. Ha conosciuto la povertà, sommersa dai debiti, e la difficile condizione di amante rifiutata e scacciata. Ha persino avuto un aborto. Come ricompensa ai sacrifici e alle umiliazioni subiti per la sua arte, ora è rinchiusa nel manicomio di Montdevergues in Vaucluse, per volere dei suoi familiari, dove rimarrà fino alla morte. Aspetta invano qualcuno che venga a prenderla per riportarla nell’amata casa di famiglia a Villeneuve, via da quell’inferno. Una consolazione effimera arriva da una compagna di reclusione, Marie. La compassione del suo sorriso senza denti è l’unica espressione di tenerezza che le è rivolta, quella che le hanno negato il fratello Paul, famoso poeta e cattolico fervente, e Rodin, l’inganno e insieme l’amore più grande della sua vita. La madre, una donna dal carattere severo e intransigente, non andrà mai a farle visita. Solo il ricordo del padre – unico a incoraggiarla negli studi artistici – e quello delle amiche della giovinezza scalderà un poco il gelo delle pareti del ricovero.

In teatro Camille Claudel è apparsa già come personaggio nei due atti di Camille (1995) scritti da Dacia Maraini e in tempi più recenti nei lavori di Anna Cuomo, Vera Gargoni e Chiara Pasetti. Adesso è un uomo a scriverne, Federico Malvaldi. Il suo testo La donna di pietra, prodotto da Remuda Teatro e diretto dallo stesso Malvaldi insieme a Sara Younes, è un’opera di poesia che fonda l’azione nell’uso sapiente della metafora. Le immagini minuziose di cui si serve comunicano la straziante umanità del personaggio. L’indagine restituisce i fatti con fedeltà. È una scrittura colta, documentata, capace di far dialogare il dato storico con un sentimento vivo, pulsante.

Camille è colta nel momento in cui è stata derubata di tutto: della libertà e di una materia da plasmare. Ma soprattutto del movimento. Veronica Rivolta, a cui è affidato il personaggio, recita seduta su uno sgabello. Demanda a pochi ma significativi movimenti compiuti con le mani e con lo sguardo la sua ribellione alla clausura e all’isolamento. Modella l’aria non come se fosse un gesto teatrale, evocativo, ma perché è il vuoto la sola cosa che la circonda. L’azione scenica è affidata completamente alla parola. Non c’è traccia di pazzia nella sua interpretazione, ma solo un’ostinata e sfrenata voglia di vivere.

Camille è una donna di pietra perché non ha ceduto ai dettami di una società maschilista. La sua denuncia diventa così universale e raccoglie il grido di tutte le donne soffocate come lei. Chi rimane in silenzio non fa altro che essere complice di questa violenza.

data di pubblicazione:11/03/2024


Il nostro voto:

ANNA CAPPELLI di Annibale Ruccello

ANNA CAPPELLI di Annibale Ruccello

con Giada Prandi, regia di Renato Chiocca

(Teatro Cometa OFF – Roma, 27 febbraio/3 marzo 2024)

Torna anche quest’anno in cartellone al Cometa OFF la celebre tragicommedia firmata dal compianto Annibale Ruccello per la regia di Renato Chiocca. Giada Prandi è Anna Cappelli, l’impiegata comunale ossessionata dal bisogno di possedere le cose, anche l’amore. (foto di Umbi Meschini)

 

Per Anna Cappelli tutto, anche l’amore, ha un valore materiale. È determinata a ottenere ciò che desidera, dovesse anche rinunciare alla reputazione o perfino al matrimonio. Tanto è solo un contratto. Così poco vale se per andare ad abitare con il ragioniere Tonino Scarpa deve rinunciare a sposarsi e accettare la convivenza che lui le propone. Nessuno scandalo oggi, certo. Ma non nell’Italia degli anni ’60, in cui Annibale Ruccello ambienta il monologo scritto nel 1986 (lo stesso anno della morte del drammaturgo stabiese, scomparso a soli trent’anni nel tragico incidente sulla strada che da Roma lo riportava a Napoli).

Se tutto si riduce a cosa da possedere, allora anche lei diventa un oggetto tra gli oggetti. Una bambola, di tutto punto vestita e accessoriata (nel meraviglioso costume dell’epoca realizzato da Anna Coluccia), riposta nella scatola immaginata per lei dal regista Renato Chiocca. Da questo spazio cubico, appena tracciato in un perimetro nel vuoto della scena costruita da Massimo Palumbo, prende forma il dramma.

Per Anna le giornate sono tutte uguali. Scorrono monotone tra le scartoffie impolverate e i timbri dell’ufficio comunale di Latina. Vive ospite a casa della signora Tavernini, di cui odia i gatti e il nauseante odore di pesce bollito che esce dalla cucina. Non sopporta il fatto che i genitori abbiano dato la sua vecchia cameretta alla sorella Giuliana. Dopotutto quella stanza le appartiene, anche se non abita più con loro. Il riscatto sembra arrivare quando il ragionier Scarpa le chiede di andare a convivere, e lei accetta attratta, più che dall’amore, per il fatto che Tonino ha una casa di proprietà con dodici stanze. Ma anche questo le verrà tolto e allora la disperazione si tradurrà in un gesto folle.

Ogni volta che qualcosa le sta per essere portata via, nei sui occhi guizza una scintilla di rabbia e isteria. L’apparente ordine di cui si circonda è presto rovinato dal disordine che la abita. Eccezionale Giada Prandi a sottolineare nella recitazione questo forte contrasto tra armonia esteriore e rancore sopito. Abilissima nell’anticipare le parole del testo con gli occhi, sbarrati e sempre attenti alla lucida follia che la divora. Una recita solo in apparenza leggera, ma profondamente espressiva, piena di vibrante energia, come il personaggio che interpreta. Le luci di Gianluca Cappelletti e le musiche originali di Stefano Switala completano il lavoro di una squadra che si distingue per il perfetto equilibrio dei ruoli. Lo spettacolo non può che guadagnarne in limpidezza e comprensibilità.

data di pubblicazione:02/03/2024


Il nostro voto:

ERODIADE di Giovanni Testori

ERODIADE di Giovanni Testori

con Francesca Benedetti, regia di Marco Carniti, assistente alla regia Francesco Lonano, musiche di David Barittoni

(Teatro Basilica – Roma, 21 febbraio 2024)

Serata unica al teatro Basilica per Erodiade di Giovanni Testori. Nella lunga scia degli eventi di celebrazione per i cento anni dalla nascita dell’autore milanese, Francesca Benedetti porta in scena uno dei personaggi più potenti del teatro testoriano. La regina divorata da un amore impossibile per il profeta Giovanni Battista, di cui arriva a chiedere la testa.

 

Avanza lentamente dal fondo del teatro Francesca Benedetti. Prima ancora di vedere la sua figura di regina si ode la sua voce, vera protagonista di questa nuova messa in scena dell’ Erodiade di Giovanni Testori. È una voce del passato, profonda e scura, piena di graffi e cicatrici, resa ancora più suggestiva dalla straordinaria architettura di mattoni romani del teatro Basilica. Un’antologia di suoni che il tempo non ha dissipato, bensì amplificato. Parla una lingua sconosciuta, inventata, appartenuta a una delle tante Erodiadi venute fuori dalla mente creativa dello scrittore di Novate. È la lingua di quella Erodiàs apparsa nell’ultima trilogia teatrale scritta poco prima della morte del drammaturgo.

Per uno strano errore, che aggiunge particolare significato all’evento, sul biglietto di ingresso è scritto Erodiadi, al plurale. E di molti Erodiadi si deve parlare ascoltando il testo riadattato da Marco Carniti per una delle attrici che sono la storia del teatro italiano. E di quello testoriano in particolare. Memorabile è l’interpretazione della Benedetti nel ruolo de la Ledi nella primissima edizione del Macbetto al Salone Pier Lombardo di Milano – oggi teatro Franco Parenti – nel 1974. L’attrice e lo scrittore erano legati da una profonda amicizia, testimoniata anche negli scatti (rintracciabili nel web) di Carla Cerati.

Il dramma di Erodiade è destinato quindi a essere rimaneggiato nel tempo e nelle epoche che si susseguono. Questa versione non è esente dalla riscrittura. Il testo è un compendio delle edizioni precedenti, riprese e frantumate, arricchite di nuove immagini. Spetasciate, per usare un termine testoriano. Scucito e ricucito con il filo della voce di Francesca Benedetti, che poi un filo non è.

Ritorna il trono della prima versione del 1969, scomparso nella storica messa in scena del 1983, per la regia dello stesso Testori con protagonista Adriana Innocenti. Un trono ammantato di rosso, chiaro richiamo al sangue versato per l’atto della decollazione del Battista. Rosso è anche l’abito dell’eroina tragica, che rivendica con forza il suo potere di donna e di regina, seduta in atteggiamento imperante, ancora vagamente sensuale. Osserva con gli occhi sbarrati, testimoni di un incubo interiore, il bacile che raccoglie i brandelli filamentosi della testa del profeta. Proprio questa è l’altra protagonista del racconto. Alle spalle dell’attrice appaiono proiettati i disegni delle teste del Battista che l’autore, anche pittore, realizzò nel 1969 durante la prima stesura del dramma. Diventano materiale drammaturgico, la cui sequenza scandisce i tempi della narrazione, fungendo da deuteragonista all’eroina sola sulla scena.

Nello svolgersi della tragedia, Erodiade arriva nell’aldilà, carica del peso del suo dramma umano. Il dolore che vive è cosa vera, non recitata. Non ci sono cieli o dèi ad accogliere la sua ombra, ma solo il niente e la bestemmia dell’indifferenza umana. La prigione vuota – come disse Carlo Bo – della nostra orrenda insensibilità.

data di pubblicazione:24/02/2024


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