da Paolo Talone | Ott 24, 2019
(Sala Umberto – Roma, 22 ottobre 2019)
Uno spettacolo che celebra la drammaticità della condizione della donna. Una visione ironica e intelligente come solo Dario Fo e Franca Rame potevano restituirci. Un’attrice eccezionale sul palco a raccontarcelo.
Si chiude in bellezza la rassegna romana di eventi dedicati a Dario Fo e al suo teatro alla Sala Umberto di via della Mercede. Bella in particolare Valentina Lodovini e così brava da trasmettere al pubblico grande emozione e partecipazione. Un’attrice matura, ricca di esperienza e carisma, che possiede pienamente un caleidoscopio completo di registri comici. Si ride tantissimo e si riflette: la condizione di sottomissione sessuale della donna all’uomo, con ciò che ne deriva, è il tema portante e – ahimè! – ancora tremendamente attuale, in Italia e in tante parti del mondo.
Il testo si suddivide in tre parti, come le tipologie di donna presentate o, per meglio dire, le condizioni in cui una donna può venire a trovarsi: la casalinga, l’amante e l’operaia.
Se è facile intuire come si possa svolgere la vita di una casalinga, segregata in casa dal marito geloso, alle prese con i figli, la casa, il cognato invalido che allunga l’unica mano funzionante e le chiacchiere con la dirimpettaia, non si può dire altrettanto del finale. Accade infatti qualcosa di assurdo e inaspettato, che ribalta lo stato di vittimismo della donna. Ci piacerebbe vedere questo riscatto anche nella vita vera di tante donne, ma la soluzione è appunto questa: assurda, come assurda appare una possibile rivalsa femminile in genere.
Le altre due storie terminano con altrettanti finali impossibili ed è amaro constatare quanto lo scenario di violenza contro le donne sia ancora tremendamente attuale, rispetto anche a quando il testo venne rappresentato per la prima volta nel 1977. Proprio di questi giorni è la notizia dell’uccisione di Hevrin Khalaf, ultima di innumerevoli morti, femminista e attivista politica curda, vittima del regime turco e degli jihadisti.
A chiudere lo spettacolo, come epilogo – staccato dal resto della narrazione ma tematicamente coerente – Alice nel Paese senza Meraviglie, una drammatica e distorta immagine della vicenda favolesca, che con rabbia racconta ancora la prepotenza maschile sulla debolezza femminile.
data di pubblicazione:24/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 22, 2019
(Sala Umberto – Roma, 21 ottobre 2019)
Sono passati 50 anni dalla prima volta che Mistero buffo andò in scena tra gli studenti dell’università di Milano; 20 dall’ultima volta che Pirovano è stato a Roma, in cui ritorna con una selezione di cinque giullarate del grande artista per tre ore di spettacolo. Roma celebra Fo.
La giornata di studi su Mistero buffo
La rassegna Roma per Fo inizia già nel pomeriggio alla Sala Umberto, nel foyer del teatro. Raccolto intorno ai relatori c’è un piccolo pubblico di interessati, l’atmosfera è accogliente. La giornata di studi intorno a Mistero buffo è moderata da Mattea Fo che da subito la parola a Felice Cappa, autore, regista e amico di Dario e Franca. Con i loro nomi propri vengono chiamati i due artisti, a testimoniare la familiarità e l’amicizia che li legava ai loro collaboratori. L’argomento di questo primo intervento è rivolto alle immagini, le tante immagini raccolte da Fo per dare vita alle sue giullarate e quelle che egli stesso realizzò per i suoi spettacoli – le famose lastrine, diapositive su vetro proiettate per presentare i testi recitati. La cultura visiva è la fonte primaria delle opere di Dario insieme alla trasmissione orale degli innumerevoli racconti popolari. Il tema è unico: la storia dell’eterno conflitto tra il popolo oppresso e povero – Dario non amava gli eroi – e il potere che lo dominava, risolto sempre con un registro ironico e satirico.
L’intervento di Maria Teresa Pizza (curatrice dell’archivio Fo/Rame) illustra invece come si muove la macchina teatrale creata dalla formidabile coppia, che del rapporto con il pubblico, e quindi dall’accoglienza nello spazio teatrale e nel saluto fino al dibattito dopo ogni spettacolo, si nutre e prende ispirazione. Il loro non era solo un mestiere, ma anche un’etica: il teatro che proponevano si nutriva di quello che accadeva nelle piazze tra la gente. Era il loro modo di fare politica. Inutile dire quanto questa attenzione al popolo abbia reso Dario Fo anche un ottimo storico, ricercatore e scopritore di piccoli fatti nascosti nelle carte di archivio che talvolta sono serviti a leggere meglio diverse vicende umane.
L’incontro si chiude con una notizia sul numero delle regie dei testi di Fo e Rame che sono in giro per il mondo in questo momento, ben 7500 quelle censite. Testimonianza del successo ma anche della capacità di queste opere di dare ancora senso alla situazione degli oppressi a ogni latitudine. Saluta infine Mario Pirovano che presto, è quasi ora di cena ormai, sarà sul palco con Mistero buffo.
Lo spettacolo
È in perfetta sintonia con la tradizione teatrale dettata da Dario Fo che Mario Pirovano imposta la sua interpretazione, fedele soprattutto del testo. Si incontrano casualmente a Londra all’inizio degli anni ’80 e tra loro comincia un viaggio i cui frutti si raccolgono sul palco ancora oggi. Pirovano viveva in Inghilterra, ma la conoscenza di Dario e Franca determina per lui un cambiamento. Viene invitato a tornare in Italia per lavorare nella compagnia come attrezzista, autista, elettricista ecc. Attore lo diventa per caso. Mentre si trovava a sedare una lite tra alcuni ragazzini improvvisa per loro il racconto de Il primo miracolo di Gesù bambino e subito si accorge di avere tutto il testo già dentro, ingoiato e digerito per bene, senza saperlo.
A oggi è uno degli interpreti più straordinari del repertorio Fo/Rame: vederlo a teatro è una grande fortuna. La fedeltà al testo e alla mimica di Dario, nonché una certa vaga somiglianza tra i due, aggiunge all’evento un ché di miracoloso. Tuttavia è dalla sua personale esperienza e dalla sua storia – che inizia in un paesino nel novarese – che prende ispirazione per le voci dei personaggi e per le movenze a loro collegate.
Da subito Pirovano stabilisce un contatto con il pubblico, le luci che rimangono accese in sala quando appare in scena ne sono il segno. Il popolo è il protagonista di Mistero buffo, ne è l’anima. Per questo le giullarate che contiene e quelle che vengono scelte per essere rappresentate vanno costantemente ricontestualizzate. Così se alla fine del 1969 la strage di Piazza Fontana fece guardare il brano dedicato a Bonifacio VIII da una certa prospettiva, oggi questa stessa giullarata non può che ricordare il grottesco di alcuni personaggi della nostra politica – qualcuno dal pubblico urla “Salvini”. Gli esempi e le connessioni si moltiplicano via via che lo spettacolo va avanti. Il prologo a ogni brano è un momento di scambio e una lezione. Interpretare La fame dello Zanni o La nascita del giullare (che insieme al già citato Bonifacio VIII e a Il miracolo di Lazzaro e a Il primo miracolo di Gesù bambino sono la scelta di questa serata) con l’occhio puntato al presente storico in cui viviamo è una necessità per questo classico che è Mistero buffo. I testi in esso contenuti si nutrono della linfa della storia da cui provengono e di quella a cui vengono rappresentati. La rielaborazione dei testi in questo senso è una caratteristica che Pirovano non manca di rispettare.
Il momento creativo e teatrale, che nasce dal dialogo dell’attore con la platea, è di nuovo ripetuto. Forse meno azzeccato il luogo sociale in cui esso è presentato: paradossalmente i teatri sono i luoghi meno adatti per questa rappresentazione. Tuttavia speriamo solo di non dover passare tanto tempo prima di rivedere in scena da qualche parte a Roma Mario Pirovano.
data di pubblicazione:22/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 16, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 15/27 ottobre 2019)
Una stanza in una casa. Un affaccio su Napoli. La vita di una famiglia nello scorrere del tempo che muta le cose, ma non ne intacca il valore. L’autore de “I bastardi di Pizzofalcone” incontra un regista sensibile e intimo come Alessandro Gassmann.
Valerio Primic è uno scrittore che ha goduto nella vita di grande fama e successo, ma non pubblica più nulla ormai da molto tempo. A farglielo pesare è la moglie Rose, che lo rimprovera di passare tutto il tempo rinchiuso nel suo studio, mentre oltre la porta – quella che dà sul resto della casa dove tutta la famiglia vive una vita dinamica – le cose precipitano rovinosamente verso una crisi economica preoccupante. Anche il figlio Massimiliano non sembra andare d’accordo con il padre, a cui rinfaccia le troppe assenze nei momenti importanti, l’ordine maniacale con cui tiene in ordine i suoi libri – che sommergono letteralmente la scenografia, organizzati non per autore o argomento, ma secondo una “omogeneità emotiva” ovvero una concordanza di sentimenti nei contenuti – fino a confessargli la propria omosessualità come ad arrecargli un dispetto. Adele, la figlia più piccola, è l’unica che passa volentieri il tempo dentro la stanza in compagnia del padre, del quale però subisce il fascino fino a cercare negli altri uomini la figura che sia all’altezza di competere con lui, anche negli anni. L’unica a supportarlo e a guidarlo con consigli pescati nella saggezza popolare, ad avere cura di lui, è Bettina – la cameriera che ascolta ogni minimo rumore della casa da dietro un’altra porta – a cui Valerio si oppone con un linguaggio troppo più alto per lei, generando momenti di edoardiana comicità. Le scene si susseguono una dopo l’altra in una sequenza che ne ripete ciclicamente la struttura. A tratti può annoiare, ma serve ai personaggi per dialogare – monologando – con l’unico protagonista presente in scena per tutta la durata dello spettacolo: il padre. La sua unica colpa sembra essere quella di osservare e di rispondere ai familiari con piccoli silenzi, che se sommati però diventano un silenzio grande, forse troppo per essere sopportato. Per Massimiliano Gallo (il padre) è una grande prova d’attore, al quale si affianca un’eccezionale e applauditissima Monica Nappo (Bettina, la cameriera).
La casa viene venduta per acquistarne una più piccola e riportare finalmente un po’ di serenità alla famiglia. A turno tutti entrano nello studio per salutare il luogo testimone dei fallimenti e delle incomprensioni, le mura che hanno ascoltato le più segrete confessioni e che ha visto nascere libri di successo. La stanza diventa quasi personaggio tra i personaggi. Di lei vediamo solo due pareti che creano una fuga prospettica di cui Valerio Primic ne è il centro focale. È il luogo del ricordo, dolce e amaro, zavorra a volte da cui ci si deve alleggerire.
La commedia si risolve nella semplice celebrazione della bellezza che si trova nascosta nelle cose ordinarie della vita, quella che attraversa ognuno. Il coup de theatre nel finale cambia la lettura delle cose e ne innalza improvvisamente il valore. Ora si può traslocare altrove.
data di pubblicazione:16/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 13, 2019
(Teatro Brancaccino – Roma, 10/13 ottobre 2019)
La straordinaria abilità recitativa di Ugo Dighero a confronto con due testi tratti dall’opera antologica del premio Nobel alla letteratura Dario Fo.
È diventato ormai da tempo un cavallo di battaglia per Dighero portare in scena i brani di Dario Fo Il primo miracolo di Gesù bambino e La parpàja topola, tratti rispettivamente da Mistero buffo (1969) e da Il fabulazzo osceno (1982), non solo in Italia ma anche all’estero. L’attore si cimenta in una prova non facile, per la quale è necessario tanto studio e allenamento. Il risultato è originale e coinvolgente tanto da far dimenticare nell’interpretazione il suo stesso ideatore. L’accento comico si sposta da una battuta all’altra in un ritmo serrato dalla precisione di un metronomo. Tutto è costruito sulla forza della parola e del gesto. Come nelle rappresentazioni di Fo non c’è utilizzo di altri inutili tecnicismi. Anche le luci sono ferme e non ci sono scene. Il corpo dell’attore – alle prese con un mal di schiena vero che è pretesto all’improvvisazione di ulteriori lazzi – tradisce tutto ciò che c’è da vedere sulla scena, anche i numerosi personaggi di cui è interprete contemporaneamente. Tutto quello che è evocato sulla scena si dipinge nella mente dello spettatore, a cui si chiede solo di immaginare. La lingua è il grammelot – un pastiche di dialetto lombardo e suoni onomatopeici – che ha potenza di muovere la fantasia alla completa comprensione.
Ne Il primo miracolo di Gesù bambino il racconto si concentra sull’infanzia del dio fatto uomo. Si racconta la sua umanità, il rapporto con i genitori, con la madre in particolare, senza però profanare quanto di sacro è nel mistero. Nonostante siano passati cinquant’anni dal primo debutto del testo si ride ancora a crepapelle e ne si ammira l’attualità, perfettamente declinata nei problemi sociali di oggi. Gesù è un bambino bullizzato dai suoi coetanei e allontanato dai giochi perché forestiero, palestinese. Chissà quanti bambini oggi vivono la stessa situazione per colpa di una politica allarmista. Ma la capacità del bambino divino di trasformare un pugno di fango in un uccello che vola davvero lo fa eleggere re dei giochi e castigatore del figlio del padrone, prepotente e guastafeste.
La parpàja topola è invece la storia di Giavan Pietro, un contadino sempliciotto – visto come un possibile antenato di Forrest Gump – che alla morte del padrone eredita una ricchezza immensa. Ambito dalle donne del paese ha però difficoltà ad avvicinarsi a loro per via della paura della misteriosa topola che con un morso potrebbe mozzargli le dita. Sarà la visione di Alessia a fargli cambiare idea. Inutile dire che anche qui comicità e divertimento si raggiungono senza cadere mai nella volgarità e nel troppo spinto.
Uno spettacolo riuscito che va goduto dalla prima all’ultima battuta.
data di pubblicazione:13/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 4, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 1/13 ottobre 2019)
Commedia dalle tinte scure. Nella penombra di un appartamento una coppia di coniugi gioca a strapparsi dal viso una maschera che il tempo ha incollato al volto. La soluzione al difficile caso è accettare di confessare la verità.
Veste rinnovata per il teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma che accoglie il pubblico alla prima di stagione con poltrone restaurate di nuovo velluto, sempre di un rosso acceso, merito dell’iniziativa prenditi cura del teatro Quirino, attraverso cui ogni spettatore può offrire il suo contributo e vedere il proprio nome impresso su una targa apposta sulle poltrone. Per un teatro poco sostenuto dagli enti Istituzionali questa risulta essere un’iniziativa importante.
A debuttare sul palco una commedia a due voci scritta da uno degli autori più prolifici e attivi del nostro tempo, il francese Éric-Emmanuel Schmitt. Piccoli crimini coniugali – di cui esiste una versione cinematografica recensita da noi in un articolo di Antonio Iraci – mette in scena la fatica di una coppia, ormai avanti con l’età e con i problemi, che vacilla a ritrovare un equilibrio stabile ai suoi tormenti.
Anna Bonaiuto restituisce in scena una moglie sì devota, ma non sottomessa, fragile ma non rassegnata, e mai soprattutto tragica. Michele Placido è Marco, uno scrittore di romanzi polizieschi che ha una teoria per tutto, specialmente per non cambiare le cose.
Il racconto si snoda lungo un tortuoso e serrato dialogo tra i due protagonisti, che vivono insieme ormai da 20 anni. Marco torna a casa dopo un ricovero di quindici giorni in ospedale dovuto a una ferita alla testa che si è procurato in un misterioso incidente casalingo. Lisa lo accompagna. L’incidente ha causato in Marco una curiosa amnesia: ricorda perfettamente le cose del passato, ma per niente quelle accadute di recente, tantomeno come abbia potuto picchiare la testa. Il fatto rimane un pretesto per far aprire tra i due un confronto sulla loro vita coniugale, fatta di difetti e colpe che non risparmiano di rinfacciarsi. Il dubbio si insinua nei loro ragionamenti e serve da strumento per smascherare le loro bugie.
Il testo drammaturgico è ricco e complesso, a tratti eccessivamente filosofico che si fa fatica a seguire, ma compatto nel suo svolgersi – unità di tempo e luogo sono rispettate – e condito di imprevisti e colpi di scena che danno movimento alla vicenda. Marito e moglie si scambiano di volta in volta il ruolo di vittima e di carnefice, in un gioco quasi pirandelliano di punti di vista, che fanno cambiare continuamente opinione sulla storia. Chi sarà il primo dei due a voler uccidere l’altro?
data di pubblicazione:04/10/2019
Il nostro voto:
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