da Paolo Talone | Gen 20, 2020
(Teatro Brancaccio – Roma, 15/19 gennaio 2020)
Giorgio Gallione racconta il gioco del calcio e le implicazioni che può avere con il mondo della politica. La dittatura di Jorge Rafael Videla in Argentina e la finale dei mondiali di calcio del 1978 a Buenos Aires. Il coinvolgente ritmo del tango a fare da colonna sonora al massacro dei desaparecidos. Calcio come magia e favola, ma anche strumento per guadagnare il favore del popolo.
Non sembra far riferimento in maniera esplicita a nessuno dei fatti che animano la scena politica attuale, sia nazionale che internazionale, eppure Tango del calcio di rigore evoca nelle immagini scenari possibili non così distanti, nella sostanza, dagli effetti che l’agitazione populista potrebbe risvegliare nella nostra epoca. Ma vaticinare o fare confronti con il nostro oggi non è lo scopo di questo spettacolo. Il testo è un reportage piuttosto dettagliato, a tratti mitizzato, di una fase storica abbastanza recente e difficile che vede protagonista la dittatura militare che investì l’America Latina, in particolare l’Argentina, negli anni Settanta del secolo scorso e la relazione di questa con il gioco del calcio, occasione di svago per il popolo ma anche campo di battaglia e affermazione di potere. È necessario allora che il linguaggio usato dall’autore debba mantenersi a metà tra quello giornalistico e la telecronaca calcistica, scelta che però rimane poco teatrale a nostro avviso. Al personaggio di Neri Marcorè è affidata la parte narrativa: l’uomo adulto che vediamo era poco più che un bambino quando l’Argentina vinse il titolo mondiale. La voce baritonale che racconta i fatti e il tono malinconico, che usa anche nel canto, ci danno la misura del dramma. Invece, Ugo Dighero fa le parti di commedia. È il leggendario Cassidy, l’arbitro chiamato ad arbitrare una grottesca partita tra tedeschi nazisti e indiani mapuches con una pistola in mano per gestire gli umori del campo; è il gaucho messicano che canta tra cactus animati; è ancora il portiere Gato Diaz nella storia del rigore più lungo del mondo, nella disputa tra l’imbattuto Deportivo Belgrano e l’Estrella Polar al club di Cipolletti. E così via a ricoprire ruoli che danno movimento a uno spettacolo altrimenti rallentato nel linguaggio d’inchiesta. Brava anche Rosanna Naddeo, qui a ricoprire i ruoli femminili: commovente e tragica la sua interpretazione del brano Gracias a la vida, in ricordo delle madri di Plaza de Mayo a cui il regime dittatoriale ha rapito, torturato e ucciso i propri figli. Tre grandi interpreti, aiutati sul palco dai giovani attori Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, che affrontano uno spettacolo per nulla facile, ricco di racconti e di eventi che ogni tanto è bene ricordare. Un grande affresco che regala tante e contrastanti emozioni a chi vi assiste.
data di pubblicazione:20/01/2020
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Gen 14, 2020
(Teatro Vascello – Roma, 10/19 gennaio 2020)
La tragicommedia più famosa del bardo inglese, che riassume in sé le tematiche più care a Shakespeare – dal tradimento ai danni di un governante all’amore tra due giovani, fino all’uso della magia e alla battaglia tra la natura selvaggia e la forza della cultura – vista secondo un’ottica intima e riflessiva, nell’originale ambientazione “al chiuso” di Roberto Andò.
L’isola di Prospero è un panorama dalla luce crepuscolare che si nota appena da dietro una finestra. Il resto è un interno borghese di una casa che si affaccia sul mare, a metà fra un ospedale per ricovero psichiatrico, con tanto di letti e pazzi, e uno studio riempito di libri di svariato genere e grandezza. Di libri ce ne sono in ogni angolo, quelli che il nobile e anziano Gonzalo (Gianni Salvo) consegnò al suo signore il giorno che fu costretto a lasciare il ducato di Milano con la figlia Miranda (Giulia Andò), ancora bambina, esiliato dopo che il fratello, per perfido disegno, ne usurpò il potere. Ma è l’acqua l’elemento dominante nella messa in scena di Andò/Fusini. Il pavimento della stanza, che arriva a brandire la prima fila della platea, ne è interamente sommerso. C’è acqua dappertutto: piove dall’alto appena si alza il sipario, è a terra a formare una pozza gigante, bagna i costumi degli attori, si riflette sui muri che circondano la scena in un riverbero di luce che rende l’atmosfera fluida e inconsistente, come quella della materia di cui sono costruiti i sogni appunto. È lì a delimitare lo spazio che corre tra la terra ferma e l’isola, come a dire la distanza che esiste tra realtà e immaginazione. Acqua di tempesta inarrestabile, che si prolunga nel bagliore e nel suono dei tuoni. Prospero, nella magistrale e intima interpretazione di Renato Carpentieri, è il padrone incontrastato di questo regno, che egli stesso domina con la potente arte della magia e della scienza. Per questo mal sopporta l’insurrezione meschina del difforme schiavo Calibano (Vincenzo Pirrotta) che, complici i due naufraghi marinai Stefano e Trinculo (rispettivamente Francesco Villano e Paride Benassi), tenta di accoppare il mago per riprendere il dominio sull’isola. Compagnia di guitti ubriaconi a cui è dato il compito di portare la risata, attraverso l’uso del dialetto dall’effetto grottesco. Ma nell’isola insieme alla tempesta, ordita da Prospero e orchestrata dallo spiritello Ariel – qui nei panni di un maggiordomo in livrea, interpretato da uno straordinario Filippo Luna – approdano anche Antonio, il perfido usurpatore, Gonzalo, il nobile servitore di cui prima, e Alonso, re di Napoli, insieme a suo figlio Ferdinando (Paolo Briguglia), della cui persona si innamorerà a prima vista Miranda. La vicenda va avanti tra fantasmi che appaiono e visioni che prendono forma nello spazio buio del fondale, palcoscenico sul palcoscenico, arsenale delle apparizioni di pirandelliana memoria. È così che tra piccole vendette e perdono concesso si arriva finalmente alla soluzione del dramma: Prospero può smettere quindi i panni del mago e rivestire quelli del duca, accendersi una sigaretta e contemplare alla penombra di un lume, con appagata soddisfazione, il bene ricostituito delle cose un tempo perdute.
data di pubblicazione:14/01/2020
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Gen 10, 2020
(Teatro Quirino – Roma, 7/19 gennaio 2020)
Due straordinarie attrici, Giulia Lazzarini e Anna Maria Guarnieri, che per talento – anche comico – e decennale esperienza sulle scene sono le protagoniste assolute della brillante commedia di Kesserling, resa celebre da Frank Capra.
Nel cocktail a base di rosolio – fatto rigorosamente in casa da mani amorevoli – Abby e Marta, le due anziane sorelle di casa Brewster, aggiungono piccole dosi di cianuro, stricnina e ovviamente arsenico. La bevanda micidiale viene servita agli ospiti a cui affittano le camere di casa loro, generalmente signori senza famiglia, che vengono così aiutati a morire con un sorriso sulle labbra. Un gesto di immensa cortesia e generosità secondo la pazza visione delle due donne. Lo confessano senza alcun problema al loro caro nipote Mortimer, appena giunto per comunicare alle zie la bella notizia dell’imminente matrimonio con Giulia, figlia del Reverendo Stone. In barba alla moda dei nostri giorni che condanna anche la più banale intenzione di fare spoiler, sappiamo fin da subito che a uccidere il povero Clinton Brown – il cui cadavere giace nella cassapanca in attesa di sepoltura – sono state proprio le candide, innocenti e dolcissime sorelle Abby e Marta Brewster. La vicenda si spoglia così della tinta del giallo, che svela solo all’ultima pagina il nome dell’assassino, per vestire i panni di un’esilarante commedia. Rimane però il contorto intrico dei fatti, tipico del genere, che crea una serie di divertenti equivoci di cui unico testimone è il pubblico. Gli oggetti di scena servono al racconto e sono parte fondamentale del gioco drammatico di questo tipo di commedia: la scarpa del morto, la borsa degli attrezzi del dottor Einstein, la tromba e i soldatini di Teddy, la bottiglia di rosolio. Personaggi tra i personaggi, potremmo dire, in una scena – l’interno di casa Brewster con affaccio romantico sul cimitero – ricostruita in stile neogotico, in perfetta armonia con le atmosfere del testo. Una specie di casa degli orrori dove mistero e tensione sono parte integrante del divertimento. La macchina è complessa e difficile da seguire (due ore e quindici minuti di spettacolo senza intervallo), ma la precisione della regia e l’eccezionale bravura di Giulia Lazzarini (Abby) e Anna Maria Guarnieri (Marta) mantengono viva l’attenzione sui fatti, che si sbrogliano con gradevole fluidità, come se fossimo davanti alla proiezione di un film. Merito certamente anche della professionalità degli altri attori della compagnia, tra cui spicca per particolare espressività e carattere Paolo Romano nel ruolo di Mortimer.
data di pubblicazione:10/01/2020
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Dic 27, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 23 dicembre 2019/6 gennaio 2020)
Teo è una donna a cui piace vivere stando lontana dagli uomini. Il desiderio di diventare mamma però è un’altra cosa e per fortuna viene a soccorrerla la possibilità della fecondazione artificiale.
Nancy Brilli è una simpatica Teodolinda, per gli amici Teo. Vive sola e senza alcun tipo di relazione, specialmente con gli uomini. È una pittrice di gran talento e il suo autoritratto appeso alla parete ci dice che non c’è altro centro nella sua vita che sé stessa. Gianni (Igi Meggiorin), il suo vicino di appartamento, timido e impacciato con le donne, lavora presso un laboratorio dove si pratica l’inseminazione artificiale. L’occasione fa la donna, in questo caso, ladra e approfittando di una visita in laboratorio Teo ruba la provetta numero 668 grazie alla quale riesce a rimanere incinta. Il desiderio però di conoscere l’identità del padre la spinge, attraverso un inganno, a estorcere dalla bocca dell’ingenuo Gianni il nome del donatore, che scopriremo essere Osvaldo Menicucci (Daniele Antonini), un tronfio, baldanzoso e donnaiolo ragazzotto romano, che vive ancora con la madre siciliana Carmela (Fioretta Mari). L’interesse di Teo per Osvaldo non è affatto finalizzato alla conquista sentimentale, bensì a un’analisi attenta per accertarsi del buono stato di salute dell’uomo e prefigurarsi come potrà essere caratterialmente il bambino, o la bambina, che nascerà. Tuttavia, le sue certezze – anche se per poco – verranno seriamente minacciate. Le scene comiche si moltiplicano e l’intreccio si complica, ma alla fine – colpo di scena – tutto prenderà una piega inaspettata: ogni attore che ha preso parte nella storia sarà chiamato, come in una grande famiglia allargata, a prendersi cura della crescita libera e sana del bambino.
Per chi ha avuto modo di conoscere la versione degli anni ‘80, dal vivo o grazie a una registrazione, con Ombretta Colli nei panni della protagonista, noterà che il nuovo adattamento ha delle differenze rispetto all’originale, soprattutto nelle musiche, nell’assenza di alcune scene, e nell’aggiunta del personaggio di Markus, con la kappa (Nicola D’Ortona), alter ego maschile di Samantha, con l’acca (Giulia Gallone), modelli entrambi per le storie a fumetto di Teo. La commedia musicale, giudicata assai moderna già trent’anni fa quando usciva la prima volta, dimostra di non aver perso spessore e interesse. Merito certamente della grande regista Lina Wertmüller, premio Oscar alla carriera, che di relazioni tra uomini e donne e di temi sociali è maestra. Se a renderla attuale sono di sicuro i dispositivi elettronici usati dai personaggi per comunicare tra loro (telefonini e account social) o per lavorare (Gianni usa un octapad per comporre la sua musica) non di meno svolgono questa funzione alcuni accenni a tematiche attuali di interesse sociale. Uno fra tutti la denuncia dell’assenza in Italia di una legge per fecondazione assistita a favore delle coppie omosessuali, che la regista risolve senza troppe parole, nel fugace attimo di una battuta. Ma a rendere attuale la pièce è senz’altro una caratteristica insita proprio nella stessa: l’assenza di moralismo. Nelle battute, così come nei personaggi, non è mai espresso un giudizio o peggio ancora un pregiudizio sulle cose o sulle scelte: tutto è trattato con estrema leggerezza e rispetto e risolto con grande e raffinata ironia. Ecco perché è una commedia da riconsiderare e senza alcun dubbio andare a vedere.
data di pubblicazione:27/12/2019
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Dic 23, 2019
(Teatro Belli – Roma, 20/21 dicembre 2019)
Spettacolo di chiusura della rassegna TREND 2019 – nuove frontiere della scena britannica – La psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane, con Mariateresa Pascale. Una sinfonia concertata per voce sola, sulle note dell’ultimo Mahler e P. J. Harvey.
Qual è l’essenza ultima del teatro? Cosa si cela dietro il gesto della creazione artistica? Fino a dove può spingersi un autore? Cos’è lo spazio scenico? Queste e tante altre domande nascono guardando questo spettacolo, reso con una regia e un’interpretazione che spingono al ragionamento e al ricordo del senso del sacro nel teatro, così come può essere stato pensato in origine dai greci. Sarah Kane consegna nelle mani della sua agente letteraria il testo, 4.48 Psychosis, poco prima di morire. A un anno di distanza dal suicidio, avvenuto il 20 febbraio del 1999, viene rappresentato la prima volta. TREND ce lo propone come spettacolo di chiusura della ricca e interessante rassegna di quest’anno. È un testamento, certo, ma anche un inno alla bellezza e alla sacralità del gesto artistico, che coinvolge tutti: autore, attore, regista fino allo spettatore seduto in sala. È un’immersione nell’universo della creazione, che prende forma soprattutto dall’intensità e dall’assurdità del dolore, in questo caso dalla depressione dell’autrice. Consegnando lo scritto alla sua agente Sarah Kane afferma infatti “scriverlo mi ha uccisa.”
La violenza incredibile, sorda che esplode sul palco comporta rispetto e ammirazione. Lo spazio scenico appare per questo inviolabile e inaccessibile. È comprensibile quindi che i dialoghi con lo psichiatra si svolgano a distanza, con Enrico Frattaroli nei panni dello stesso che recita dalla balconata del teatro. Nessuno tranne lei – la voce solitaria della poesia – può salire sulle tavole del palcoscenico, nemmeno l’attrice che a fine recita prende gli applausi dalla platea anziché dal proscenio. Si sta come in contemplazione del sublime dell’angoscia della mente, come davanti alla visione di un insetto che si dimena morente incollato a una trappola di gelatina appiccicosa. L’esecuzione di Mariateresa Pascale – che preferisce un registro da contralto – non tradisce emozioni o inutili sentimentalismi perché è così che parla una mente malata, inserendosi a perfezione nel triangolo espressivo di voce, immagini e musica che la regia orchestra.
Termina così la XVIII edizione di TREND, che ha saputo proporre quest’anno testi di grande spessore, innovazione e interesse. Felici di aver partecipato insieme a un pubblico attento e variegato – soprattutto per l’età – ci diamo appuntamento al prossimo anno.
data di pubblicazione:23/12/2019
Il nostro voto: 
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