VITE DI GINIUS scritto, diretto e interpretato da Max Mazzotta, produzione Libero Teatro

VITE DI GINIUS scritto, diretto e interpretato da Max Mazzotta, produzione Libero Teatro

(Sala Umberto – Roma, 17 gennaio 2022)

Il monologo scritto dall’artista cosentino Max Mazzotta è un laboratorio complesso di immagini, suoni e linguaggi. È il racconto di un’anima condannata a vagare da un’esistenza all’altra finché un gesto compiuto per amore non le restituisce la pace.

 

Per seguire il monologo di Max Mazzotta bisognerebbe stare in una condizione temporanea di alterazione. Una mente vigile e razionale fa fatica a seguire il turbinio delle immagini, dei suoni e dei molteplici linguaggi usati dall’attore. Il dinamismo visivo e sonoro contrasta con la staticità dell’attore, fermo in un punto del palco, come sospeso in un universo luminoso. La sua statura vocale cavalca le più svariate espressioni linguistiche, dalla prosa dialettale ai versi poetici fino all’invenzione di una nuova lingua. L’impatto con i primi momenti dello spettacolo è violento. È come se improvvisamente la materia attorno esplodesse in mille pezzi, riportando a un grado zero lo spazio e il tempo in cui siamo immersi. Il contributo alla creazione di questo stato allucinatorio è anche di Serafino Sprovieri alla consolle luci/video e di Vladimir Costabile a quella audio.

Vite di Ginius racconta il viaggio metafisico di un’anima, condannata a reincarnarsi in esistenze vigliacche e meschine, fino a che un gesto ultimo, eroico e coraggioso, non la redime dagli errori commessi. L’anima mantiene la sua coscienza ma non il suo corpo, così è costretta a ripercorrere nel ricordo chi è stata nell’arco di mille lunghi anni.

Nella prima vita era un’anziana signora calabrese che si ritrova spettatrice inerme di un tragico incidente da lei in qualche modo causato. Negando a un bambino un po’ di quell’acqua con la quale aveva riempito la sua brocca, questo si sporge e cade nel pozzo dove lei aveva appena pescato. La memoria fa poi un salto di qualche decennio e ci ritroviamo nel negozio di calzature di Nanni, nella Roma degli anni ’60. Anche questa volta il passaggio dell’anima sulla terra si risolve con un atto di vigliaccheria. Nanni infatti rifiuta di difendere una ragazza innamorata di lui, uccisa dalle percosse a cui la sottoponeva il fratello. Il tema della violenza tra fratelli ritorna nella storia successiva, svolta ai giorni nostri. Gianni è geloso di Nino, soprattutto perché bisognoso di attenzioni. L’invidia lo consuma e, in seguito a un improvviso attacco di rabbia, lo costringe a compiere l’atto fratricida.

L’anima infine si incarna nel corpo di un militare assoldato dal più crudele e rigido dei governi alla fine del terzo millennio, una sorta di cervello informatico che comanda di eliminare qualsiasi tipo di sovversione. La morte doveva colpire Nina, ma lei riconosce nello sguardo del suo carnefice l’uomo che nelle vite precedenti aveva rifiutato di aiutarla. Ginius si commuove e la salva, facendole da scudo con il suo corpo quando la macchina spara il suo colpo mortale. Questo atto di altruismo lo libera e finalmente può ricongiungersi con la materia che forma l’universo e continuare il suo viaggio infinito nella pace e nel riposo. Il limbo in cui ci aveva trascinato Max Mazzotta all’inizio trova quindi la sua spiegazione. Tutto è compreso tra ciò che è immanente, la nostra vita sulla terra, e ciò che ci trascende, una volontà giudicante che aspetta di vederci compiere un gesto eroico e di giustizia.

data di pubblicazione:24/01/2022


Il nostro voto:

PIAZZA DEGLI EROI di Thomas Bernhard, regia di Roberto Andò – traduzione di Roberto Menin, con Renato Carpentieri

PIAZZA DEGLI EROI di Thomas Bernhard, regia di Roberto Andò – traduzione di Roberto Menin, con Renato Carpentieri

(Teatro Argentina – Roma, 12/23 gennaio 2022)

A un anno dal debutto televisivo, Piazza degli eroi (Heldenplatz) di Thomas Bernhard arriva sulle tavole del Teatro Argentina di Roma, nella visione metaforica del regista e direttore del Teatro di Napoli, Roberto Andò. Un dramma che denuncia apertamente il manifestarsi di nuovo in Europa di atteggiamenti antisemiti e fascisti, trent’anni fa come oggi.

 

“L’antisemitismo è tornato, è una nuvola nera sull’Europa.” Così tuonava un anno fa la scrittrice e poetessa Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di concentramento, intervistata al Tg1 poco prima del 27 gennaio, Giorno della Memoria. Anche Thomas Bernhard lanciò lo stesso allarme nel 1988, pochi mesi prima di morire, scrivendo questo testo, Piazza degli Eroi, che Roberto Andò mette in scena oggi – per la prima volta in Italia – con la stessa lucida convinzione dell’autore. La storia non è maestra di vita. Semmai è il contenitore di un orrore mai del tutto cancellato – quello scatenato da una umanità impazzita durante il secondo conflitto mondiale – che torna a farsi sentire con uguale crudele intensità nonostante il tempo sia andato avanti. Il riproporsi dell’odio antisemita che animò la folla di Piazza degli Eroi a Vienna nel 1938, quando l’Austria venne annessa al Terzo Reich da Hitler, è lo stesso che portò Bernhard a scrivere quest’opera, ed è la causa che dà voce oggi ai movimenti reazionari e populisti di tutta Europa e non solo. Per questo il professor Josef Schuster ha scelto di suicidarsi, gettandosi da una delle finestre del suo appartamento che si affaccia proprio sulla piazza incriminata. Sarebbe dovuto tornare a Oxford, lì dove aveva già vissuto e insegnato, ma il gesto che ha compiuto cambia i piani della famiglia Schuster, costretta a rimanere in Austria. Si va in campagna a Neuhaus, lì dove, con la medesima intenzione di fuggire da un mondo incattivito, si era rifugiato Robert, il fratello del defunto Josef. È la signora Zittel, la governante di casa Schuster, a informarci di tutto nel primo dei tre quadri in cui è suddivisa l’opera. Attraverso il suo personaggio interpretato da Imma Villa, che racconta i fatti della famiglia senza essere per questo pettegola o civettuola, ma commiserante nei confronti del professore, veniamo a sapere molte cose del grande assente. Il professor Josef ingombra con il suo ricordo la vita di tutti, riempie i pensieri e anima i dialoghi degli altri personaggi. La scena è invasa dagli oggetti che gli sono appartenuti. Scarpe, camicie, abiti e documenti. Tra essi si aggira la figura di un pianista (Vincenzo Pasquariello), un personaggio fuori dell’elenco delle comparse appuntato dall’autore, ma usato qui dal regista come simbolo di un candore perduto. Invisibile agli altri protagonisti sulla scena, trova rifugio nella lettura e nella musica, unica arma di difesa del professore quando era ancora in vita. Anche Robert, il filosofo ritirato dal mondo, è tormentato dal ricordo del fratello. Renato Carpentieri interpreta il personaggio conferendogli un’apparente rassegnazione davanti alla stupidità umana che ripete i suoi crimini, ma che esplode con voce tonante di rabbia quando si trova a denunciare l’ottusità e la bruttezza di un mondo animato dalla megalomania sovranista, alimentata da uno pseudo socialismo corrotto dall’industria e dalla chiesa. La traduzione di Roberto Menin sottolinea in particolare l’aspetto politico del messaggio di denuncia portato avanti dal professor Robert Schuster. La protesta e la rivoluzione spettano ai giovani, alle due figlie di Josef, Anna e Olga, condannate a camminare in un bosco di alberi che non hanno più radici e dai quali cadono a pioggia solo foglie morte. L’Europa ha dimenticato il suo passato violento, per questo si ripete nell’errore e nella stupidità. L’incubo non è finito, è ancora presente. Le voci che ottenebrano la mente della vedova Schuster (Betti Pedrazzi) ne sono la prova tangibile. Lo strepito che veniva su dalla piazza nel 1938 agita ancora la sua mente e i suoi ricordi. La tragedia non è ancora finita. Ecco perché rappresentare Heldenplatz di Bernhard è necessario, e il contesto politico e sociale che stiamo vivendo presenta – come dice il regista – il “momento giusto e opportuno.” È necessario un importante sforzo di concentrazione per seguire questo spettacolo fino alla fine, ma il messaggio che trasmette, lucido e incontrovertibile, lascia provati e edificati allo stesso tempo. Il pericolo di una violenta virata a destra con tutto il suo bagaglio di disvalori razzisti e suprematisti esiste, non possiamo ignorare di essere stati avvisati.

data di pubblicazione:17/01/2022


Il nostro voto:

PLAY HOUSE di Martin Crimp, diretto e interpretato da Francesco Montanari con la collaborazione di Davide Sacco, traduzione Enrico Luttmann, produzione Narni Città Teatro

PLAY HOUSE di Martin Crimp, diretto e interpretato da Francesco Montanari con la collaborazione di Davide Sacco, traduzione Enrico Luttmann, produzione Narni Città Teatro

(Teatro Belli – Roma, 16/19 dicembre 2021)

Ultimo spettacolo per l’edizione numero venti di Trend. La rassegna di spettacoli sulle nuove frontiere della scena britannica a cura di Rodolfo Di Giammarco si chiude con un testo complesso, ma stupendamente rappresentativo di una condizione comune: l’identità di una coppia che si costruisce e si distrugge nella quotidianità.

 

In questa versione di Play house la giovane coppia è interpretata in entrambi i ruoli da Francesco Montanari. I due amanti non hanno neanche un nome. Sono due entità che, così rappresentate, sembrano uscite da un ricordo che il tempo sembra riportare a galla. Vivono in un modesto appartamento. La loro vicina di casa pensa che abbiano una vita bellissima. Lui è saccente, pretende di sapere tutto, mentre lei desidera avere un figlio. Bisticciano, fanno pace, si amano, ma dubitano l’uno dell’altra. Giocano a fare marito e moglie – Play house in inglese – ma in questo gioco non ci sono vincitori né vinti, come canticchia tra sé Montanari sulle note di Arisa.

“Cosa avete capito?”, chiede al pubblico alla fine della sua performance l’attore. Cosa avremmo dovuto capire, viene da rispondere, o quale messaggio avremmo dovuto recepire rispetto al testo Martin Crimp, ma anche alla regia di Francesco Montanari? La prima impressione è quella di essersi trovati davanti allo sfogo delirante di una persona colpita da un forte dolore. L’energia emanata dal palco dall’unico interprete del dialogo in forma di monologo deflagra dalle battute iniziali e non si arresta mai fino alla fine. Come un respiro profondo le luci da fioche diventano intense per poi spegnersi al termine della fatica. Francesco Montanari è l’impalcatura stessa dello spettacolo. È suono, luce, scenografia. Le sue doti vocali e fisiche sono impressionanti. Riempie la scena al punto tale che l’unico elemento di arredo, una sedia posta al centro del palco, risulta ingombrante e superflua. Il percorso che segue Montanari è tracciato dal ricordo. Lo sforzo nel rievocare le emozioni è catartico, terapeutico. La memoria del vissuto della coppia viene segnata con un gessetto bianco sulla nudità del muro che fa da fondale al palcoscenico del teatro Belli. Viene fuori una mind map di appunti e memorie da osservare e riordinare. Ma il labirinto di Crimp è senza uscita, è una matassa aggrovigliata di pensieri ed emozioni in cui il bandolo è fuso con l’altra estremità del filo. È una psicosi dalla quale non si esce se non manifestandola, se non compiendo il solo atto di raccontarla. “Cosa avete capito?” è una domanda che non ha una risposta immediata. Forse il teatro, questo teatro, non è qualcosa da comprendere. Piuttosto è qualcosa da vivere. Un’esperienza che, in quanto teatro appunto, è da fare insieme, attore e spettatore. A colpire può essere un dettaglio, una sensazione, la risonanza con un’immagine che portiamo dentro. Ma non si può uscire dalla sala senza aver provato qualcosa, senza aver fatto i conti con un pensiero che ci abita.

data di pubblicazione:21/12/2021


Il nostro voto:

SNOWFLAKE di Mike Bartlett, regia di Stefano Patti, con Marco Quaglia, Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida, produzione 369gradi

SNOWFLAKE di Mike Bartlett, regia di Stefano Patti, con Marco Quaglia, Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida, produzione 369gradi

(Teatro Belli – Roma, 11/15 dicembre 2021)

Racconto natalizio che ha per protagonista un padre in attesa del ritorno della figlia che non vede da tre anni. Una riflessione sullo scontro generazionale e sulla possibilità di superare le incomprensioni. Penultimo spettacolo in cartellone per Trend, la rassegna di drammaturgia contemporanea inglese curata da Rodolfo Di Gianmarco al teatro Belli.

 

Andy è impegnato nell’allestire gli addobbi natalizi per rendere il salone parrocchiale che ha preso in affitto il più accogliente possibile. Con perfezione quasi maniacale si accerta che tutto sia al suo posto. La paura di fare qualcosa di sbagliato lo tormenta. Sta aspettando il ritorno di Maya, la sua unica figlia che manca da tre anni. È andata via dopo un litigio lasciando solo un biglietto di addio. Natale è quando la famiglia si riunisce, ecco perché lo striscione che ha messo bene in vista recita welcome home, ben tornata a casa. Qualcuno ha avvisato Andy che Maya è in città. Perché abbia deciso di andarsene non è riuscito mai a spiegarselo. È ansioso, nervoso, sicuramente c’entra il fatto che la moglie morì di tumore quando Maya era solo un’adolescente. Il monologo di Marco Quaglia occupa tutta la prima parte della storia. Il suo modo di raccontare le difficoltà della vita con sarcasmo, autoironia e volto impassibile stempera il dramma e rende il personaggio simpatico al pubblico. È l’attore perfetto per incarnare lo humor inglese.

Improvvisamente entra Natalie, ospite inattesa in questo momento di affanno e agitazione. Andy spera di mandarla via presto, il tempo di un tè, ma la ragazza è curiosa, insistente e inizia a tempestarlo di domande. Nell’interpretazione di Lucrezia Forni il personaggio appare forte, sicuro di sé, deciso a studiare il carattere di Andy per capirne la personalità. Ma lui non ha voglia di confrontarsi, non ha tempo da dedicare a Natalie, perde la pazienza e va su tutte le furie. Proprio in quell’istante entra Maya, la dolce e fragile Adalgisa Manfrida. Andy prova un terribile imbarazzo. Esattamente questo suo modo di fare aveva allontanato la figlia anni prima. Lei è una ragazza troppo sensibile per poter accettare il confronto con un genitore che la frena, che la scoraggia, che la pungola con battutine e disapprovazione. Anche lui è fin troppo suscettibile ai rimproveri della figlia. Sono entrambi due fiocchi di neve, due Snowflake, parola che nello slang inglese indica una persona che si offende facilmente se contrastata con posizioni e opinioni diverse dalle sue. D’altronde un fiocco di neve non cade mai da solo.

Tornare per affrontare e superare il problema con il padre è un dovere per Maya. Non può più permettersi di scappare di fronte alle difficoltà che la vita le presenta. A rimetterci sono gli affetti che ha accanto, i suoi progetti, i suoi sogni. Questo è il momento giusto per affrontare il mostro che la spaventa.

Snowflake di Bartlett è un testo commovente, che insegna il valore dell’ascolto e l’importanza di saper spendere tempo per le persone che amiamo. Ottima e ben misurata la recitazione degli attori, merito anche della regia di Stefano Patti che ha saputo amalgamare i giovani talenti di Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida con quello ormai maturo di Marco Magli. Anche sul palco è fondamentale saper ascoltare chi ci lavora affianco.

data di pubblicazione:15/12/2021


Il nostro voto:

F U O R I di e con Nella Tirante, aiuto regia Gaia Benassi

F U O R I di e con Nella Tirante, aiuto regia Gaia Benassi

(Teatro Tordinona – Roma, 8/12 dicembre 2021)

Vincitore del Premio Tragos per la sezione teatro donna e secondo classificato come monologo al Premio Sipario 2021, F U O R I di Nella Tirante è ora in scena al teatro Tordinona, a pochi passi da piazza Navona. Un testo coraggioso, intimo ma anche pieno di ironia, scritto e interpretato da un’artista di eccellente bravura.

  

F U O R I è un testo pandemico. Non solo perché parla di pandemia – che in realtà funziona più come pretesto narrativo – ma perché affronta un problema che riguarda tutti: il confronto con il silenzio e i mostri che questo genera nella mente. Parte da qui il racconto di Nella Tirante e del suo personaggio, una donna confinata in casa a causa del lockdown. La musica smette quando abbassa le cuffie, è ancora in vestaglia da casa. Ci rimarrà a lungo perché alla prima pandemia ne succederanno altre. Sarà costretta a rimanere in casa, nella sua piccola stanza che è un pozzo di ricordi, ma anche un arsenale di attrezzi e costumi del suo lavoro. È un’artista, un’attrice e come tanti suoi colleghi è costretta a fermarsi. Che il teatro dovesse subire un brusco arresto con la pandemia nessuno se lo sarebbe aspettato. Nessuno era preparato. Né tantomeno lei e i personaggi rimasti senza interprete. Vagano le Giuliette, i Re Lear, i Mercuzio e gli Amleti in cerca di un Cotrone gentile che accolga il vagabondo carro di Tespi. Ma per ora solo silenzio. Un silenzio tuttavia utile, poiché in esso si nasconde la vita, perché da occasione per riflettere e prendere conoscenza e consapevolezza di sé. Succede a lei, succede a tutti. Succede a teatro, dove si sta in silenzio ad ascoltare e a pensare, tutti insieme, artisti e spettatori. Nel tempo che si sta qui seduti si perde il calcolo delle ore e dei giorni e il passato, con i suoi ricordi, riemerge e si fonda con un presente dilatato all’infinito, che scavalca perfino il limite imposto dalla morte.

F U O R I. È scritto proprio così, lettere cubitali spaziate tra un segno e l’altro. Il grido lanciato da Nella Tirante esprime il bisogno di uscire da una condizione di segregazione, di oppressione, di obbligo. Quella che vive in casa con un principe ranocchio – come chiama lei il suo compagno perennemente distratto dal lavoro – e con una figlia inappetente, annoiata, secchiona con cui è impossibile giocare. Ma anche quella che era costretta a vivere con il padre, un uomo fin troppo severo e prevenuto. È un grido che si genera dal profondo, che esprime rabbia e dolore. È un grido però che prende la forma dell’ironia quando viene lanciato, l’unica arma capace di far superare qualsiasi difficoltà, qualsiasi pandemia.

Nella Tirante è un’attrice luminosa, coraggiosa, creativa. Divora lo spazio che le sta intorno, riempiendolo di poesia e azione. Un’artista completa che da sola vale il numero di un’intera compagnia!

data di pubblicazione:11/12/2021


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