I’M A MINGER/SONO UNA FRANA di Alex Jones, regia di Eleonora D’Urso

I’M A MINGER/SONO UNA FRANA di Alex Jones, regia di Eleonora D’Urso

(Teatro Belli – Roma, 7/8 dicembre 2019)

Esilarante e travolgente, Eleonora D’Urso firma la regia di uno spettacolo divertente e attuale di cui ne è anche l’interprete. Una valanga di parole e situazioni che raccontano uno dei periodi più complicati della vita di una donna: l’adolescenza.

 

 Entriamo nella stanza di Lisa improvvisamente, di colpo. Sembra il camerino di una diva, con specchio e cuscini e una miriade di accessori di arredo tutti rigorosamente rosa e perfettamente in disordine. Chi ha a che fare con gli adolescenti sa per certo quanto sia difficile poter varcare la soglia delle loro camerette, per cui prendiamo questo momento per quello che è: un privilegio. Lisa sembra uscita da un manga, ha i capelli tinti di rosa come le cose che la circondano. Il suo biondo naturale è sinonimo di stupidità, e lei vuole sembrare tutto tranne che stupida. Torna da scuola e con un calcio sfonda la quarta parete per raccontarci il suo mondo. Esagitata e irrequieta mostra subito le sue debolezze e preoccupazioni, prima fra tutte la linea. Come la strega in Biancaneve si guarda allo specchio e si riconosce però come la più brutta tra le sue compagne, per di più ansiosa di compiacerle in ogni cosa per essere da loro accettata e considerata. Attenta a che nulla le sfugga dal controllo, vive in biblico tra la falsa amicizia delle più “fighe” della classe, che non si fanno problema a eliminarla dalla lista delle amiche special di WhatsApp, e la paura di precipitare nel gruppo delle “sfigate”, dimenticando la cosa più importante: l’originalità che sta nella bellezza di essere sé stessa. Messa da parte solo perché è come è – praticamente per la banale motivazione che a qualcuno sta antipatica – viene risucchiata nel vortice della depressione e lì inizia a pensare al suicidio. Bulli e stronze non le danno tregua, ma per fortuna c’è Carlo, un ragazzo affascinante dai capelli rossi e le lentiggini – caratteristiche non esattamente sinonimo di bellezza estetica nell’immaginario adolescenziale – che cattura la sua attenzione e le fa capire che assumere una posizione diversa dagli altri è sempre un bene, anche se ci espone al rischio di diventare facile bersaglio delle critiche della gente invidiosa. Poi ci sono i genitori con i quali recupera un rapporto, fino a ora burrascoso, di confidenza e fiducia che la fa uscire dall’isolamento della sua stanza. E infine le nuove amiche, quelle considerate da tutte le altre serie B, che manifestano per lei sincero affetto e solidarietà.

La simpatica Lisa trova finalmente la strada per riscattarsi, ottimo esempio per tante ragazze che condividono la sua condizione. La ricetta in fondo è facile e la troviamo nella citazione finale di Caparezza: devi fare ciò che ti fa stare bene … e non compiacere chi ti vuole diversa da quella che sei.

data di pubblicazione:10/12/2019


Il nostro voto:

I’M A MINGER/SONO UNA FRANA di Alex Jones, regia di Eleonora D’Urso

FOR ONCE di Tim Price, regia di Marco M. Casazza

(Teatro Belli – Roma, 3/5 dicembre 2019)

Dramma a carattere familiare, For once – per una volta – è la storia di April, Gordon e del loro figlio Sid. Un incidente stradale scuote la routine della loro vita perfettamente equilibrata.

 

 

Immaginate di avere per le mani un bellissimo bicchiere di vetro, dove avete versato magari il vino della buona bottiglia che avete conservato per l’occasione speciale. Mentre già avete assaporato i primi sorsi, il bicchiere vi scivola dalle mani, accidentalmente, e il vetro si frantuma a terra in mille pezzi. Impossibile rimetterlo a posto, non resta che raccogliere le schegge e buttare via tutto. È quello che accade a questa famiglia di una cittadina inglese di provincia. La tranquilla e fin troppo ordinata serenità dell’esistenza dei suoi componenti viene violentemente sconquassata da un incidente in cui perdono la vita i tre migliori amici di Sid (Michele Dirodi), un ragazzo poco più che adolescente, figlio di April (Selvaggia Quattrini) e Gordon (Marco M. Casazza). Quella sera è l’unico a salvarsi miracolosamente, ma perde un occhio sul quale porta ora una benda. Come nel nostro bicchiere l’urto di quella sera genera nella famiglia una frattura. Improvvisamente si ritrovano uno distante anni luce dall’altro, come pianeti di un unico sistema solare, vetri spezzati di un unico bicchiere. Uniti per mantenere una parvenza di relazione civile, ma estremamente lontani nei desideri e nei bisogni. La menzogna diventa per loro un’arma di sopravvivenza. Ma perché mentire? E a chi? A sé stessi, per illudersi di essere comunque felici? O agli altri, per illuderli che tutto va bene lo stesso? Mantenere l’apparenza è la regola da seguire in un paese dove si conoscono tutti.

A turno ognuno confessa al pubblico la propria solitudine e la propria insoddisfazione. Il testo drammaturgico, reso leggero da continue battute ironiche (fondamentali gli interventi del giovanissimo e bravissimo Sid/Dirodi), risulta così una somma infinita di monologhi-sfogo, dove solo noi capiamo la portata del loro più intimo dolore. I tre non si parlano mai; lascia sconcerto la totale assenza di dialogo. Anche scenograficamente ognuno abita il suo spazio: Sid la sua camera, April la cucina e Gordon la sua poltrona. Eppure sono sullo stesso palcoscenico. I racconti che riportano fanno riferimento a cose passate e presenti: il tempo, insieme allo spazio, è anch’esso violentemente frantumato. Sul finale però ecco un inaspettato ricongiungimento, come a dire che in fondo basta un po’ di attenzione all’altro – e meno preoccupazione per il giudizio della società – per ritrovare comunione e serenità.

data di pubblicazione:04/12/2019


Il nostro voto:

THE MATCH BOX di Frank McGuinness, regia di Carlo Emilio Lerici

THE MATCH BOX di Frank McGuinness, regia di Carlo Emilio Lerici

(Teatro Belli – Roma, 28 novembre/1 dicembre 2019)

The match box – la scatola di fiammiferi. Sola su un’isola della Contea di Kerry – Irlanda – una madre racconta il dolore della scomparsa della figlia.

Bruciano uno dietro l’altro i fiammiferi della scatola che Sal tiene in tasca. Come in un rituale ripete all’infinito il gesto di accenderli che appare fin da subito ossessivo, nevrotico. In quella fiamma che divampa e scompare in pochi secondi c’è tutto il suo tormento, il suo inferno nell’odore di zolfo che sale pungente al naso. Non capiamo perché all’inizio, ma sentiamo disagio davanti a questa donna minuta, vestita in modo semplice, comune. C’è qualcosa di terribile che si nasconde dietro questa aria anonima, qualcosa di indicibile. La solitudine che la circonda è sconfortante. Più che sola capiamo che vive isolata. Unico pezzo di arredamento nel buio cottage in cui si trova una sedia. Persino la finestra è spettrale, troppo alta perché ci si possa affacciare per vedere cosa succede fuori, ottima per difendersi dagli occhi indiscreti di chi vorrebbe sbirciare all’interno. Eppure si vedono le nuvole che corrono in cielo e tracciano lo scorrere del tempo. La luce che penetra regala un’atmosfera crepuscolare e silenziosa, quella dell’Irlanda che si affaccia sull’oceano. È da queste zone che proviene la famiglia di Sal, ma al tempo dei fatti vivevano tutti in Inghilterra: lei, i suoi genitori e l’unica figlia di dodici anni, Mary. Un brutto giorno proprio Mary, tornando da scuola, rimane uccisa da un proiettile vagante. C’era stata una sparatoria tra fratelli, probabilmente interessati nel traffico di stupefacenti. In città è quello che si diceva. Da quel momento Sal smette di vivere. Il dolore è fin troppo grande e paralizzante, non riesce neanche a piangere per quanto è scossa. Non riesce a darsi pace; a nulla servono le cure delle amiche e l’appoggio della madre. Fino a che un giorno non è lei stessa a farsi giustizia da sola. In fondo cosa ci vuole? Un fiammifero nel pagliaio, un po’ di zolfo e poi però bisogna tenere la bocca chiusa. Così eccola lì, sola a ricordare, a convivere con il suo dolore. Francesca Bianco, la nostra Sal, interpreta magistralmente questa storia, restituendoci un personaggio autentico, credibile. Con la sua recitazione controllata, mai esagerata, grazie a una regia essenziale e composta, ci tiene incollati alla poltrona per tutto lo spazio del lungo monologo, senza annoiare e soprattutto regalandoci grande emozione e trasporto per questa triste storia.

data di pubblicazione: 29/11/2019


Il nostro voto:

VINCENT VAN GOGH di Stefano Massini, regia di Alessandro Maggi

VINCENT VAN GOGH di Stefano Massini, regia di Alessandro Maggi

(Teatro Vascello – Roma, 26 novembre/1 dicembre 2019)

Alessandro Preziosi veste i panni dell’artista olandese Vincent Van Gogh. Una versione di alta poesia e intensa analisi del periodo di reclusione in manicomio del grande pittore.

Si apre il sipario e il colore bianco della stanza dell’ospedale psichiatrico di Saint Paul de Manson, in cui è rinchiuso Van Gogh, abbaglia e cattura. L’odore assordante del bianco è il sottotitolo dello spettacolo. Il rimando a una dimensione fisica, percettiva, sensoriale è immediato e la tinta bianca delle claustrofobiche pareti contrasta di netto con le rughe di pittura coloratissima e vivace che siamo soliti ricordare nei quadri del pittore olandese. La battaglia è annunciata e il campo di combattimento, un grigio e gelido pavimento inclinato vertiginosamente, è pronto. Il conflitto si svolgerà tra lo smodato desiderio di libertà – sia creativa che esistenziale – dell’artista e il rigido carcere dove è costretto, nel quale è proibito tutto, anche dipingere, perché “l’arte agita, turba, eccita”. L’episodio che scatena l’accusa di pazzia è legato alla relazione artistica con Gauguin, con cui viene a trovarsi in disaccordo fino ad attaccarlo, presumibilmente, con un rasoio (sarà Van Gogh invece a rivolgere la lama contro di sé e a recidersi il lobo dell’orecchio sinistro). Viene quindi ricoverato a Saint Paul per essere curato. Siamo nel 1889 ad Arles in Francia, un anno prima della sua morte, nel periodo di massima espressione del suo genio artistico, sollecitato dai caldi colori e dagli sconfinati paesaggi della Provenza e dai visi della gente del posto. Tutte queste immagini mancano però alla visione dello spettatore, e l’impossibilità del gesto creativo si trasforma in un’intensa evocazione poetica.

La resa drammaturgica di Massini e la penetrante interpretazione di Alessandro Preziosi scavano in questa direzione e trascinano fuori dal personaggio, lacerandolo in sublime maniera, le reali motivazioni del suo dipingere e del suo vivere. Il pittore è il tramite, la porta attraverso la quale la realtà, una tavolozza di violenti colori, entra e si riflette sulla tela bianca. Di bianco abbiamo detto è costruita la scena, mancano i tubetti di vernice per colorarla. Anche la pianta che sboccia dal pavimento ha fiori dai petali bianchi. Manca la possibilità di espressione, di comunicazione. Le continue allucinazioni e le fissazioni della sua mente – non capiamo se la presenza del fratello Theo, venuto a fargli visita da Parigi, sia reale oppure no – peggiorano solo la sua condizione rispetto all’ottuso Dottor Vernon-Lazàre che lo ha in cura. Ci vorrà l’intervento del direttore dell’istituto, il Dottor Peyron, per riscattarlo dalla sua condizione e riabilitarlo a una vita normale. È qui allora che la scena si colora di quel giallo cromo tipico dei suoi dipinti e della sua immaginazione creativa.

data di pubblicazione: 28/11/2019


Il nostro voto:

THE MATCH BOX di Frank McGuinness, regia di Carlo Emilio Lerici

JUDITH di Howard Barker, regia di Massimo Di Michele

(Teatro Belli – Roma, 25/26 novembre 2019)

Giuditta è una donna che per salvare il suo popolo uccide il nemico Oloferne, assetato di morte e di potere. La storia biblica raccontata attraverso lo sguardo interiore e visionario di Howard Barker.

 

 Cade il 25 novembre, forse non a caso, la prima di Judith, in perfetta coincidenza con la giornata internazionale dedicata all’eliminazione della violenza contro le donne. La storia è conosciuta: nella notte che precede la grande battaglia che vedrà Oloferne attaccare i Giudei, Giuditta e la sua serva si recheranno nella tenda del generale dell’armata assira per sedurlo e poi ucciderlo, scongiurando così l’attacco.

Una fitta aria di morte si respira sulla scena, luogo non-luogo della mente. La notte è tremendamente buia e avvolge tutto in una danza febbrile di cattivi pensieri. La realtà si deforma nell’interiorità dei personaggi. Oloferne, nell’interpretazione del bravissimo Giuseppe Sartori, è colto nel suo delirio di onnipotenza, preda di cupi ragionamenti sulla morte e sul potere che assoggettata a lui chiunque. Stretto nell’orgoglio di sé stesso, l’uomo è incastrato nel male che ha costruito, come il corpetto che gli stringe il ventre, soffocandolo nella voce e nell’esistenza. È già morto prima ancora che la donna gli stacchi la testa.

Giuditta – la splendida Federica Rosellini – è lì per compiere il gesto che darà libertà a lei e alla sua gente. È lì per difendersi dalla menzogna che esso rappresenta, quella di credersi un dio, padrone indiscusso e incontestabile del giudizio di vita o di morte sugli altri. Un po’ come il falso diritto di cui si arrogano coloro che fanno violenza alle donne appunto. Decidersi di ferire il colpo non è facile, non per lei. Ci vuole giusto disgusto per il tiranno, assumere una posizione distanziata da lui, come nella celebre immagine dell’eroina in Caravaggio. Ma nello stesso tempo però occorre che i due si conoscano e si avvicinino, affinché vittima e carnefice si scambino di posto. Giungere a compiere l’atto di giustizia è per lei come addentare la scorza amara e pungente di un limone – di cui ne è pieno il pavimento della scena – per arrivare poi a berne il succo, che purifica e disinfetta. È necessario che Oloferne muoia, come ricorda la serva (Aurora Cimino) alla sua padrona. Non merita quella pietà che egli rifiuta di provare per alcuno.

Giuditta ribalta la scena della passione e del delitto – lo fa anche fisicamente rovesciando il divano rosso al centro del palco – con la sola forza del suo coraggio femminile, sfidando lo strapotere del maschio Oloferne, nuda e vulnerabile ma comunque dignitosa, pura come la sua pelle bianca.

data di pubblicazione:26/11/2019


Il nostro voto: