da Daniele Poto | Gen 17, 2025
Dal genocidio, riletto senza estenuazioni e compiacimenti con gli occhi di un bambino di quattro anni (il nonno dell’autore), fino alla transizione sovietica dell’Armenia. Torna in patria un americano nato in Armenia per conoscere realmente il proprio Paese ma finisce in carcere per la gelosia di un militare di regime. Dunque il film si trasforma in un movie carcerario abbassando un po’ la temperatura del climax.
Levità e leggerezza. Il protagonista ha sempre il sorriso sulle labbra nonostante l’escalation drammatica della propria detenzione. Il limite del film è non riuscire a trovare un graduale approdo in un genere preciso. I sovietici sono grotteschi, lo sviluppo è drammatico, il finale è sentimentale. Così, scrollandosi di dosso qualche esagerazione caricaturale, fa pensare a La finestra sul cortile ovvero la vita scrutata attraverso le sbarre del carcere vivendo e soffrendo per le vicende della famiglia, spiata da lontano unico motivo di attrazione della giornata. In effetti questo legame indiretto avrà un senso nel finale ad avvenuta liberazione. La situazione che apre le porte alla libertà, schivando la Siberia, tra l’altro, è la morte del grande dittatore Stalin. Un grande senso di orgoglio armeno trapela nelle intenzioni anche se il regista vive in America, come si intuisce dal suo accento. Dopo i primi ciak all’altezza del marzo 2020 (in piena escandescenza di Covid) l’opera trovo sbocco in Italia. E grande merito va alla piccola sala romana del Delle Province che l’ha presentata in anteprima alla presenza dell’onnivoro autore e dell’attrice principale. Segnalazione per gli Oscar di due anni fa e stupore anche nel plot per l’incredibile accusa di cosmopolitismo che costa la perdita della libertà al protagonista, complice una cravatta, simbolo del capitalismo.
data di pubblicazione:17/01/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Rossano Giuppa | Gen 17, 2025
(Teatro Argentina – Roma, 9-18 gennaio 2025)
Tre modi per non morire è il titolo dello spettacolo andato in scena dall’8 al 19 gennaio 2025 al Teatro Argentina, un lavoro scritto appositamente per Toni Servillo dal drammaturgo Giuseppe Montesano, che esplora come la poesia possa diventare una guida verso la vita, attraverso le opere di Baudelaire, Dante e i Greci (foto di Masiar Pasquali).
Un palco essenziale con microfono e leggio che celebra la parola e l’essenza della narrazione, un percorso che si snoda tra Baudelaire, Dante e i Greci, accompagnando lo spettatore in un viaggio culturale e spirituale, un excursus che si propone di contrastare l’appiattimento del pensiero e la progressiva alienazione indotta dalla dipendenza tecnologica, un invito potente sulla necessità di riappropriarsi del pensiero critico e della bellezza poetica.
Monsieur Baudelaire, quando finirà la notte? descrive la bellezza come medicina contro la depressione e l’ingiustizia, offre una visione lucida e poetica della resistenza dell’anima. La notte, metafora dell’oscurità interiore e sociale, termina solo quando si trova il coraggio di “levare l’ancora e partire verso l’ignoto”, un invito all’audacia del pensiero e dell’azione. Il secondo segmento è dedicato a Dante Alighieri, pilastro della cultura italiana e universale. Attraverso le diverse voci, Servillo ci conduce negli abissi dell’Inferno, dove le anime prendono vita con una potenza evocativa straordinaria. Paolo e Francesca, innamorati e condannati a una pena eterna, narrano del libro galeotto, che li unì in un bacio che fu la loro rovina. Ulisse, con il suo invito a “non vivere come bruti, ma a seguir virtute e canoscenza”, ammonisce l’umanità sull’importanza della conoscenza e del coraggio. Il finale, con l’emblematica uscita “a riveder le stelle”, è un gesto di speranza che illumina l’oscurità dell’esistenza. L’ultima tappa si immerge nel pensiero greco, celebrando il teatro e la filosofia come strumenti supremi di liberazione. “I Greci hanno inventato tutto”, dichiara Servillo, enfatizzando la grandezza di una civiltà che ha saputo aspirare all’eternità attraverso l’arte e il pensiero.
Servillo è straordinario nell’uso della parola e della voce, che cesella e diversifica, alternando toni sussurrati e momenti di intensità drammatica. La poesia, la filosofia e il teatro nelle sue mani, intrecciati in un dialogo serrato, permettono di celebrare la profondità dell’esistenza e la bellezza dell’umanità.
data di pubblicazione:17/01/2025
Il nostro voto: 
da Salvatore Cusimano | Gen 17, 2025
(Immagine tratta da THE BAD GUY-seconda stagione PRIME VIDEO)
The Bad Guy 2, diretta da Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, è la serie tv italiana per Prime Video che prosegue nel solco della prima e riprende da dove eravamo rimasti: Nino Scotellaro, magistrato incastrato e accusato di essere mafioso, evade e con una nuova identità, diventa egli stesso un mafioso.
La seconda stagione di The Bad Guy, su Prime Video dal 5 dicembre, continua la storia di Nino Scotellaro che diventa Balduccio Remora, infiltrato nel sistema mafioso per abbatterlo (in teoria) da dentro. Siamo perfettamente in linea con la prima stagione, forse anche con un livello ancora più alto. Luigi Lo Cascio, l’attore tradizionale italiano, viene preso e totalmente ribaltato in un ruolo in stile Breaking Bad, facendo emergere la sua natura criminale. Claudia Pandolfi, regina della fiction italiana, viene anch’essa ribaltata con un ruolo nero, ambiguo e vigorosissimo. Bebo Storti, presente in questa stagione, attribuisce al ministro una personalità sprezzante e priva di qualsiasi morale. Stefano Accorsi nel ruolo del mega iper agente segreto è sempre in bilico tra la sua meticolosità noir e la sua goffaggine nelle relazioni umane. E non ultime, le famiglie mafiose, di solito ritratte in modo che il pubblico possa vederle per quello che sono, sono rese anche loro in duplice versione, con personaggi chiari da un lato e meschini dall’altro. Infatti, nella nuova famiglia che Remora forma, composta quasi esclusivamente da donne, vengono fuori delle istanze semplicemente grottesche e spassosissime: una suora che vuole dire messa, una che vuole andare a Domenica In e un’altra che vuole l’abolizione del 41-bis.
Last but not least Antonio Catania nel ruolo del boss che la fa perennemente franca (vi ricorda qualcuno?) nella prima stagione, qui nella seconda è qualcosa di davvero unico.
E lo possiamo senz’altro dire: la mafia qui fa veramente ridere, a partire dai posti (il quartier generale si trova in un parco acquatico sequestrato, “uno dei posti più sicuri in assoluto”), dalle movenze, delle contrapposizioni e delle facce. Lo scenario del parco acquatico in disuso, con orche, pieno di polvere, topi e ragnatele, è il simbolo stesso di tutto The Bad Guy: estremamente squallido, ma grottesco allo stesso tempo. Ecco la chiave del successo: rappresentare il tutto in maniera così grottesca, rendendo l’opera letale ed esplosiva.
Il tono di commedia mischiato alla suspense è la formula perfetta, con dei colpi di scena continui e con quel tocco di dialetto siciliano che dona a questa seconda stagione un tocco ancor di più caratteristico rispetto alla prima, dimostrandoci che quando si osa anche la serialità italiana produce eccellenza.
data di pubblicazione:17/01/2025
da Antonio Jacolina | Gen 17, 2025
Montreal. Un anziano e celebrato documentarista (R. Gere) ormai prossimo alla fine accorda un’ultima intervista. Presente sua moglie (U. Thurman) rievoca le ragioni della sua fuga in Canada nel 1968 per evitare il Vietnam e svela le sue Verità nascoste…
Schrader a 78 anni appartiene ormai alla Storia del Cinema Americano. Sceneggiatore leggendario e regista discontinuo è passato dai successi ai piccoli film a basso costo. Le sue storie vertono costantemente sulla solitudine, la colpa, l’espiazione e la redenzione. Pur confrontandosi sempre con gli stessi temi non è però mai ripetitivo perché ogni volta ne esamina nuove e diverse sfaccettature.
OH, CANADA è una riflessione sull’imminenza della morte e sui ricordi. Un film crepuscolare ed introspettivo, tanto malinconicamente umano quanto anche politico. Il ritratto di una figura simbolo dei progressisti americani. Un anziano ormai fragile che affronta il proprio declino, le colpe ed i tormenti interiori. La confessione liberatoria ed espiatoria di chi sa di aver abusato della propria immagine pubblica di uomo integro e che è cosciente di aver invece sempre ingannato e mentito e di essere solo un opportunista ed un mediocre. Un egoista che è fuggito davanti alle proprie responsabilità. Sullo sfondo l’America e la generazione degli anni ’60. I movimenti giovanili, le ribellioni culturali e sociali. Gli ideali e le scelte morali ed etiche affrontate o eluse. Il racconto/confessione è articolato su un alternarsi fra Presente e Passato che si fondono, si confondono in modo incoerente. Immagini a colori e poi in bianco e nero. Luci e tonalità che mutano unitamente al formato dello schermo a seconda delle epoche evocate. Volti di oggi che si scambiano con volti di ieri. Un mosaico di immagini non lineari perché molteplici sono i punti di vista, incerti i ricordi e lacunosi i momenti di lucidità dell’intervistato, ripreso nella sua fragilità fisica e mentale.
Il regista trova in Gere il suo giusto alter ego. L’attore è perfetto nel ruolo e ci regala una magnifica e dolente interpretazione. Bravi la Thurman e J. Elordi. Un film classico, falsamente modesto ma anche un film impietoso e difficile, purtroppo monocorde e non privo di difetti. I troppi flash back disorientano il pubblico e non agevolano certo la comprensione del film. Manca la giusta profondità narrativa per dare sostanza alla vicenda. Gli effetti restano troppo in superficie, frammentano il ritmo, non emozionano più di tanto e non consentono allo spettatore di legarsi ai personaggi e di empatizzarne il dramma. OH, CANADA è quindi un piccolo film di breve durata, un autoritratto intimo del regista, di certo ben recitato ma imperfetto. Un’opera minore ma un prodotto minore di un grande cineasta americano.
data di pubblicazione:17/01/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Daniele Poto | Gen 15, 2025
regia di Luca Ferrini, con Giovanni Prosperi, Alessandra Mortelliti, Paola Rinaldi, Andrea Verticchio, Antonia Di Francesco, Luca Ferrini, Marianna Menga, Veronica Stradella, disegno e luci Cristiano Milasi, musiche Giulio Ricotti
(Teatro De’ Servi – Roma, 14/26 gennaio 2025)
Pirandello comme il faut. Con rispetto per il testo ma adattamento ragionato e contemporaneo con la suggestiva scena iniziale, raccordo per il finale, foglie al vento. Due tempi calibrati con omaggio al patriarcato nell’ideologia della scrittura del tempo. Una denuncia di adulterio sfuma nel perbenismo borghese. Per cui chi ha denunciato è pazzo per soffocare lo scandalo. Attori al posto giusto con caratterizzazioni adeguate e ovvio risalto per la figura di Ciampa, marginale apparentemente ma essenziale nel drammatico finale.
Corda civile e corda pazza. La dialettica richiede un ragionato equilibrio tra le due ma alla fine prevale la seconda, mutuata dal classico repertorio pirandelliano. Un fosco clima di provincia, un complotto per svelare un tradimento che può costare il carcere viene annullato dalla forza del rientro nella norma. Tutto si deve ricomporre nell’ipocrita scenario del matrimonio borghese. Tutti i tasselli del puzzle devono tornare a posto. É il politicamente scorretto di un’ideologia molto siciliana ma anche molto italiana. Ricordiamo che l’adulterio costò il carcere al grande campione di ciclismo Fausto Coppi. Qui, anni prima, il clima è ancora più pesante ma la capacità di recupero della catena protettiva è forte. E lo scandalo sarà deviato sulla solo presunta e fallace insanità mentale di chi ha denunciato, L’esterrefatto sguardo della moglie (Beatrice Fiorica) nel convulso finale è uno dei momenti più alti di uno spettacolo in cui un teatro abitualmente dedito al comico mostra di saper deviare dalla propria vocazione. Attori di interpretazione imperfettibile con citazione di spicco per il delegato, pieno di tic e di deviazioni dalla logica nell’intento di non scontentare nessuno.
data di pubblicazione:15/01/2025
Il nostro voto: 
da Antonio Jacolina | Gen 13, 2025
New England. La storia di un luogo dalla Preistoria ai giorni nostri, raccontata attraverso le vite e gli avvenimenti delle persone e delle famiglie che vi sono vissute…
Zemeckis ha già il suo nome fra i grandi del Cinema Americano. Dagli Anni ’80 al 2000 ha inanellato una lunga serie di successi di critica e di pubblico. Ha giocato abilmente con i paradossi temporali, le innovazioni tecnologiche e gli effetti speciali. Poi per lui è iniziata una fase sempre meno convincente.
Con HERE affronta oggi un progetto che sulla carta è molto interessante e degno del suo talento: adattare cinematograficamente un graphic novel, con un concept narrativo davvero originale. Osservare sempre dallo stesso ed unico punto di vista un piccolo spazio e tutto quello che vi avviene nel Tempo. Per realizzarlo ha ricostituito dopo 30 anni la squadra di Forrest Gump: Tom Hanks e Robin Wright, lo sceneggiatore, il direttore della fotografia e l’autore della colonna sonora. Però – diciamolo subito – l’idea è rimasta solo un intrigante obiettivo. La cinepresa resta sempre nello stesso angolo, con la stessa prospettiva visuale e riprende il riquadro di terra nei millenni. Prima selvaggia e incontaminata, poi habitat dei Nativi Americani, poi proprietà della famiglia Franklin, infine stanza di una casa posseduta da diverse famiglie, ognuna con la sua storia dal ‘900 a oggi. Una stanza da cui non usciremo più se non nel finale, dopo 1h 40’.
L’intenzione era mostrare le vite che scorrono in quell’angolo di mondo ma il risultato è solo parzialmente positivo. Più che un film HERE sembra quasi una “installazione” con il Sogno Americano in filigrana. Lo spettatore resta passivo testimone dei frammenti di vita che si succedono e si intersecano con un continuo avanti e indietro nel Tempo. La tecnica cinematografica è sicuramente apprezzabile, l’uso della IA per ringiovanire o invecchiare gli attori è riuscito. Ben altre sono però le carenze! Il film sembra un puzzle, molte scene sono troppo brevi e non ben collegate fra loro, quasi degli sketches. La struttura generale è molto contorta e genera confusione ed effetti claustrofobici, le situazioni drammatiche non sono sempre coinvolgenti. I personaggi sono troppi e poco sviluppati, lo spettatore non ha modo di investire emotivamente su di loro e quindi non generano interesse né empatia. Le interpretazioni attoriali, infine, per effetto del de-aging e del piano lungo, sono quasi smaterializzate e non sempre si riesce a coglierle e ad apprezzarle. La coppia Hanks/Wright, pur confermando la buona chimica, non riesce infatti a dare il dovuto spessore ai ruoli.
HERE è in sostanza un ambizioso film che resta sperimentale, un’esperienza interessante ma un’occasione non del tutto sfruttata.
data di pubblicazione:13/01/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Daniela Palumbo | Gen 12, 2025
(Immagine tratta dal film Ad Vitam- Netflix)
Franck e la moglie Léo sono due agenti speciali del GIGN. Decidono di avere un figlio, incoraggiati dai colleghi del gruppo, che per loro costituiscono già una famiglia. Coinvolti in un losco affare di Stato, i due rischiano la vita. E soprattutto, vengono separati l’uno dall’altra: lei rapita, lui ricercato per un omicidio che non ha commesso.
È un film d’azione, ma à la française. Non mancano gli “effetti speciali”, dalla motocicletta lanciata in una folle corsa al volo col parapendio, passando attraverso le acrobazie del parkour sui tetti di Parigi. Né si fanno attendere sparatorie ed inseguimenti su strada. E complotti e sotterfugi ad ogni angolo. Il tocco francese è dato piuttosto da una certa malinconia, che sfiora l’anima. Quel mal de vivre che, nonostante un dinamismo spesso senza pause o freni, non risparmia nessuno. Per ragioni diverse.
Così, man mano che il protagonista – braccato – ascende ai cieli sopra Versailles o volteggia tra i comignoli delle case, noi spettatori ci caliamo nel profondo delle emozioni tra le più oscure. Perdere un amico, sentire il peso di una colpa senza rimedio, guardare negli occhi il bambino cui è stato sottratto il padre. E ancora, andare via – per non farvi ritorno – dal luogo cui sentivamo di appartenere. Che non ci vuole più, e ci respinge. Ormai a noi estraneo. Tutto questo lo “viviamo”, lo sentiamo, insieme a lui, il protagonista della storia. Eroe ed antieroe insieme, interpretato dall’ottimo Guillaume Canet, perfetto tanto nel ruolo del “duro” (come da manuale) quanto in quello di compagno premuroso e tenerissimo padre. Apprezzabile anche la prova di Stéphane Caillard, nel ruolo di Léo, coraggiosa con naturalezza, ora nella lotta ora nella resistenza. Ad vitam. Per la vita.
data di pubblicazione:12/01/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Accreditati | Gen 11, 2025
(Imperdibili:terza puntata alla libreria Eli di Roma venerdì 17/01/2025)
Venerdì 17 gennaio alla Libreria Eli (Viale Somalia 50 A, Roma) si parlerà di amore. Una parola che oggi potrebbe fare scandalo per la sua morigeratezza vista che nel linguaggio corrente è stata sostituita dal sesso. Un livre de chevet per tornare ai valori è l’analisi di Frammenti di un discorso amoroso di Ronald Barthes, maestro di semiotica, illustra saggista francese, qui al suo tentativo estremo di avvicinarsi alla forma romanzo. L’anamnesi sarà dettagliata. Franco Fatigati collocherà Barthes nel suo tempo ripercorrendo la sua frenetica attività, tragicamente interrotta da un incidente automobilistico mortale. Daniele Poto si addentrerà nella struttura del romanzo con le sue infinite citazioni, le sue non capziose e non retoriche domande mentre l’attrice Francesco Gatto intratterrà il pubblico con sette letture tratte dal testo. É la terza puntata della sezione Imperdibili che avuto come prima passaggi Mattatoio 5 di Kurt Vonnegut e La promessa di Friedrich Durrenmatt. Le successive puntare (una al mese) vedranno la valutazione di Comma 22 di Joseph Heller e Herzog di Saul Bellow. Capolavori che non possono mancare in una biblioteca e che devono (dovrebbero) essere letti. Per la partecipazione è previsto un buon libro da 10 euro, cifra propedeutica al possibile acquisto del libro di cui si parla.
data di pubblicazione:11/01/2025
da Anna Paulinyi | Gen 11, 2025
La fantascienza incontra la commedia romantica d’ufficio sotto una pioggia di ironia. Per chi è un amante delle serie coreane, Le stelle parlano di noi è assolutamente da seguire. I tempi di produzione lunghissimi, dovuti alla minuziosa ricostruzione virtuale di una stazione spaziale e la complicata regia per i movimenti nel vuoto degli attori, l’hanno fatta diventare una delle serie più attese degli ultimi tre anni. Per non parlare di un cast superlativo: Lee Minho, Gong Hyo-jin e l’eclettico Oh Jung, che qualcuno ricorderà nel ruolo del fratello artista-strambo in It’s Okay to not be Okay.
Finalmente il 4 e il 5 gennaio sono usciti i primi due episodi di una delle serie coreane più attese degli ultimi anni, When the stars gossip (in originale: 별들에게 물어봐). I 16 episodi, format classico di ogni K-Drama contemporaneo che si rispetti, sono un ulteriore motivo per aspettare il fine settimana. Per adesso la trama converge fantascienza, commedia e office romance con un cast stellare. Nei primi episodi vediamo un turista siderale, il ginecologo Gong Ryong impersonato da uno dei migliori attori sudcoreani, Minho Lee, prendere il lancio in navetta verso la stazione spaziale della Corea del sud. Al commando della missione è il capitano Eve Kim (Gong Hyo-jin), astronauta sudcoreana e zoologa, che porta avanti sulla stazione il suo esperimento di topi nello spazio. Ma Gong Ryong, che falsamente viene preso come multimilionario, in verità ha intrapreso il viaggio per aiutare la sua futura cognata, moglie del fratello defunto della sua fidanzata Choi Go-eu, una cosiddetta chaebol, come vengono definiti gli eredi di magnati dell’industria sudcoreana. Gong Ryong ha portato nascosti in un contenitore di gelati – sono regali per la crew già presente nella stazione spaziale – degli ovuli per portare a termine, si spera con successo, una fecondazione in vitro con gli spermatozoi del (futuro) cognato defunto. Sterili sulla terra, ma di nuovo fecondi grazie alle condizioni atmosferiche nello spazio.
L’arrivo dentro la stazione viene ritardato di 20 minuti da Eve Kim per assistere a una spassosa scena dell’accoppiamento di due moscerini di frutta trasportati per sbaglio dalla terra. Un atto assolutamente privo di significato sulla superfice terrestre, ma una sfida miracolosa alle leggi di gravità nello spazio. I dialoghi della serie sono brillanti, il cast di supporto nella centrale terrena e famigliare dei protagonisti altrettanto. Attendiamo con trepidazione le prossime puntate che usciranno fino a metà febbraio ogni sabato e domenica. Vedremo come si svilupperà l’attrazione tra Gong Ryong e Eve Kim, ma anche le altre sottotrame. E ovviamente l’esito della fecondazione in vitro.
In attesa di vedere in onda tutte le puntate, segnaliamo un’altra serie di qualche tempo fa, pietra miliare – un “classico” in termini di K-Drama – sempre con Lee Minho protagonista. Si tratta di una delle serie più di successo in Corea del Sud dal titolo Inheritors (Eredi), o anche Heirs, del 2013 in 20 puntate. Un melodramma teen: lui, Kim Tan, un chaebol illegittimo, lei, Cha Eun-sang (Park Shin-hye) figlia della governante. Come sfondo un liceo privato per super ricchi, heirs appunto.
La serie è talmente conosciuta che la citazione È possibile che tu mi piaccia? della terza puntata ha in coreano ormai la valenza di un detto.
data di pubblicazione:11/01/2025
da Daniele Poto | Gen 10, 2025
drammaturgia Agnese Fallongo, ideazione e regia Adriano Evangelisti coordinamento creativo di Raffaele Latagliata, con Agnese Fallongo e Tiziano Caputo
(Teatro Manzoni – Roma, 9/26 gennaio 2025)
Storia di donna in tre tableau. E in tre dialetti: siciliano, romanesco, veneto. Fallongo si stripla cimentandosi in un’impervia e riuscita prova d’attrice attraversando una scenografia scabra dove tre finestroni stanno a rappresentare entrate e uscite dalla vita e dal personaggio. E Caputo è più di un coprotagonista cimentandosi in assolo in un irresistibile dialogo tra suore.
Nel pesante e opprimente clima delle guerre mondiali, quando le donne non potevano ancora accedere al suffragio universale, tre personaggi si cimentano con la temperie della vita. Una giovane sposa perde il marito e aspira a ritrovarlo sul fronte carnico. Più mosso il secondo tableau perché l’attrice principale si fa vamp per chi accede alle case chiuse, invano sperando di cimentarsi come colf nel suo approdo in una Roma che le appare caotica. L’orfanella viene da Littoria-Latina e scoprirà le secche del mestiere più antico del mondo in auge fino a che la Merlin non impone lo stop alle case di tolleranza con la legge che porta il suo nome all’altezza del 1958. Infine, portando i nodi al pettine, Suor Letizia, dai modi bruschi ma concreti, legherà i destini precedenti racchiusi anche in un nome (Letizia) sciogliendo un intreccio sintetico. L’uomo è aspirante marito, teorico compagno, ricercatore di un destino perduto, imbattendosi in un parto infelice e con una malattia sessuale tipica del tempo. L’amore, il coraggio, l’incertezza dominano la scena. E la chiatarra suonata abilmente dal vivo provvede a stemperare i toni a scaricare tensioni latenti. Vivo successo nella prima e fiducia ulteriore per 17 giorni successivi di repliche.
data di pubblicazione:10/01/2025
Il nostro voto: 
Gli ultimi commenti…