da Maria Letizia Panerai | Mar 14, 2025
Siamo nel 1940. Umberto Cassola (Paolo Pierobon) e la sua compagna Julia Szapolowska (Catherine Bertoni De Laet) si riuniscono su un treno che attraversa l’Europa Centrale in missione segreta per il Cominter: con loro c’è la figlia Olga (Angelica Kazankova). Condividono lo spazio con l’agente Molnàr, un personaggio ambiguo incaricato di interrogare (o forse di proteggere?) Cassola. Sullo stesso treno viaggiano il fascista Guido Clerici (Tommaso Ragno), amico d’infanzia di Cassola, e sua moglie Gerda Hermet (Matilde Vigna). Subito si crea una certa tensione tra chi deve portare a termine la propria missione.
Europa centrale, il film di esordio di Gianluca Minucci presentato in concorso alla 42ma edizione del TFF, ha avuto il suo battesimo con il grande pubblico in sala giovedì 13 marzo al cinema Farnese di Roma, per poi toccare le piazze di Bologna, Milano e Trieste.
Proveniente dal mondo dei videoclip e dalla pubblicità, Gianluca Minucci (nato a Trieste nel 1987, laureato alla facoltà di lettere e filosofia) ha descritto il suo lungometraggio come un kammerspiel metafisico, genere teatrale e cinematografico nato negli anni ’20 in Germania, ambientato in uno spazio ristretto (in questo caso nei vagoni di un treno), in cui pochi personaggi affrontano dialoghi di una certa intensità, esplorando temi profondi a livello filosofico su questioni universali, andando oltre quella che è la realtà concreta.
Come tutte le opere prime il regista ha fatto di Europa centrale un film “grande”, un contenitore di tutto ciò che con urgenza voleva trasporre. Un gioiello molto prezioso, pieno di pietre che irradiano luce diretta e riflessa, a tratti algido e inarrivabile, troppo dotto in alcuni passaggi. Tuttavia la pellicola emana vibrazioni come un quadro di espressionismo astratto, che arrivano al pubblico senza troppe spiegazioni razionali o conoscenze storico-filosofiche particolari. Inevitabili alcune influenze che fanno parte del bagaglio culturale del regista, che spaziano da Trintignant alla Cavani sino alla filmografia di Volontè (Todo modo, La classe operaia va in paradiso).
É il fluire delle storie individuali, che scaturiscono da confessioni private, sino ai dialoghi tra coniugi e nel confronto con l’opposto, a darci la pienezza delle innumerevoli contraddizioni che albergano dentro ognuno dei personaggi in scena, grazie ad una interpretazione attoriale di altissimo livello, in un tutt’uno di profonda attualità che travalica lo scenario spazio-temporale per arrivare sino ai nostri tempi. Tale contemporaneità la si coglie in particolare nello sviluppo dei due ruoli femminili principali. Le due interpreti hanno un peso nella narrazione non solo come consorti di Cassola e Clerici, ma soprattutto come rappresentanti di genere: sono madri, mogli, compagne, amanti ed in quanto tali vengono amate, usate, dominate, maltrattate, violentate, derise e abbandonate. Fa eccezione la piccola Olga, figlia-non figlia dei coniugi non-coniugi Cassola che rappresenta l’agghiacciante frutto dei nostri tempi confusi.
Il film non ha una trama precisa se non la narrazione di un periodo storico attraverso le storie incrociate di 4 individui, due uomini e due donne, che si scontrano per raccontare l’uomo inteso come individuo, mettendo a nudo dubbi e contraddizioni. Sicuramente Europa Centrale è un film complesso, non per tutti, a tratti criptico, ma l’energia che sprigiona aiuta ad entrare in sintonia con la rappresentazione, grazie anche ad una colonna sonora strepitosa, opera del compositore polacco Zbigniew Preisner (sono sue le musiche della trilogia di Kieslowski) e ad un girato seppiato che ci riporta agli anni 40. La tecnica è molto avanzata e l’atmosfera inevitabilmente claustrofobica per aver girato tutto nei vagoni angusti di un treno all’interno del Museo Ferroviario di Budapest, utilizzando carrozze originali degli anni ’20 e ’30, dove anche i reali limiti nell’aprire porte e finestrini hanno contribuito a conferire a tutta la storia un fascino ed una atmosfera unici e coinvolgenti. Una vera scommessa per questo giovane regista.
data di pubblicazione:14/03/2025
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da Maria Letizia Panerai | Gen 29, 2025
Uberto Pasolini, dopo aver girato meraviglie come Still Life e Nowhere special, ci sorprende con un cambio di rotta virando su qualcosa di molto distante senza tuttavia cessare di stupirci. Con The return ci regala una rilettura dell’Odissea dopo una gestazione, a suo dire, trentennale. Molto fedele al testo di Omero, il film sembra tuttavia estremamente attuale tanto da sembrare una metafora del nostro tempo.
Odisseo (Ulisse) approda ad Itaca respinto dalle onde. È un uomo indebolito dal naufragio, che porta sul corpo i segni di una guerra durata vent’anni. Ma le ferite più grandi non sono visibili se non dal suo sguardo stanco e addolorato per le vittime che la sua impresa ha causato e per i traumi che la sua assenza ha generato nelle persone che ama. Un padre anziano e morente. Un figlio, Telemaco, che non ha visto crescere e che si affaccia all’età adulta. Una moglie fedele e tenace, Penelope, che ha conosciuto solo il dolore di una lunga attesa senza poter camminare al suo fianco. Una famiglia separata dalla guerra e dal tempo. Odisseo non è fiero della sua impresa che ha seminato solo distruzione e morte, oltre a tanta infelicità, apparendo ai nostri occhi come un uomo distrutto e tormentato.
Dopo una gestazione durata trent’anni Pasolini realizza la “sua” Odissea, a settant’anni dall’ultima versione per il grande schermo, impiegando “più del tempo che ha impiegato Ulisse per tornare nella sua Itaca”. Nelle sue mani ciò che rende questa storia epica attuale, seppur nella sua intatta classicità e fedeltà al testo di Omero, è l’aver ritratto Ulisse come un reduce di guerra, con le sue ferite visibili e non. Le interpretazioni magistrali di Ralph Fiennes e Juliette Binoche con la macchina da presa che segue ogni loro impercettibile espressione o gesto, hanno contribuito inoltre a restituirci il dolore di chi è tornato dopo un lungo esilio, come il titolo stesso ci suggerisce, ma anche di chi è restato. Ed è proprio il tempo il terzo protagonista della pellicola, come una entità palpabile, una lunga attesa generatrice di un dolore sordo, da assumere le sembianze di un lutto da elaborare in eterno.
Film intenso, ben fatto, curato in ogni singola scena, di rara bellezza e inaspettata attualità.
data di pubblicazione:29/01/2025
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da Maria Letizia Panerai | Gen 21, 2025
“Povera Italia: che abbaglio!”. Roberto Andò mescola abilmente, come fu per La stranezza, i toni leggeri della commedia con riflessioni profonde su temi storici e culturali attingendo a quella sottile ironia che ha da sempre caratterizzato le sue opere. Ne L’abbaglio si consolida la coppia comica Ficarra-Picone, non più solo riduttivamente televisiva.
Siamo nel 1860. Garibaldi (Tommaso Ragno) inizia, anche grazie all’entusiasmo di giovani idealisti, l’avventura dei Mille. Nel gruppo di ufficiali che lo affiancano nell’impresa c’è il colonnello palermitano Vincenzo Giordano Ossini (Tony Servillo) che diventerà generale grazie al successo di una manovra diversiva voluta dallo stesso Garibaldi. Far credere alla milizia borbonica, con l’ausilio di uno sparuto numero di militari feriti e volontari reclutati dallo stesso Ossini, che Garibaldi stia battendo la ritirata tra Corleone e Sambuca mentre, al contrario, viaggia con le truppe alla volta di Palermo. Tra le persone reclutate ci sono anche il contadino claudicante Domenico Tricò (Salvo Ficarra) esperto in fuochi d’artificio e il baro Rosario Spitale (Valentino Picone) che con un improbabile dialetto nordico vanta un passato d’accademia militare. Entrambi vedono nel reclutamento il viatico per riavvicinarsi alla loro città natia, Palermo. Appena sbarcati a Marsala, mentre i giovani garibaldini cominciano a battersi, ai primi spari i due decidono di disertare. Ma il colonnello Ossini per portare avanti la sua disperata impresa decide che anche gli impostori possono essere utili.
Seppur meno sorprendente de La stranezza, questa nuova pellicola di Andò ha come cifra vincente non solo l’aver mescolato personaggi storici e di fantasia ma anche storie di eroi assieme a quelle della gente comune. Le contraddizioni degli individui coinvolti mettono in luce anche le contraddizioni storiche dell’epoca. Il continuo bilanciamento tra comicità e dramma del film evidenzia un paradosso: che le gesta eroiche e patriottiche possano avere avuto anche il contributo di persone che casualmente si sono mescolate alla storia. Domenico e Rosario, al pari di Suor Assuntina (Giulia Andò), che inciampano con le loro vite nella storia del Risorgimento italiano, ne sono l’esempio più estremo. In palese contrapposizione a idealisti come il giovane tenente Ragusin interpretato da Leonardo Maltese (Il signore delle formiche, Rapito). Questa idea centrale è rafforzata anche da un epilogo inaspettato, un finale sorprendente, un colpo di scena che ribalta le aspettative dello spettatore che ha riportato lontanamente alla mente di chi scrive un altro celebre finale: quello de La stangata del 1973. Ma non aspettatevi Paul Newman e Robert Redford!
data di pubblicazione:21/01/2025
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da Maria Letizia Panerai | Dic 18, 2024
Un tributo al cinema come forma d’arte e al suo stretto legame con la moda. Uno spartiacque tra passato e presente, ma anche un atto di celebrazione e continuità attraverso la narrazione di figure femminili. In Diamanti sono esaltati i pensieri e le più grandi passioni di Özpetek che cede alla vanità di interpretare sé stesso.
Ferzan convoca le sue attrici-amiche preferite per girare un film nel film. La storia si svolge a Roma nella sartoria cinematografica Canova. A gestirla sono due sorelle Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca). La prima severa e terribilmente esigente, l’altra presente ma assente, con uno sguardo triste perso dietro pensieri che la portano lontano. Poi ci sono le lavoranti, ognuna con la propria specialità. Dentro gli spazi della sartoria, tra manichini, costumi e rotoli di stoffa pregiata si intrecciano le storie di tutte queste donne. Un mondo femminile pieno di sfaccettature, resistente, prezioso, che si racconta e si scopre piano piano. Siamo negli anni ’70, tempo di emancipazione e di fermento. Ma è un “non tempo” quello che si respira nella sartoria, dove la fantasia e l’estro non hanno età né ceto sociale e il proprio piccolo mondo resta fuori per lasciare spazio alla creatività. Lo sguardo attento della camera da presa si poggia su ognuna di loro, sul loro talento ma anche sulla loro storia personale, a volte complessa, a volte sorprendente. I dettagli con cui il regista indaga e racconta le storie sono curati con precisione quasi maniacale. Un elemento centrale della narrazione sono i costumi che celebrano l’artigianalità e lo stretto legame della moda con il cinema d’autore di quegli anni. Anni in cui Özpetek in qualità di aiuto regista frequentava la sartoria Tirelli. L’utilizzo di costumi iconici come il corsetto di una famosa stilista britannica o i richiami ai volumi di Capucci, aggiungono un tocco di eleganza e teatralità “il costume non deve solo vestire il personaggio, il costume deve permettere all’attrice di entrare nel personaggio”. Il film ha il merito che ogni ruolo, anche il più piccolo, ha il suo peso specifico ed il cast di attrici è di primissimo ordine. Ma seppur declinato al femminile, Diamanti non si discosta dagli ingredienti classici della filmografia corale del regista, quella più famosa, e ne rappresenta la summa per enfasi e ricchezza. La cura ossessiva dei dettagli sottende un grande lavoro ma sottrae spontaneità e sorpresa. Un plauso va ai costumi di Stefano Ciammitti e all’atmosfera evocativa creata dalle voci di Mina e Giorgia che arricchiscono la narrazione.
Un finale autocelebrativo un po’ tirato e il tributo a Mariangela Melato, Virna Lisi e Monica Vitti svela l’intento di inserire il film in un progetto più ampio di celebrazione delle grandi icone femminili del cinema italiano ma appesantisce inutilmente la pellicola che avrebbe dovuto fermarsi prima.
data di pubblicazione:18/12/2024
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da Maria Letizia Panerai | Dic 4, 2024
Ingrid e Martha, una scrittrice e l’altra inviata di guerra, sono due amiche di vecchia data. Le loro strade professionali le hanno allontanate senza cancellare l’affetto che le lega. Martha è molto malata e vede in Ingrid l’amica in grado di starle accanto in un momento così particolare. La stanza accanto di Pedro Almodòvar, premiato a Venezia con il Leone d’Oro, ci induce ad una profonda riflessione sul fine vita al mondo d’oggi.
Tratto da Attraverso la vita di Sigrid Nunez, il film ricalca l’offerta di conforto in un momento di estrema difficoltà attraverso il gesto di “accompagnare”. Accettare dunque, al di là dei propri convincimenti, di “stare accanto” in maniera solidale, senza agire, in silenzio, come gesto di generosità. Perché non occorre parlare, ma sicuramente bisogna saper ascoltare le motivazioni, le paure, i convincimenti e le decisioni. Ingrid (Julianne Moore) ha nel suo sguardo questo sentimento dell’ascolto che travalica l’amicizia e l’amore. E Martha (Tilda Swinton) sa di aver scelto, dopo diversi rifiuti, la persona giusta che non la lascerà sola quando deciderà di andarsene. Ingrid imparerà ad accettare quella morte perché liberamente decisa e questa situazione darà un nuovo slancio di estrema intimità alla loro vecchia amicizia. Il luogo scelto da Martha dove vivere questo loro ultimo tempo insieme è una casa nel bosco, magica, lontana dal caos cittadino. Una sorta di interregno vitale ed inondato di luce. Lì Ingrid dovrà semplicemente dormire nella stanza accanto a quella di Martha e nulla più. Lì, sdraiate al sole su due lettini, ascolteranno al mattino il canto degli usignoli. Lì vedranno la neve cadere sulla piscina e sul bosco dove abbiamo camminato e dove ti sei sdraiata, esausta, a terra. Lì Martha le parlerà dell’esistenza di Michelle, sua figlia. Lì Ingrid ascolterà l’amica parlare.
La regia sapiente e l’interpretazione stupefacente delle due attrici, la fotografia meravigliosa e accecante, i colori degli abiti di Tilda Swinton che marchiano la pellicola con il timbro Almodòvar unitamente all’ambientazione teatrale in stanze arredate con cura e gusto estremi, fanno de La stanza accanto un autentico capolavoro. Una riflessione profonda e coraggiosa sull’eutanasia espressa senza troppi giri di parole nel groviglio di contraddizioni del mondo attuale.
data di pubblicazione:4/12/2024
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