da Antonio Iraci | Ago 10, 2025
Munir è uno scrittore arabo esiliato da anni in Germania. L’unico contatto che gli rimane con il suo paese è attraverso le telefonate con la madre che soffre di demenza e pertanto neanche lo riconosce. A seguito di frequenti attacchi di panico, su suggerimento del suo medico, si allontana da Amburgo per una breve vacanza su un’isola sperduta al nord. In verità nel bagaglio porta con sé una pistola per porre fine alla sua vita. L’incontro con la donna che lo ospita nella sua guest house cambierà radicalmente il suo destino…
Ameer Fakher Eldin è un regista nato in Ucraina, ma di origini siriane. Oramai tedesco per naturalizzazione con Yunan, suo secondo lungometraggio, ritorna alle sue tematiche che riguardano il mondo arabo in generale e la ricerca di una propria identità da parte di chi è andato forzatamente in esilio. Munir, interpretato dall’attore libanese Georges Khabbaz, mostra una palese insoddisfazione per la sua vita, inevitabilmente lontana dalla sua casa e dai suoi affetti. Nella sua mente riecheggiano i racconti della madre, racconti che non si stancava mai di ascoltare e che ora si ripetono all’infinito come un mantra. Lui stesso lavora con l’immaginazione e si ritrova testimone di una coppia di pastori che vivono isolati e che non riescono più a comunicare.
L’uomo ignora le attenzioni della moglie perché, seguendo la narrazione, non può esprimersi non avendo una bocca, un naso e neanche le orecchie. Ovviamente si tratta di una metafora che il protagonista fa sua per descrivere lo stato d’animo di un uomo isolato nel nulla e privato di qualsiasi manifestazione d’amore. Quando ormai sembra tutto perduto, lo scrittore sentirà la solidarietà di Valeska (Hanna Schygulla), un’anziana donna che vive con il figlio e che con la sua semplicità e con le sue piccole attenzioni gli darà una nuova speranza. Il regista vuole parlare di un ritorno al luogo d’origine ma in effetti, nel suo caso, si tratta di attraversare un confine simbolico verso una patria che vive solo nella sua immaginazione. Un film fatto di gesti semplici e di sentimenti delicati, di una lotta senza fine per un futuro incerto e un profondo rammarico per ciò che si è lasciato dietro. In cerca di posti incontaminati, molte scene sono state girate nella campagna pugliese che sembrava evocare paesaggi biblici.
La sostanza del film sta proprio nell’indagare cosa rimane di una persona quando si sente persa e fino a quando il contatto umano potrà ancora esserle d’aiuto. Yunan esplora il non detto e i silenzi che si è costretti a lasciarsi dietro quando si abbandona il luogo d’origine. Per il protagonista ritirarsi su quell’isola remota sarà come avventurarsi fino ai confini del mondo per ritrovare in sé un percorso di rinascita e di resurrezione. Tutto quello che accade nel film rimane nel piccolo, in movimenti impercettibili che alimentano il suo isolamento nel modo di osservare la vita.
Il film, presentato in concorso alla Berlinale di quest’anno, non ha ottenuto alcun riconoscimento, nonostante le aspettative da parte del pubblico e della critica presente.
data di pubblicazione: 9/08/2025
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da Anna Paulinyi | Ago 7, 2025
È sempre un bel momento quando Netflix riesce ancora a sorprenderti. Per me è successo con la serie Kaulitz & Kaulitz che, pur avendo un taglio da reality, mi ha regalato in gran parte le stesse emozioni che ho provato guardando e riguardando il film Il vizietto del 1978 di Édouard Molinaro, con Ugo Tognazzi e Michel Serrault.
Lo stesso umorismo tagliente, mescolato a dimostrazioni di immenso affetto nel convivere con una figura tanto divertente, scintillante ed esibizionista quanto fragile. Nel film era Renato (Tognazzi) a sopportare con amore il compagno più effemminato, Albain (Serrault). In questa serie accade qualcosa di simile, con la differenza che i protagonisti sono la coppia di gemelli più famosa della Germania: Tom e Bill Kaulitz.
Diventati celebri da giovanissimi con il gruppo Tokio Hotel, i due fratelli si sono trasferiti a Los Angeles poco più che ventenni, per sfuggire all’assalto dei tabloid tedeschi e ritrovare un po’ di anonimato – almeno quando vogliono. Ed è proprio a Los Angeles che Tom ha sposato la supermodella tedesca Heidi Klum, di 16 anni più grande. Bill, invece, con il suo stile fluido, effemminato e una personalità prorompente, è ancora alla ricerca dell’anima gemella.
La loro vita da rockstar “jet set” si divide tra gli Stati Uniti e l’Europa, e nella serie ci invitano a seguirli in alcuni momenti chiave degli ultimi due anni. Vivono in pieno lusso, tra le ville sulla mitica Mulholland Drive, ma non disdegnano di comprare dei pasticcini per andare a trovare la mamma nella villetta di periferia ad Amburgo.
Ovviamente la loro quotidianità è fatta di esperienze fuori dal comune: dalle sfilate di Parigi, alle immersioni con gli squali alle Hawaii; dai festival musicali in Germania, alle aziende in Messico dove progettano di lanciare un marchio di tequila; ma non si tirano neanche indietro da un viaggio nel Grand Canyon in camper, con il bagno fuori uso, come davanti a un corso di “bon ton” in un castello tedesco.
Gli scenari nei quali si muovono sono riconoscibili, internazionali e molto belli e sembrano un mix tra una rivista patinata degli anni ’50 e un film di spionaggio tipo “Mission impossible”.
Quello che colpisce, oltre al glamour vissuto con molta autoironia, è il loro rapporto fraterno, schietto e senza filtri e profondo, così profondo, che insultarsi con una buona dose di black humour risulta un gesto d’affetto. Il modo in cui i due fratelli si fanno da spalla l’un l’altro è davvero delizioso – e spesso esilarante. Sono consapevoli di essere forti solo insieme, e accettano le rispettive differenze… più meno. Inoltre hanno voluto mettere anche un forte accento nelle loro avventure sulle persone che fanno parte della loro vita, amici, collaboratori, familiari. Tutti molto diversi tra loro. Un vero pop-potpourri culturale e umano, da gustare nella versione inglese con i sottotitoli in italiano, che rende meglio l’umorismo spontaneo di questi due personaggi che viene totalmente perso con il voice over italiano.
Prendendo spunto da una loro avventura, vorrei consigliare anche la visione del documentario Shark Whisperer: Nuotando con gli squali, un lungometraggio del regista e premio Oscar James Reed, che racconta la storia di Ocean Ramsey e di suo marito Juan Oliphant, uniti nella vita e nel lavoro dall’amore per uno dei predatori più temuti dei mari: gli squali.
È proprio l’amore e la passione per questi animali, oggi vittime della caccia e della crudeltà umana, che ha spinto Ocean a farsi conoscere attraverso i social, dove pubblica foto e filmati realizzati dal marito, mentre nuota con questi esseri leggendari e li accarezza come se fossero gatti domestici. Un gesto che le ha portato un grande successo anche commerciale.
Un successo che, però, lei reinveste completamente nella conservazione degli squali, veri e propri protagonisti della sua vita e della sua missione. Ocean sa bene che, nel rapporto con questi animali, potrebbe perdere la vita: si tratta pur sempre di creature molto pericolose, anche se ben meno interessate all’uomo di quanto ci abbiano fatto credere i film d’azione e dell’orrore.
A Ocean Ramsey è stato spesso criticato il tentativo di “umanizzare” questi antichi predatori, ma chi vedrà il documentario capirà che questa non è affatto la sua intenzione. Il suo unico scopo è aiutare a proteggere l’ennesima specie animale a rischio di estinzione, e far comprendere all’uomo che ciò che lo spaventa è, in realtà, anche fondamentale per la sua sopravvivenza sul pianeta Terra.
E fa bene a utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione.
data di pubblicazione: 07/08/2025
da Nadia Alese | Ago 7, 2025
Ventidue anni dopo il film del 2003, Nisha Ganatra dirige un sequel all’altezza del primo episodio, che non si limita a rinnovare la commedia del doppio scambio, ma ne ridefinisce la portata narrando un intricato scambio generazionale a quattro e aggiungendo profondità alla dinamica familiare originale.
Jamie Lee Curtis, in forma smagliante, riaccende il suo ruolo di Tess con una performance di livello, espansiva e liberatoria, una nonna podcaster che riscopre se stessa nell’esuberanza di un corpo adolescente, e lo fa con ironia e consapevolezza. Lindsay Loan, tornata nei panni di Anna, musicista, manager e mamma single, porta con sé un’umile trasformazione: convive con un passato da teen star e con una nuova maturità che talvolta fatica ad emergere con sicurezza.
Le giovani Harper (Julia Butters) e Lily (Sophia Hammons) incarnano, invece, l’anima nuova del racconto, ma se la prima dimostra una verità emotiva profonda, la seconda è troppo spesso relegata a gag di contorno e spreca un po’ la potenzialità del personaggio.
Il film si intesse sulla nostalgia del primo originale in maniera ben dosata, omaggiandolo senza comunque indulgere nel fan service, una scelta che gli garantisce freschezza ed appeal anche per le nuove generazioni e non solo per i fan di lunga data. La cosa che emerge con forza è che lo scambio dei corpi non è solo una trovata comica, ma un modo per vedere la vita dal punto di vista dell’età dell’altro, una svolta narrativa che permette di esplorare l’empatia tra madri e figlie, nonne e bambine, con relativa profondità drammatica.
Questa ambizione, però, è a volte tradita da un impianto scenico sovraccarico: le sottotrame si accumulano, le gag diventano ridondanti, con una regia dall’estetica troppo piatta e poco definita.
Nonostante qualche sbavatura, il film funziona meglio nella seconda metà, dove il dispositivo dello swap generà sinceri momenti di umanità, specialmente tra Anna ed Harper, il che restituisce alla saga il suo cuore più autentico.
Il difetto principale? Quando il film tenta di essere troppo generazionale finisce per disperdere la sua coerenza interna. È un sequel “di cuore”, non troppo raffinato, ma capace di offrire un ponte tra vecchi fan e nuovi spettatori.
data di pubblicazione: 07/08/2025
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da Antonio Iraci | Ago 6, 2025
Nella tranquilla cittadina di Maybrook, in piena notte, tutti gli alunni di una classe elementare, ad eccezione di uno, si allontanano nello stesso momento da casa correndo verso una destinazione sconosciuta. Quando la mattina l’insegnante Justine entra in aula, solo Alex sarà presente. Interrogato più volte dai detective che hanno avviato le indagini, il bambino non fornisce alcun indizio del perché i suoi compagni siano spariti così misteriosamente nel nulla. Intanto sono in molti ad accusare di stregoneria la maestra…
Dopo l’imprevedibile successo al botteghino di Barbarian, che ha segnato il debutto alla regia di Zach Cregger, il regista statunitense si ripropone con Weapons ricalcando così il genere horror che gli aveva portato così grande fortuna. Lui stesso, in un’intervista, ha dichiarato che nello scrivere la sceneggiatura si era impegnato al massimo in uno script di cui non immaginava neanche da dove partire e soprattutto dove sarebbe arrivato. Senza entrare troppo nella trama, dove intervengono momenti di assoluto mistero e qualche traccia di splatter, si può ben dire che lo spettatore si troverà ben presto coinvolto emotivamente e trattenuto con una buona dose di suspense. Ottime le riprese e ottimo il montaggio che segue un ritmo incalzante. Il film è diviso in capitoli che seguono i diversi punti di vista dei protagonisti. Molto suggestiva la scena in cui i bambini escono di notte dalle proprie case e corrono verso qualcosa, come telecomandati da una forza soprannaturale.
Non è il caso di dire altro sulla trama per non svelare troppo e quindi far evaporare le legittime aspettative da parte del pubblico. Il film inizia con la voce narrante di una bambina che cerca di introdurre i fatti, si ritiene realmente accaduti, e come l’intera storia poi prenda il via nelle immagini vere e proprie. La piccola città di provincia è letteralmente sotto shock per la scomparsa dei bambini e subito viene sospettata la giovane insegnante Justine (Julia Garner). Probabilmente per il suo passato da alcolista e per la sua relazione poco chiara con un poliziotto della locale stazione di polizia che sta seguendo le indagini. Tra coloro che sono più convinti della sua colpevolezza si trova Archer Graff (Josh Brolin), padre di uno dei bambini scomparsi, che cercherà in tutti i modi di indagare per proprio conto.
Weapons vanta sicuramente un’ottima regia e, per le varie testimonianze ricavate nei singoli capitoli in cui è diviso, lascia il pubblico decisamente impreparato al finale. Questo rientra sicuramente nei canoni del genere di cui si tratta, ma proprio nell’epilogo sembra che il meccanismo debba proprio incepparsi. La conclusione risulta un poco confusa e spiazzante suscitando addirittura ilarità in alcuni momenti. Tutto ciò può essere considerato un po’ fuori luogo e rovinare l’atmosfera horror che il regista aveva cercato di creare fino a quel momento.
data di pubblicazione: 6/08/2025
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da Antonio Jacolina | Lug 29, 2025
Il Parco di Yosemite è il contesto selvaggio di una morte misteriosa su cui indaga l’agente Turner (E. Bana) assistito dalla giovane recluta Naya (L. Santiago). La sua inchiesta farà riemergere i torbidi segreti del Parco ed anche quelli del suo stesso passato e degli altri protagonisti…
Misterioso, singolare e spaesante UNTAMED è un polar asciutto e naturalistico firmato da M. Smith cosceneggiatore di The Revenant. La Serie si distingue soprattutto per la stupefacente ambientazione nell’incontaminato Yosemite. L’intrigo è coinvolgente e portato avanti sobriamente. Ciò che importa veramente sono i personaggi, gli sguardi, i silenzi e la durezza del quotidiano confronto con una Natura magnifica e brutale splendidamente filmata. Il paesaggio da semplice cornice ambientale assume progressivamente una dimensione del tutto diversa. E’ un personaggio a sé stante che sembra quasi agire ed interagire. Il modo con cui i protagonisti si confronteranno con la Natura circostante diverrà infatti essenziale nel corso dei sei episodi.
Sulla carta UNTAMED è un’idea originale. Si è già visto di tutto sugli agenti dell’FBI o della CIA, ma è la prima volta che al centro ci sono quelli dell’ISB, il corpo federale che indaga sui crimini commessi nei Parchi Nazionali statunitensi. Il punto di partenza è interessante, la vicenda e la location sanno poi catturare rapidamente lo spettatore. Si assiste così a due indagini parallele: la prima nel vasto territorio selvaggio di cui le inquadrature panoramiche ci restituiscono tutto l’aspetto incontaminato. La seconda, ben più profonda, esplora invece sia la psiche dell’investigatore, la sua ricerca di una pace interiore ed il fardello del suo passato, sia il tema più generale delle relazioni familiari, del dolore e della vendetta.
La serie fonde più Generi con abilità: percorre le atmosfere dei vecchi western, cita i Buddy Movie ed i Family Drama evitando sempre di cadere nei cliché. La storia è classica e la messa in scena è lineare ma la sceneggiatura ben scritta garantisce il giusto ritmo narrativo, tiene viva la curiosità e dosa abilmente suspense e colpi di scena fino alla fine. Dialoghi di qualità, mistero ed azione che si alternano con equilibrio danno infine alla serie, al di là dell’intrigo poliziesco, il giusto tocco di veridicità e intensità. Il cast è più che buono, Eric Bana senza eccedere in manierismi riesce a trasmettere le proprie emozioni interiori. Fra i ruoli di supporto spicca Sam Neil.
Non mancano certo i difetti propri della serialità: troppe sottostorie che confondono lo spettatore, spunti suggestivi che vengono troppo presto abbandonati e una lunghezza eccessiva. Pur con questi peccati veniali UNTAMED è però una Serie che merita di essere vista per la sua qualità ed originalità e … per Yosemite.
data di pubblicazione:29/07/2025
da Rossano Giuppa | Lug 29, 2025
(Casa del Jazz – Roma, 25 luglio 2025)
La Casa del Jazz nell’ambito della rassegna I Concerti nel Parco, ha ospitato Paola racconta Anna, uno spettacolo su Anna Magnani, in cui Paola Minaccioni si raffronta con intelligenza con la figura di Anna Magnani, icona romana per eccellenza, una delle interpreti più apprezzate del cinema di tutti i tempi.
È un racconto intimo e commuovente condotto con rispetto e responsabilità in perfetto stile Minaccioni, ripercorrendo alcuni momenti della vita della grande attrice, i successi e gli insuccessi, gli amori e le scelte.
Un percorso costruito attraverso i racconti personali e i fotogrammi della diva tratteggiati dagli amici, da Suso Cecchi D’Amico in particolare, intervallati da momenti tratti dai suoi esordi in teatro. Testimonianze e immagini di repertorio per raccontare la donna e l’attrice sapientemente uniti a meravigliosi testi di Pierpaolo Pasolini, Giuseppe Gioachino Belli, Mauro Marè, Sara Kane e Rodrigo Garcia, ed anche a canzoni di Gabriella Ferri e della stessa Anna Magnani, interpretati con energia e cuore dalla stessa attrice, che indossa per l’occasione un abito dell’archivio storico della maison Gattinoni appartenuto ad Anna Magnani ed è accompagnata sul palco dalle musiche originali dal vivo di Valerio Guaraldi eseguite da Claudio Giusti ai sassofoni, Giuseppe Romagnoli al contrabbasso, Matteo Bultrini alla batteria e dallo stesso Valerio Guaraldi alle chitarre.
Un lavoro straordinario svolto dalla Minaccioni congiuntamente a Elisabetta Fiorito, giornalista di Radio24, scrittrice e drammaturga.
Ne emerge un intenso lavoro che, non soltanto ha il pregio di riassumere in maniera credibile e puntuale la vita di un’attrice incredibilmente talentuosa, ma anche di rappresentare il ritratto di una donna forte, rivoluzionaria, femminista in grado di gestire il proprio patrimonio e al contempo debole, ossessiva nei suoi innamoramenti ma anche in grado di convivere con la solitudine e di imporre un modello che è andato al di là della bellezza e dei luoghi comuni di quel tempo.
La verve di Paola Minaccioni, le sue doti interpretative e la sua romanità autentica condivisa con la compianta attrice, rendono magico e coinvolgente il racconto che è anche un rispettoso omaggio a tutte le donne che pur in condizioni di solitudine affettiva hanno lottato e lottano per affermarsi per competenza e talento.
data di pubblicazione:29/07/2025
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da Antonio Iraci | Lug 28, 2025
Rebekah e Chris insieme ai figli Tyler e Chloe si sono da poco trasferiti in una bellissima casa in una zona residenziale. Dopo essersi sistemati, la ragazza inizia a sentirsi osservata da una presenza invisibile che lei stessa attribuisce a Nadia, l’amica recentemente scomparsa. Superato il comprensibile scetticismo iniziale, anche gli altri membri della famiglia si accorgeranno ben presto che qualcosa di soprannaturale aleggia per le stanze…
Dopo Black Bag, di appena pochi mesi fa, arriva nelle sale italiane l’attesissimo Presence, già presentato in anteprima al Sundance Film Festival dello scorso anno. Soderbergh sperimenta per la prima volta in tutto, quindi non solo per la regia ma anche per la fotografia e il montaggio, il genere ghost, manipolandolo però sostanzialmente e creando un’idea cinematografica tutta sua. Sin dalla prima scena, nella casa ancora buia e disabitata, lo spettatore in soggettiva insieme alla “presenza” si trova ad aggirarsi per gli spazi in un ampio piano sequenza. Le inquadrature, volutamente distorte dall’uso continuo del grandangolare, diventano essenziali per avere una visione dell’insieme e cogliere ogni minimo dettaglio scenografico. Geniale poi l’uso di intervalli regolari a schermo nero, funzionali a far riprendere fiato su ciò che si è visto e creare la suspense per la scena successiva. La sceneggiatura, ancora una volta affidata a David Koepp, apparentemente risulta rarefatta per dare spazio agli interventi del soprannaturale ma di fatto affronta temi molto profondi che coinvolgono in varia misura i singoli personaggi. Alla base c’è ancora una volta il tema della crisi all’interno della famiglia e dei rapporti interpersonali rimasti irrisolti. Rebekah (Lucy Liu) è una donna in carriera che non riesce ancora ad inserirsi nelle proprie dinamiche familiari e concentra la propria attenzione solo verso Tyler (Eddy Maday), il figlio sbruffone al quale rivolge le proprie confidenze. Chris (Chris Sullivan), sia nella veste di marito che di padre, deve ancora risolvere i propri problemi personali e soprattutto liberarsi del rapporto devastante con la propria madre. Infine ritroviamo Chloe (Callina Liang) distrutta per la perdita dell’amica del cuore e lei stessa stupita, più che spaventata, dalla sua presenza spirituale. Ed è proprio questa presenza che in fondo è l’unico deus ex machina che interviene per il bene, per proteggere chi più ha bisogno e per punire la malvagità. Al di là delle riprese e del montaggio perfetto, Soderbergh con Presence ha creato un film che riesce a calibrare le singole componenti per coinvolgere lo spettatore in prima persona. Lui stesso diventa così protagonista della scena, sa dove e quando intervenire per evitare il peggio e riportare il giusto equilibrio. In ogni istante si percepisce l’originalità del regista, la sua capacità di creare un’esperienza cinematografica unica e imperdibile.
data di pubblicazione:28/07/2025
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da Nadia Alese | Lug 28, 2025
Tiene la tensione dall’inizio alla fine questo horror dei fratelli australiani Philippou, che confermano le loro grandi capacità, grazie anche alla magistrale interpretazione di Sally Hawkins, che riesce a rendere umano l’inumano.
Al centro della storia due fratelli rimasti orfani che si ritrovano coinvolti in un inquietante rituale all’interno della casa isolata della loro nuova madre adottiva, in un’opera che indaga il lutto in modo squisitamente sofisticato ed emotivamente denso. Laura, la matrigna, (Sally Hawkins) è una donna la cui vacua tenerezza nasconde ossessioni sinistre, una madre che, consumata dal dolore, tenta di ricostruire l’affetto perduto, trasformando la casa in un santuario perverso. Andy (Billy Barrat) e Piper (Sora Wong), dal canto loro, non sono passivi spettatori ma pilastri emotivi della narrazione, il primo nelle vesti del protettore, seppure reduce da un’adolescenza traumatizzata, e la seconda con la sua visione parziale del mondo che ci insegna che la paura non dipende esclusivamente dal vedere. I fratelli Philippou sfoggiano una regia di altissimo livello, attentissima ai dettagli, in cui ogni elemento, da quello ricorrente dell’acqua come memento della morte, ai giochi di luce e ombre, di matrice junghiana, creano un’atmosfera claustrofobica, in cui ogni stanza si rivela un labirinto della mente, dove il non elaborato ritorna in forma mostruosa. Il gore abbonda, in scene forti anche per palati abituati, ma sempre perfettamente dosato con lo psico-horror, con la violenza fisica al servizio dell’afflizione emotiva. È un horror che rompe la promessa implicita del genere, quella di una risoluzione per quanto ambigua, lasciandoci nel limbo di un lutto che non sa morire. Rispetto al loro debutto (Talk to me), sempre sullo stesso tema, i Philippou virano da uno stile ipercinetico ad uno più controllato e stratificato, passando dal folklore da possessione a una vera e propria tragedia familiare in forma rituale. Se nel primo il trauma si esplicava in una grammatica adolescenziale, Bring her Back è più vicino ad una tragedia greca senza la speranza. È Antigone senza sepoltura. È Medea senza giustificazione. Per i cultori del genere è un’esperienza intensa da non perdere, contemporaneamente disturbante e profondamente riflessiva.
data di pubblicazione:28/07/2025
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da Paolo Talone | Lug 27, 2025
e con Manuela Kustermann, Francesca Mazza, Silvia Battaglio e Ilaria Drago
(Teatro romano di Ostia Antica, 18/19 luglio 2025)
Il mito antico rivive in chiave contemporanea al Teatro antico di Ostia nel Festival Il senso del passato, ideato da Luca De Fusco e prodotto dalla Fondazione Teatro di Roma con il sostegno della Regione Lazio e il Comune di Roma. Roberto Latini, dopo aver vestito a Siracusa e Pompei i panni di Oreste diretto da Roberto Andò nell’Elettra di Sofocle, è ora Antigone. Superando questioni di genere e ricoprendo il ruolo della protagonista, dirige sé stesso e un eccellente cast di attrici nell’Antigone di Jean Anouilh (traduzione di Andrea Rodighiero per Marsilio). Un’atmosfera notturna fa da sfondo al destino infausto della figlia di Edipo. Il dramma classico interroga il presente e le conseguenze dovute alla capacità di scegliere.
Esiste un luogo nella mente dove i pensieri prendono forma. Un luogo oscuro, attraversato da improvvisi bagliori di coscienza prima che le decisioni vengano prese. Un luogo dove la realtà appare deformata perché ancora non compresa. È in questo spazio mentale che Roberto Latini colloca la sua visione di Antigone nella riscrittura novecentesca di Jean Anouilh.
Il dramma, redatto quando la Francia era in parte sotto il controllo dell’esercito tedesco e i territori non occupati erano guidati dal governo collaborazionista di Vichy, venne portato sulla scena la prima volta nel 1944. Il nodo centrale della vicenda, trasportata nella modernità, rimane simile all’originale sofocleo. Creonte, uomo pragmatico e zelante nel governo di Tebe, vieta la sepoltura di Polinice, colpevole di essere insorto contro la città. L’atto isolato di resistenza di un giovane che attenta alla vita del primo ministro del governo francese suggerisce ad Anouilh il carattere della sua Antigone, che si ribella al comando dello zio Creonte. Il mito classico guadagna così in profondità psicologica. Il dubbio, insinuato dai conflitti mondiali, relativizza la verità che non è più un valore condiviso. Tutto si misura sulle esigenze del singolo individuo.
Antigone non è più una storia di buoni o cattivi e Latini sa cogliere questo aspetto in encomiabile rispetto del testo. Creonte e Antigone sono personaggi speculari e nella distribuzione delle parti non si tiene conto del sesso degli attori. Quello che interessa è l’agire umano nella sua universalità. Ogni traccia di sentimentalismo o realismo storico è eliminata a favore di una visione simbolica di un incubo notturno, esasperato dalle maschere di morte che indossano gli attori. Lo scenario neutro della didascalia diventa una strada di città, illuminata dalla flebile luce di lampioni elettrici. Speculari sulla scena si ergono la fermata di un autobus e una vecchia cabina telefonica. Anche gli attori recitano sulla scena distanti tra loro. Non si toccano quasi; ognuno fa i conti con la penosa solitudine a cui lo chiama il ruolo che ricopre.
L’ostinazione di Antigone a dare sepoltura al fratello, che per la penna di Anouilh assume la caratteristica di un capriccio adolescenziale (la ragazza ha più o meno vent’anni), nasconde in realtà motivazioni più profonde che non ci è dato conoscere. Agisce forse per puro senso di ribellione. Ma forte rimane un richiamo alla libertà e all’autodeterminazione (per anni, data la sua condizione di principessa, ha dovuto adeguarsi a un’educazione che altri le avevano imposto). La ribellione si realizza nelle ore dove il sogno si tramuta in incubo. Nelle prime ore del mattino, quando le immagini oniriche sono più vivide e la mente è sprofondata nel sonno. L’ora che precede l’alba è sempre la più grigia. Il sole non è ancora sorto a definire le cose. Creonte ha deciso di fare bene il suo mestiere; Antigone ha accettato il destino di morte. Tutti hanno insieme torto e ragione. Ma non importa da che parte stare. Ciò che importa è che le scelte fatte, e quelle non fatte, ci hanno portato lì dove siamo. Ad Antigone interessa l’integrità della scelta, non la comodità di una decisione presa da altri.
La regia chiede una disposizione all’introspezione. La capacità di trovare soluzioni interpretative che facciano venire fuori l’umano nei suoi aspetti astratti, di ragionamento, di sperimentazione. Il tappeto sonoro creato da Gianluca Misiti e gli effetti di distorsione dei microfoni amplificano quest’atmosfera interiore, traducendo in suono il rumore che fanno i pensieri quando si formano nell’inconscio. Così le luci di Max Mugnai, immancabile collaboratore alle creazioni artistiche di Latini insieme a Misiti. E quali attrici potevano meglio incarnare sulla scena questo aspetto se non quelle che Latini ha scelto di mettersi accanto? Manuela Kustermann, Francesca Mazza, Silvia Battaglio e Ilaria Drago.
Nella prossima stagione teatrale lo spettacolo sarà in scena al Teatro Vascello, produttore dello spettacolo insieme al Teatro di Roma.
data di pubblicazione:27/07/2025
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da Rossano Giuppa | Lug 26, 2025
(Teatro Argentina – Roma, 22/24 luglio 2025)
Nell’ambito di Teatro Ostia Antica Festival dal titolo Il senso del passato, è andata in scena dal 22 al 24 luglio, in prima mondiale al Teatro Argentina, Antigone la nuova creazione firmata da Alan Lucien Øyen, coreografo all’avanguardia nella reinvenzione dei linguaggi della scena. Una sinfonia di danza e parole, interpretata dai danzatori di Winter Guests, affiancati da alcuni danzatori storici del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch e da Antonin Monié dell’Opera di Parigi.
All’apertura del sipario un corpo pende impiccato al centro della scena. Sullo sfondo, sette pannelli di legno grezzo a rappresentare le sette porte di Tebe. La tragedia si è compiuta, la giovane Antigone si è tolta la vita, si era opposta alla tirannia dello zio Creonte che l’aveva sepolta viva per aver infranto la legge, in nome della morale religiosa che la spingeva a seppellire il defunto fratello Polinice, reo di aver tradito Tebe. A seguire i suicidi del fidanzato Emone ed Euridice, rispettivamente figlio e moglie di Creonte con il re resta solo a maledirsi lacerato nel rimorso. Arriva il cieco indovino Tiresia a svelare le aberrazioni della nostra cecità morale. E all’orizzonte appaiono i massacri, le guerre, tutti i mali del mondo, con riferimenti puntuali, dai militari che sparano per uccidere, alle madri che rovistano in cerca di cibo, al corriere di Amazon costretto a urinare nella bottiglia per rispettare i tempi di consegna.
Questa creazione, coprodotta da Winter Guests, Teatro di Roma e The Norwegian Opera and Ballet, che integra la danza contemporanea corporea e simbolica a parole e atmosfere dense e poetiche, con proiezioni video riprese con steadycam dal vivo, è un intreccio che analizza il mito per restituire una storia assolutamente contemporanea. Una donna che va contro il potere, che non si presenta come vittima, con la forza di portare avanti il suo obiettivo.
Le creazioni del coreografo norvegese, caratterizzate da una scrittura estetica e cinematografica, offrono al pubblico un’esperienza intensa, emotiva e immersiva. La prima parte si chiude con Tiresia che, chinando la testa, versa polvere sul corpo di Polinice per dargli sepoltura mentre la seconda si apre con gli attori che nel silenzio intonano versi di uccelli e di animali e richiamano il gesto universale di richiesta di aiuto delle donne in pericolo, il Signal for Help come monito alla tragedia di Antigone.
La seconda parte è un inno alla speranza. L’amore può vincere le ingiustizie? Mentre una rosa viene distrutta con il dolore, un’attrice fa leggere dei bigliettini al pubblico: remember to love, ricordati di amare. E la rosa in mano all’attore sul palco viene ricostruita petalo dopo petalo e offerta in platea.
Bellissimo il racconto fisico ed emotivo di tutti gli interpreti: i danzatori del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch (Douglas Letheren, Nazareth Panadero, Héléna Pikon, Julie Shanahan, Fernando Suels) Antonin Monié dell’Operà di Parigi ed Enoch Grubb, Pascal Marty e Meng-Ke Wugui della compagnia Winter Guests.
Una creazione profondamente umana e viscerale, che affronta tra violenza e destino, dilemmi irrisolti come la dignità, la complessità del potere e il costo della resistenza, in un contesto in cui luci e costumi disegnano un ambiente rarefatto e potente, in cui la lettura dell’antico acquisisce una forza tutta contemporanea.
data di pubblicazione:26/07/2025
Il nostro voto: 
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