da Elena Mascioli | Set 5, 2015
Tremano i polsi a scrivere di Francofonia, il film di Alexander Sokurov in concorso alla Mostra di Venezia 2015. Un timore reverenziale dovuto alle vertiginose altezze raggiunte dal film e da tutta la produzione artistica del regista russo, e di cui, da spettatori estasiati, sentiamo di cogliere un frammento di luce, di godere della riflessione ma anche della pura visione, con la consapevolezza di non essere in grado, forse, di prendere a piene mani tutte le citazioni e sollecitazioni che l’opera vorrebbe suggerire. Ma il regista ci viene incontro, e in una conferenza stampa gremita spiega che il suo film mira ad aiutare tutti noi spettatori a sentire, capire, reagire, mira a creare un subbuglio nella testa, un subbuglio del cuore e nel cuore. Perché – continua Sokurov – la forza del cinema è quella di rivolgersi ai cuori, ma soprattutto alle vostre anime. La ricerca del regista, per sua stessa affermazione, si è spostata dalla forma al significato, nel tentativo di trovare risposte ai quesiti con cui il nostro mondo si scontra. Le risposte semplici sono finite, le domande sono complesse e non hanno trovato risposta nei politici che non sono, o forse non sono mai stati in grado di fornire tali risposte. Non sono cambiati gli atteggiamenti, neanche da parte degli artisti, dei registi. Forse la scelta di mettere il proprio volto, la propria voce di narratore, da parte di Sokurov, all’interno del film, e non solo di far parlare l’opera artistica, è un segno di questa incessante volontà di impegno e ricerca in prima persona, con nuovi linguaggi, nuovi personaggi, come, in Francofonia, il Louvre. Sokurov, e i russi con lui, amano l’individualità delle culture diverse, dell’Italia, della Francia. Francofonia è una dichiarazione d’amore per la Francia, la sua individualità, i suoi valori…ma qui Alexander esita ed aggiunge: ma forse non esistono più. L’arte quale strumento di conoscenza – la pittura ci permette di capire noi europei – l’arte che va salvata dal naufragio cui assistiamo nei primi momenti del film, anche se la scelta tra la vita dell’individuo e l’arte stessa rimane una scelta soggettiva ad una domanda cui sembra impossibile dare risposta. Non resta che immergersi nelle immagini di repertorio, nelle splendide circumnavigazioni dei piani sequenza intorno alle opere del Louvre, nei costumi impregnati di ironia del Napoleone di turno o nella immaginazione di cosa accadde al Louvre mentre Parigi era città aperta, per regalarci un subbuglio del cuore. Astenersi spettatori in cerca di trama.
data di pubblicazione 05/09/2015

da Maria Letizia Panerai | Set 4, 2015
L’ultimo Gangster di Boston non poteva che essere interpretato dal trasformista per eccellenza, Johnny Depp. Attesissimo al Lido come la vera guest star di questa edizione del Festival meneghino, ci regala un’interpretazione di alto livello all’interno di una pellicola che rispecchia tutti i clichè per ottenere un ottimo risultato al botteghino e, per questo, anche intrisa di una serie di luoghi comuni che la rendono assolutamente prevedibile. Black Mass, basato sulla biografia del gangster James “Whitey” Bulger (attualmente 86enne che sta scontando due ergastoli), è il classico lungometraggio sul malavitoso dal cuore tenero, tutto crimine e famiglia, con un amico di infanzia agente speciale nell’FBI che lo fa agire indisturbato per aver condiviso con lui la strada e l’orgoglio da immigrato irlandese, tutto in cambio di informazioni sulle famiglie mafiose italo-americane che si spartiscono il territorio, ed un fratello maggiore senatore del Massachusetts.
Depp, che ci aveva già abituati a ruoli simili nei panni di Dillinger in Nemico Pubblico del 2009, questa volta fonde insieme trasformismo e recitazione conferendo al suo personaggio un certo spessore, all’interno di un film che non brilla certo di originalità, e durante la conferenza stampa dichiara di aver sempre ammirato la capacità di trasformarsi in attori del passato come Marlon Brando, volendo anche lui divenire un caratterista allo scopo di sorprendere il pubblico senza annoiarlo, sfida pericolosa per un attore ma importante.
data di pubblicazione 05/09/2015

da Elena Mascioli | Set 4, 2015
L’inverno del titolo è quello tra il 2013 e il 2014, il fuoco quello delle gomme e dei mobili bruciati per proteggere le barricate create dal milione di cittadini scesi in piazza, a Kiev, allo scopo di garantire un futuro alla nazione e alle giovani generazioni, ponendo fine ad un regime fintamente democratico, corrotto. Una protesta iniziata degli studenti per chiedere maggiore integrazione europea e poi sfociata in una rivolta contro la corruzione e lo stato delle cose in Ucraina. Una rivolta ormai nota come “della Dignità”, che ebbe piazza Maidan come luogo di svolgimento e simbolo. Il documentario non ci risparmia nulla, morti, feriti, persone scomparse, le storie di gente comune che decide di scendere in piazza perché sa che se non lo fa in quel momento non potrà farlo mai più. Le cariche della polizia e infine la fuga del presidente Yanukovic, la lotta sanguinosa, ancora una volta, per ottenere diritti fondamentali, tutto raccontato dalle immagini ma anche dalle voci dei veri protagonisti, che se ne fanno dunque anche narratori. Un documentario che colpisce al cuore portando alla nostra attenzione fatti così vicini e recenti che però forse abbiamo solo distrattamente seguito nelle notizie da 30 secondi. Molto efficaci le scelte musicali, che ci raccontano un paese attraverso la sua musica tradizionale, ed emozionante la voce unica di un milione di persone che canta l’inno nazionale a Piazza Maidan. Commossa tutta la delegazione del film davanti all’applauso, commosso e sentito del pubblico della Sala Grande. Da vedere munendosi di fazzoletti e voglia di saperne di più della nostra storia, del presente intorno a noi.
data di pubblicazione 04/09/2015

da T. Pica | Set 4, 2015
Italian Gangsters, a metà strada tra il documentario e il saggio, ripropone sul grande schermo uno spaccato della malavita nostrana di un tempo ormai perduto, in una sorta di tributo, quasi nostalgico, alla figura del criminale gentiluomo che ha segnato una parte della cronaca italiana tra la metà degli anni ’30 e la fine degli anni ‘60. In una realtà cinematografica, e non solo, che negli ultimi anni si è catalizzata sulle storie della criminalità del Meridione, la cinepresa di Renato De Maria ha montato, come in un collage, il copioso materiale video messo a disposizione dall’Istituto Luce per narrare la storia di alcuni giovani ragazzi, e delle loro rispettive bande, dediti al crimine tra Milano, Torino e Bologna. Si parla di banditi settentrionali doc – meno brutali e, per questo, meno noti rispetto a Vallanzasca – che negli anni del dopo guerra hanno mosso i primi passi di banditi in erba, parallelamente alla lenta ascesa dell’industria delle città in cui erano nati e cresciuti, fino al loro inesorabile declino tra la fine degli anni ’60 e gli anni ‘70. I racconti della banda Cavallero, Ezio Barbieri, Paolo Casaroli, Luciano De Maria, il bolognese Luciano Lutring e Horst Fantazzini, narrati in modo alternato per bocca di ciascun bandito attraverso i monologhi resi nella forma del teatro di posa dagli attori, tutti davvero bravi, presi in prestito al Teatro dal Regista, sono stati costruiti sulla base delle interviste che gli stessi malavitosi avevano rilasciato, all’epilogo delle loro “carriere”, a giornalisti come Idro Montanelli ed Enzo Biagi e dei giornali dell’epoca. Il tutto, poi, è movimentato e “colorato”, anche visivamente, dalle rocambolesche sequenze delle pellicole di genere, divenute veri cult, di Bava, Di Leo e Deodato in un continuo avvicendarsi con le immagini di repertorio e gli intensi primi piani dei banditi che ricordano le loro imprese, criminali e amorose. Buono l’accompagnamento musicale. Tuttavia il “docu-saggio” non suscita alcuna forma di reazione o coinvolgimento con le gesta di delinquenti ormai sbiaditi e poco pulp.
data di pubblicazione 03/09/2015

da Elena Mascioli | Set 3, 2015
La dilatazione del tempo e dello spazio sono i due assi cartesiani su cui si sviluppa Looking for Grace, il film australiano presentato in concorso. Se lo spazio dilatato è proprio dell’ambientazione del film, le grandi distese australiane della zona del cerchio del grano, quella del tempo è certamente una volontà della regista, anche se, per la verità, ella stessa non ha saputo dar gran conto delle proprie scelte in conferenza stampa. Alla domanda sull’evento finale del film, ha risposto che così è la vita, le cose accadono senza un perché. E il giornalista l’ha rimbeccata dicendo che si, è così nella vita, ma nella sceneggiatura che lei ha scritto, le cose accadono o non accadono per un perché! Uno a zero per la stampa. Ad un altra domanda sulla famiglia protagonista del film, molto sopra le righe e con comportamenti assurdi e distanze glaciali nei rapporti, la regista, cadendo dalle nuvole, ha ribadito la propria convinzione che le famiglie siano tutte così. Per fortuna la sappiamo in torto. L’elemento che poteva essere interessate è la scelta di raccontare, in sequenza, antecedenti della storia comune , ad illustrare i singoli protagonisti nel loro percorso fin lì, fino al punto in cui le strade si incrociano. Ma, dopo aver visto lo splendido uso del flashback, prima sonoro e poi visivo, del film di Prà, Un mostro de mil cabezas, con cambio del punto di vista narrante, espediente che conferiva al film un ritmo strepitoso, il tentativo della Brooks sembra piuttosto ingenuo e non sempre riuscito secondo le intenzioni. Non manca qualche risata da battute degne dell’umorismo nordeuropeo, ma il risultato generale si avvicina più o meno alla sufficienza. Looking for the next.
data di pubblicazione 03/09/2015

da Accreditati | Set 3, 2015
Basato su una storia vera il film di Thomas McCarthy, presentato a Venezia nella Sezione fuori concorso, narra di un gruppo di giornalisti investigatori appartenenti alla sezione denominata Spotlight (tutt’oggi esistente) del quotidiano locale The Boston Globe. È l’estate del 2001 quando il neo direttore (Liev Schreiber) decide che la Spotlight deve accantonare le indagini giornalistiche in corso per riaccendere i riflettori su alcuni casi di abusi su minori susseguitisi una trentina di anni prima nella loro comunità ad opera di alcuni prelati, e segretati dall’omertà di alcuni componenti di spicco della società cattolica bostoniana. Coordinati da Walter Robinson “Robby” (Michael Keaton), nel gennaio del 2002 il gruppo Spotlight riuscirà a rendere di pubblico dominio la storia di un sistema di protezione attuato da un gruppo di avvocati nei confronti di alcuni sacerdoti della diocesidi Boston.
Il film di McCarthy è di estrema attualità e punta il dito non solo sull’inefficacia delle rare misure adottate dalla Chiesa nei confronti delle sue mele marce, ma soprattutto sulle violenze, oltre che fisiche anche di fede, arrecate a bambini affidati alle cure di sacerdoti, veri e propri padri spirituali, che in questo modo hanno doppiamente violentato le proprie vittime.
Ben interpretato, incalzante e realistico, non banale né retorico, in Spotlight spicca l’interpretazione di Mark Ruffalo, che in conferenza stampa ha manifestato uno spirito in linea con le sue battaglie da attivista in campagne di rilevanza politico-sociali. Sicuramente da vedere, sia per lanciare il messaggio di un ritorno al giornalismo libero ed investigativo che oramai in America è di appannaggio solo di pochi professionisti finanziati da privati, sia per invitare ovviamente la Chiesa a fare chiarezza.
data di pubblicazione 03/09/2015

da Antonella Massaro | Set 3, 2015
Beasts of No Nation scrive un capitolo di indubbio impatto narrativo nel variegato “racconto della realtà” proposto dalla 72^ edizione del Festival della Laguna. Il piccolo Agu (Abraham Attah) vive con la sua famiglia in un villaggio dell’Africa occidentale. Si diverte a giocare alla “TV dell’immaginazione”, fino a quando l’irrompere della guerra civile lo deruba del suo sorriso, dei suoi sogni, della sua fede. Separato dalla madre e testimone della spietata esecuzione del padre, Agu, si imbatte in un gruppo di guerriglieri. Il carismatico e dispotico Comandante (Idris Elba) si offre di salvargli la vita, condannando in realtà la sua anima a una morte tanto lenta quanto inesorabile, ammantata dalla “divisa” sempre più appariscente di un intrepido bambino soldato. Un racconto duramente esplicito, che esalta il non senso della guerra seguendo la parabola del gruppo guidato dal Comandante e la metamorfosi che lentamente si disegna nello sguardo dello straordinario protagonista. Abraham Attah, in conferenza stampa, precisa di non aver provato paura, ma solo tristezza, durante la realizzazione delle sequenze più violente, la cui lavorazione, assicura il regista, è stata estremamente frammentata rispetto al risultato finale, anche al fine di tutelare gli interpreti più giovani. L’obbedienza che sconfina in un soggiogamento fisico e psichico, rafforzato dall’allucinazione delle droghe e in grado di guidare le non più innocenti mani dei baby guerriglieri nella commissione di atroci violenze e di peccati inconfessabili: anche se un giorno la guerra finirà, Agu non tornerà più il bambino che era.
Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Uzodinma Iweala, è divenuto un caso mediatico ben prima del suo approdo al Lido. Il regista Cary Fukunaga (Sin nombre, Jane Eyre) ha diretto la prima stagione dell’acclamata serie televisiva True Detective, confermando quanto proficui e trafficati siano di recente i canali di dialogo tra piccolo e grande schermo e restituendo a volte la sensazione di un’autentica inversione nei reciproci rapporti di forza e di autorevolezza. Il binomio cinema-tv è completato da internet, definendo i contorni di una triade che sta gradualmente dispiegando il proprio potenziale dominio sul mercato audiovisivo: Beasts of No Nation è infatti un film targato Netflix, colosso della tv in streaming, che si concede l’inedito lusso dello schermo della sala Darsena prima di confondersi tra i cristalli liquidi di qualche dispositivo portatile. In conferenza stampa il regista chiarisce che l’intervento di Netflix, avvenuto solo in fase di montaggio, non ha influito in maniera significativa sulla lavorazione del film. Riuscirà il cinema a cavalcare la virtuosa onda del web senza restarne travolta? Ai cineasti e al mercato l’ardua sentenza.
data di pubblicazione 03/09/2015

VOTO: CI HA CONVINTO
da Maria Letizia Panerai | Set 3, 2015
Inaugura la Sezione Orizzonti della 72^ Mostra di Venezia il film di Rodrigo Plà. Una donna, con un figlio adolescente e un marito gravemente malato, si trova a dover lottare contro il “mostro dalle mille teste” rappresentato dalla burocrazia e dalla corruzione, sintomi di una società altrettanto malata e basata su regole violente che non possono che scatenare a loro volta violenza. Sonia Bonet, dopo l’ennesima quasi fatale crisi del marito malato di cancro, tenta di mettersi in contatto con il Professore che lo tiene in cura; ma questi non vuole riceverlo prima dell’appuntamento già fissato di lì a un mese. La donna insiste e tenta di avere subito un incontro, ma scopre che il professore si fa negare e quindi decide di affrontarlo. Il medico in realtà non vuole più prescrivere al marito della donna dei farmaci che, seppur in grado di alleviarne le sofferenze, essendo molto costosi non sono coperti dalla loro polizza sanitaria; si scoprirà anche che il grande gruppo assicurativo di cui fa parte il medico ha tra i propri regolamenti interni, assolutamente top secret, il riconoscimento di bonus a quei professionisti che riescono a raggiungere una certa percentuale di pratiche di rifiuto nel prescrivere cure a persone del ceto medio che non possono permettersi di pagare premi assicurativi molto elevati.
Il film, girato in modo molto interessante mostrando ogni scena dal diverso punto di vista dei vari protagonisti con l’accompagnamento di commenti musicali che fanno presagire l’arrivo imminente di una tragedia, è un’immagine spietata della nostra società contemporanea che non ha più nulla di umano, al punto da porci violentemente di fronte alle regole di un sistema cieco che riduce gli esseri umani a belve feroci, anche se per urlare al mondo i propri diritti. Solo l’abbraccio di un’infermiera e la comprensione di un poliziotto ci richiamano ad uno scenario di “normalità”…
data di pubblicazione 03/09/2015

da Antonella Massaro | Set 3, 2015
Basato su una storia vera. L’indicazione che compare nell’incipit di Everest, film di apertura della 72^. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, lascia emergere quel fil rouge del Festival insistentemente evidenziato dal Direttore Barbera fin dalla conferenza stampa di luglio: il legame con la realtà, in grado di attribuire alla storia il crisma dell’emozione autentica, sia pur conferito in questo caso con i pregi e difetti dello stile hollywoodiano.
La “storia vera” che l’islandese Baltasar Kormákur sceglie di affidare alla trasfigurazione del grande schermo, datata 1996, è ambientata sulla catena dell’Himalaya: la “scalata organizzata” diviene una moda di lusso rivolta a un pubblico di alpinisti non professionisti, motivati a sfidare il rischio del non ritorno da ragioni che, sia pur muovendo dalle prospettive più disparate, finiscono per convergere verso un unico punto di fuga.
Due diverse spedizioni, guidate da Rob Hall (Jason Clarke) e Scott Fischer (Jake Gyllenhaal), si congiungono nell’ardito tentativo di condurre le proprie eterogenee squadre sulla vetta dell’Everest: 8.848 metri, la quota di crociera di 747, per provare a volare senza avere le ali. La risposta alla domanda “Perché?” non né automatica né scontata: si va perché si può, “testa bassa, passo dopo passo”, visto che in fondo conta più l’attitudine che l’altitudine e visto che, soprattutto, “now or never”. Il desiderio di superare i limiti imposti dalla biologica condizione di essere umano divengono una sfida con il proprio “io” inteso in una dimensione più ampia. Se però la poesia dello sport come specchio dell’introspezione individuale si incontra e si scontra con le logiche del mercato e del profitto, si rischia di finire in fila ai piedi del tetto del mondo come alle casse del supermercato di quartiere, smarrendo la capacità di comprendere fino in fondo il mistero della Natura e di fronteggiarne la conseguente Nemesi.
L’esibizione “iperrealistica” propria del 3D, unita all’assordante bufera del sonoro, conduce lo spettatore sui sentieri spettacolari della vertigine da capogiro, restituendo a tratti l’impressione di restare travolti dallo sferzante impatto dei cristalli di ghiaccio, mentre l’aria diviene sempre più insopportabilmente rarefatta.
C’è tanta Italia nel set di Everest: dalla Dolomiti agli Studi di Cinecittà, che compongono il mosaico insieme ai Pinewood Studios e reali paesaggi del Nepal.
Pur cedendo talvolta alle lusinghe del cliché del “genere alta tensione”, enfatizzato da una retorica melodrammatica pressoché inevitabile, Everest conferma le aspettative: un film di star e da botteghino, impreziosito da interpretazioni “minori” d’eccezioni, come quella di Keira Knightley, Emily Watson e Robin Wright; ma anche una riflessione sull’eterna e irrisolta storia di Icaro, sorpreso e “scottato” dell’ebbrezza del volo.
Data di pubblicazione 03/09/2015

da Elena Mascioli | Set 2, 2015
“Non ne parlo mai, perché parlare di film invisibili è una sorta di lutto”. Queste le parole di Orson Welles a proposito de Il mercante di Venezia, film incompiuto e poi, apparentemente perduto anche nei suoi frammenti, fino a ieri in Sala Darsena, a Venezia. Una grande anteprima, dunque, per la serata del primo settembre 2015 al Lido, per la 72 ^ Mostra del cinema di Venezia, con la proiezione di ciò che si è riusciti a ritrovare, restaurare, e ricostruire grazie alla collaborazione di Cinemazero presso la Cineteca del Friuli, Cinemateque Francaise, il Filmmuseum di Monaco di Baviera e la Cineteca di Bologna. Una ricostruzione ottenuta sostituendo il rullo sonoro perduto con la registrazione di un Mercante di Venezia diretto e recitato a teatro dello stesso Welles. Ad aprire la serata, destinata come da tradizione, per la gran parte, al pubblico di Venezia, tramite i coupon comparsi sui quotidiani locali, il saluto del presidente della Biennale, Paolo Baratta, e del direttore artistico del settore cinema, Alberto Barbera. A seguire, nella sua prima esecuzione dal vivo a cura dell’orchestra classica di Alessandria, la partitura originale inedita del Mercante di Venezia di Angelo Francesco Lavagnino, autore delle musiche di molti film “shakespeariani” di Welles. Il successivo regalo fatto al numeroso pubblico accorso è stata poi la proiezione dell’Otello di Welles, nella versione doppiata in italiano che nel 1951 avrebbe dovuto concorrere al Lido. La copia, all’epoca, non arrivò. Qualcuno degli addetti al settore storceva il naso, ieri sera, sulla versione doppiata, e normalmente concordo, ma la voce e l’interpretazione del doppiatore Gino Cervi sono riuscite a rendere profondamente la forza dello sguardo di Welles e delle parole del Bardo.
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