da Accreditati | Nov 15, 2014
Sabato Domenica e Lunedì è una commedia di Eduardo ma anche un film per la TV di Lina Wertmuller, grande regista di cinema con alle spalle indimenticabili trascorsi televisivi, basti ricordare Il giornalino di Gian Burrasca (1964) con Rita Pavone e Bice Valori. La vicenda narrata nel film è abbastanza fedele al testo teatrale e prende a pretesto un fine settimana in casa dei coniugi Peppino e Rosina Priore (Luca De Filippo e Sophia Loren), per parlare delle incomprensioni accumulate dai due in trent’anni di matrimonio. E’ sabato, e mentre Rosa è affaccendata nella preparazione del suo famoso ragù, suo marito Peppino dimostra molto nervosismo con tutti ed in particolare con lei; l’indomani, al pranzo domenicale, vengono invitati anche il vicino di casa Luigi Ianniello (Luciano De Crescenzo) e sua moglie: Luigi, grande amico di Peppino, è sempre molto galante con la padrona di casa esaltandone in modo particolare le qualità culinarie, ma Peppino questa volta sembra non sopportare tanta gentilezza e davanti a tutti i presenti si lascia andare ad una memorabile scenata di gelosia, che sconcerta non solo il mal capitato amico e la moglie, ma anche tutti gli altri commensali. Rosina reagisce con molta veemenza alle illazioni del marito geloso, sino ad avere un leggero malore (bravissima la Loren in questa scena quando, davanti gli sguardi increduli di tutti, si mette china sui pavimenti della sala da pranzo e simula come li ha lavati per trent’anni). Il lunedì, “passata la nottata”, sarà giorno di riflessione, pentimento e chiarimenti tra i coniugi Priore.
A questo punto, la nostra domanda è: esiste la ricetta del vero, originale ragù di Rosina Priore? No, non esattamente. Diciamo che ci sono delle “regole generali” per prepararlo, ma poi ognuno ci mette di suo. La presenza della passata di pomodoro e del concentrato di pomodoro sono d’obbligo, ovviamente. Si alla cipolla, no al trito sedano/carota/cipolla, no all’aglio. Originariamente la cipolla si faceva consumare nello strutto, ora sostituito dall’olio extravergine di oliva: può passare. No al basilico, non ci va; si a qualche foglia di alloro. Per quanto riguarda i tagli di carne da utilizzare, questi variano da famiglia a famiglia. Molti hanno modificato, aggiunto e sottratto alcune tipologie di carni per il gusto personale. Sicuramente nel ragù non ci va la carne tritata, quella è un’altra cosa. Generalmente si utilizza la carne di manzo, la cosiddetta “corazza” o “biancostato”. Molti aggiungono braciole (meglio se di lòcena, farcite con un trito di prezzemolo, aglio a pezzetti piccolissimi, parmigiano grattugiato o pecorino, uva passa e pinoli), braciole di cotenna, nervi ecc… Ce ne sono anche di realizzati con salsiccia e polpette. Il ragù attraversa tre fasi: inizialmente si “tira” la cipolla con l’olio o la sugna, poi si rosola la carne, in ultimo si aggiungono concentrato di pomodoro e passata di pomodoro oppure i pelati passati al passaverdure, e si lascia “pippiare” dalle quattro alle sei ore ed oltre. Fatelo la sera prima, riposato è ancora più buono!!
INGREDIENTI (per il ragù napoletano – o’ Ragù): 700 gr di corazza tagliata a pezzi da 4 o 5 cm di lato – 2 braciole di lòcena farcite con prezzemolo, parmigiano o pecorino, uva passa , aglio e pinoli – un paio di “tracchiulelle” o “puntine” di maiale – una cipolla – 6 cucchiai di olio – un bicchiere di vino rosso – 2,5 litri di passata di pomodoro – 140 gr di concentrato di pomodoro.
PROCEDIMENTO: Tritare finemente la cipolla e versarla in un tegame, meglio se di coccio, unitamente all’olio. Dopo un paio di minuti aggiungere la carne e farla rosolare. Questa è una fase molto delicata, bisogna girare spesso la carne e fare in modo che la cipolla non bruci ma si “consumi”. Quando la carne è rosolata e la cipolla è trasparente, sfumare con il vino e continuare la cottura fino a che lo stesso non sia evaporato. Aggiungere il concentrato di pomodoro e continuare a far “tirare” il tutto in pentola, alla fine aggiungere la passata di pomodoro, abbassare la fiamma al minimo possibile, coprire
lasciando il cucchiaio di legno tra la pentola ed il coperchio e farlo cuocere lentamente, “pippiare” per sei ore ed oltre.
Girare spesso il ragù al fine di non farlo attaccare alla pentola. Alla fine vi troverete una salsa densa, i grassi saranno affiorati in superficie ed avrà un colore rosso scuro, molto intenso. Ci andrebbero conditi i classici ziti spezzati, formato ideale di pasta da usare con il ragù, ma anche degli splendidi paccheri vanno bene. Ovviamente, in barba alle regole del galateo, è assolutamente obbligatoria la scarpetta finale, anche se, nelle sei ora di cottura, è facile che qualcuno abbia giocato d’anticipo intingendosi un pezzo di pane!
da Antonella Massaro | Nov 15, 2014
Al Teatro Due di Roma, dall’11 al 30 novembre 2014, torna in scena Come restare vedove senza intaccare la fedina penale, scritto da Stella Saccà, con la collaborazione di Luca Manzi (tra gli ideatori della serie televisiva Boris), al quale è affidata anche la regia.Gli Accreditati, presenti alla prima dello spettacolo, si sono trovati piacevolmente immersi in una serata scandita da battute fulminee e fulminanti, da momenti di introspezione e retrospezione, da un gruppo tenuto insieme da passione e professione.Quattro donne sulla scena (Beatrice Aiello, Camilla Bianchini, Serena Bilanceri, Stella Saccà). Quattro uomini evocati dalle loro storie. Quattro destini che si incrociano su Facebook. Quattro sogni che non si rassegnano alla disillusione. Quattro sconosciute che diventano amiche. Il piano è apparentemente semplice: ciascuna ucciderà il marito di una delle altre. Ma si sa che i piani apparentemente semplici sono quelli destinati a rivelarsi tremendamente complicati. Un intreccio che si svolge piacevolmente, con delle “parentesi talent” che strappano l’applauso a scena aperta.Un teatro da incoraggiare. Un teatro da scoprire.
data di pubblicazione 15/11/2014
Il nostro voto: 
da Elena Mascioli | Nov 15, 2014
(Festival di Cannes – In Concorso)
Alla supplica di morettiana memoria, Dì qualcosa di sinistra, rispondono splendidamente i Fratelli Dardenne, con il loro film Due giorni una notte, ovviamente parlando di sinistra in senso astratto, pensando in particolare ad una parola come solidarietà. Lineari, nelle tesi esposte e nelle rappresentazioni, limpidi, oserei dire, misurati nella realizzazione ma ricchissimi, come sempre, nel risultato (con l’aiuto di una splendida Cotillard!), i Dardenne restringono le dimensioni spazio- temporali della narrazione, circoscrivendole a due giorni e una notte e allo spazio fisico e umano dei colleghi della protagonista, per dilagare e penetrare in profondità nelle pieghe della nostra società, della condizione del lavoro e dei lavoratori, ma, soprattutto, della persona, che è e deve essere, contemporaneamente, pianeta che ruota su stesso ma anche attorno ad altre stelle, parte di un sistema solare. Il quadro dipinto ci restituisce la triste immagine di una condizione, di un universo, quello lavorativo di una società ormai perennemente in crisi, economica, finanziaria e valoriale, in cui alla persona viene richiesto, dalla situazione, di scegliere tra l’essere singolo e l’essere membro di una comunità, tra la propria salvaguardia (in termini minimi, lavorativa, di sussistenza, sopravvivenza) e il famigerato bene comune, il bene di un altro membro della comunità. Quella che i telegiornali chiamerebbero una guerra tra poveri, e che invece i Dardenne ci restituiscono come una lotta, una battaglia personale, con se stessi, le proprie debolezze, paure, malattie, in un percorso che diventa scoperta di dialogo con l’altro, di conoscenza delle miserie altrui, di solidarietà trasversale o di rifiuto. E ciò che conta, alla fine, è semplicemente “aver preso parte”. Libertà è partecipazione, cantava Gaber. Assolutamente da non perdere.
data di pubblicazione 15/11/2014
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da Maria Letizia Panerai | Nov 13, 2014
Diretto ed interpretato dal grande Nanni, Bianca è una commedia dai risvolti amari che racconta la strampalata storia di Michele Apicella, insegnante di matematica nell’istituto sperimentale Marilyn Monroe ed innamorato della professoressa di francese Bianca; Michele è un perfezionista eccessivo, osservatore ossessivo delle altrui abitudini, catalogatore di coppie di amici che tiene costantemente sotto controllo nonché di individui anche in base alle scarpe che indossano, ideatore di un ordine corretto delle cose a cui tutti dovrebbero rapportarsi. Ma di questo film, decisamente da rivedere perché “avanti” come tutte le pellicole del regista, due sono le scene cult che tutti ricordano: quella in cui Nanni Moretti è nudo davanti ad un mega barattolo di una famosa crema da spalmare al cioccolato in una notturna crisi di astinenza e quella in cui, durante un pranzo, Apicella rivolge ad un commensale la seguente frase: …Lei, praticamente, non ha mai assaggiato la Sacher Torte? No. Va bè. Continuiamo così, facciamoci del male! Questa ricetta di cioccolatini artigianali facili da fare, ma gustosi e di grande effetto visivo, è dedicata a chi ama Moretti ma, soprattutto, a chi ama profondamente il cioccolato.
INGREDIENTI: 500 gr. cioccolato extra fondente – ½ confezione di riso soffiato – 20/30 pezzetti di candito all’arancia – 30 pirottine circa per cioccolatini; PER DECORARE I CIOCCOLATINI: qualche nocciola – qualche pistacchio sgusciato non salato – qualche acino di uva sultanina di varie dimensioni – qualche pinolo – qualche gheriglio di noce – qualche mandorla pelata.
PROCEDIMENTO: Mettete a sciogliere il cioccolato extra fondente rigorosamente a bagnomaria ed a fuoco moderato, sino a quando sarà completamente liquido. Spegnere il fuoco ed aggiungere il riso soffiato (il quantitativo è molto soggettivo: se comperate una busta al supermercato, circa la metà); mantenete la pentola a bagnomaria per non far rapprendere il cioccolato ed aggiungete qualche pezzetto di candito all’arancia (fate a pezzettini uno di quei canditi interi e non usate quelli a dadini del supermercato: la differenza è abissale!). Girate per amalgamare e finché il composto è ancora caldo con molta pazienza riempite i pirottini, disposti precedentemente su di una leccarda, usando un cucchiaino. Man mano che li riempite adagiate su ognuno di essi gli ingredienti consigliati per la decorazione (si consiglia di fare prima tutti quelli ad esempio con le nocciole, poi tutti quelli con i pistacchi, poi tutti quelli con le uvette… e così a seguire tutti gli altri). Una volta freddi a temperatura ambiente potrete adagiarli in una scatola di latta o in un vassoio. Il gusto di fondo è lo stesso ma la decorazione farà la differenza sia visiva che sulle papille gustative. Consigliati per chi ama molto il cioccolato e …non ne può fare a meno!
da Antonio Iraci | Nov 11, 2014
(Festival Internazionale del film di Roma – Cinema D’Oggi)
Con il meraviglioso ed espressivo sguardo di Emir Kusturica nel vuoto di fronte alla morte, non poteva che far presa sullo spettatore le note del Requiem di Mozart…Claudio Noce, giovane regista romano, al suo secondo lungometraggio anche se già vincitore di importanti premi cinematografici, sembra essere perfettamente a suo agio non solo nei luoghi del trentino, dove la storia si dipana tra ghiacci e venti gelidi, ma anche a dirigere un artista poliedrico del calibro di Kusturica che solo come regista ha vinto due palme d’oro a Cannes, in un personaggio che sembra proprio sia stato concepito e scritto per lui. Molto convincenti anche le interpretazione di Adriano Giannini e di Ksenia Rappoport che si muovono nei loro personaggi con sorprendente e convincente bravura. In un triangolo nevralgico, Italia-Bosnia-Slovenia, si intrecciano traffici poco chiari tra rifugiati e commercio di schiavi. Una enorme diga segna una sorta di confine, forse uno sguardo verso la libertà. La presenza di un orso, che nessuno ha mai visto, è il pretesto che spinge Lena (Rappoport) ad indagare su quel mistero che avvolge tutto. Forse una incombente tempesta riuscirà a cancellare ed a rendere indistinguibile ciò che è già difficile vedere…..
data di pubblicazione 11/11/2014
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da T. Pica | Nov 11, 2014
(Festival Internazionale del Film di Roma – Gala)
Il film Tre Tocchi di Marco Risi regala al pubblico un racconto a tratti dispersivo degli uomini e dei ragazzi del Cinema italiano che provano per affermarsi come gli eredi di Manfredi e Gassman. Si tratta delle storie, in parte vere, condivise con il regista da un gruppo di attori in occasione delle partite di calcio della squadra attori fondata a Roma da Pasolini. Da un lato, i quarantenni che, dopo l’Accademia, anni di teatro e il successo ormai svanito di qualche fiction che va in replica sui canali satellitari, devono ripiegare sui casting per spot pubblicitari e, dall’altro, i trentenni bramosi di gloria che per avere tutto e subito, scendono a compromessi e ricadono nei soliti cliché. A riflettere la comune insoddisfazione e le incertezze dei protagonisti c’è il Padre nostro che, come una litania, accompagna e guida l’intero film: in realtà si tratta semplicemente delle battute che ossessionano i protagonisti, nella disperata ricerca della convocazione per un provino che potrebbe segnare la loro svolta artistica. Ovviamente, l’epilogo è amaro, soprattutto per i sopraggiunti limiti di età dei due attori quarantenni che, disincantati e un pò smarriti, si interrogano sul senso della propria vita e si dimenano tra dolori familiari irrisolti, qualche rimpianto e il secondo lavoro da cameriere. Insomma, tanta amarezza sorregge un groviglio di storie frammentate, che talvolta si perdono in divagazioni superflue, all’insegna di una visione arida e machista del mestiere di attore, in cui gli ostentati nudi e la presunta forza brutale degli attori, calciatori e boxer nel tempo libero, prendono il soppravvento sul sacro fuoco dell’arte, sulla sensibilità e i sentimenti. Il mestiere dell’attore pare appunto debba ruotare introno ai “tre tocchi” del giuoco del calcio, concetto avvalorato dall’assenza della donna “attrice”; ed anche se poi sul finale del film quei “tre tocchi” sono rivisitati in chiave opposta alla virilità ostentata lungo l’intera pellicola, e seppur il film rimane fedele ai ritratti amari firmati Risi (il quale cita Moretti con le parole sono importanti e rispolvera la sedia del Regista Fellini), non riesce comunque a centrare l’obiettivo e non ci fa entrare in empatia con i protagonisti, sebbene interpretino sé stessi con i loro nomi veri, lasciandoci ancora troppo nostalgici per gli attori italiani del passato.
data di pubblicazione 11/11/2014
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da Maria Letizia Panerai | Nov 11, 2014
(71ma Mostra del Cinema di Venezia- in Concorso)
In una cittadina della provincia francese, l’ispettore delle imposte Marc (Benoìt Poelvoorde), dopo aver perso il treno per Parigi entra in un bar per chiedere informazioni su un albergo dove passare la notte; lì incontra una giovane donna, la misteriosa Sylvie (Charlotte Gainsboug) e passeggia con lei sino all’alba; nel salutarsi, i due si danno appuntamento per la settimana successiva a Parigi, in un punto preciso dei giardini de la Tuileries, ma per strani capricci del destino, come i capricci che ogni tanto fanno tumultuare il cuore del cardiopatico Marc, i due non si incontreranno. Dopo qualche tempo, Marc conosce la fragile Sophie (Chiara Mastroianni): i due decidono presto di sposarsi, ma a pochi giorni dal matrimonio l’uomo scoprirà che Sophie è la sorella maggiore di Sylvie. Sarà la madre delle due donne (Catherine Deneuve), a capire “tutto” prima di loro.
Con un cast di alto livello, che si muove in un clima palpitante e fosco marcato costantemente da un motivo musicale da thriller, che sottolinea anche i problemi cardiaci del protagonista, Tre cuori di B. Jacquot ha tuttavia proprio la pecca di un’ambientazione da “imprevisto sempre in agguato”, che non è poi seguita da una reale imprevedibilità degli eventi, a causa anche delle troppe affinità della pellicola con Sliding doors, di Peter Howitt, in cui la vicenda della protagonista si sdoppia in due destini paralleli e separati, uno a lieto fine romantico e l’altro drammatico.
Di questo melò francese, un po’ algido e distante, è comunque da apprezzare l’idea di base, sicuramente originale, in cui il cuore ed il numero tre si rincorrono continuamente: tre sono i cuori di donna, con al centro una madre che continuamente tenta di pilotare la vita affettiva delle figlie, e poi c’è un triangolo amoroso, con la centro la figura di un uomo malato di cuore. Sta allo spettatore scegliere il finale.
data di pubblicazione 11/11/2014
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da Antonella Massaro | Nov 11, 2014
Dal 7 all’11 novembre 2014 Roma ospita le proiezioni di Arcipelago – Festival internazionale di cortometraggi e nuove immagini. I luoghi della manifestazione sono quelli di un quartiere dall’intramontabile suggestione come Garbatella, con i suoi due teatri, il Palladium e l’Ambra, che offrono il palcoscenico a un cinema a cui solo raramente viene concessa la ribalta.
Il 9 novembre, anniversario dei 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, il Festival ha reso omaggio a una data così recente eppure così lontana attraverso due proiezioni inserite nell’evento Da Kreuzberg a Garbatella. Il Muro che (non) c’è: Berlin spricht Wände (2013) di Markus Muthig e Die Mauer (1991) di Jürgen Böttcher.
La serata è proseguita con la proiezione dei film inseriti nella Sezione The Short Planet – Concorso internazionale Cortometraggi e Nuove Immagini.
La storia, il ritmo e gli effetti speciali di The Nostalgist (Giacomo Cimini), impreziositi dalla interpretazione di Lambert Wilson, non hanno nulla da invidiare al cinema di serie A.
Simone Massi, “animatore resistente” e creatore di quella sigla di apertura del Festival di Venezia che lascia puntualmente senza fiato gli Accreditati di ogni ordine e grado, incanta con L’attesa del maggio, proiettato anche a Venezia 71.
Újratervezés di Tóth Barnabás stupisce e commuove per l’efficacia con cui riesce a descrivere l’amore, quello vero, quello che non si lascia imprigionare in un aforisma da cioccolatino, mentre il dissacrante Supervenus di Frédéric Doazan fa sorridere amaramente sul mito della bellezza a ogni costo.
L’impressione, detto altrimenti, è quella di un Festival di tutto rispetto, che tuttavia non pare supportato né dal pubblico né da un’organizzazione in grado di valorizzare tutto quello che di buono c’è in un programma (giustamente) ambizioso. Il Palladium era quasi vuoto e il previsto reading letterario di Michele Alaique è stato sostituito da un contributo audiovisivo dalla qualità tecnica assolutamente inadeguata, come del resto evidenziato dagli stessi organizzatori.
Il cortometraggio dovrebbe essere traghettato fuori dalla ristretta cerchia di amici, parenti e appassionati che non hanno di meglio da fare la sera. È una sfida ancora aperta. E ben venga chi, come Arcipelago, non esita a raccoglierla.
data di pubblicazione 11/11/2014
da Alessandro De Michele | Nov 10, 2014
(Una giovinezza enormemente giovane – Teatro Argentina – Roma, 5/9 novembre 2014)
Il trascorrere del tempo, come spesso accade, è rivelatore dell’autentica grandezza e universalità di un’artista: aldilà di quanto ingombrante possa essere il suo “personaggio” e le sue “personali vicende”,la specificità del suo nucleo poetico, come un prezioso e inesauribile minerale, continua radioattivamente ad emanare una forza e una suggestione potenti, capaci di riattivare la curiosità del pubblico, le riflessioni di intellettuali o l’immaginario di artisti in cerca di ispirazioni rigeneratrici o semplicemente di facili meccanismi identificativi fini a se stessi …( l’ultima fatica di Abel Ferrara è in questo senso indicativa). Pasolini rappresenta l’eccezionale caso in cui un intellettuale di primordine, solido e appassionato, genera, attraverso la grazia della poesia, un’artista eclettico e vitale … capace di stupire, incantare, scandalizzare … confondere; a prezzo di laceranti contraddizioni, oltraggiose esposizioni della propria vita … e del proprio corpo. Ed è proprio dal suo corpo, abbandonato nella desolazione di una notte oscura in cui si sentono solo rumori lontani e un latrare di cani, che parte Una giovinezza enormemente giovane, lo spettacolo tratto dal testo del compianto Gianni Borgna, elaborato su scritti di Pasolini: dunque la scena è quella del delitto, un delitto ratificato nell’atrocità di quella notte, ma presagito come destino ineluttabile attraverso tutto il corpus della sua opera. Suggestiva e inquietante è l’apertura dello spettacolo che ci introduce subito nella teatrale dimensione de – l’oltre – attraverso la presenza metafisica dello stesso Pasolini (interpretato da Roberto Herlitzka); il poeta osserva il proprio cadavere … impastato di sangue e fango, stigmatizzazione di una fine emblematica e catartica … proprio come in una sacra rappresentazione. Se il registro dello spettacolo sembra inizialmente voler attingere proprio alle suggestioni del Sacro (poi ribadite un pò didascalicamente nel finale con la musica di Bach e le immagini tratte dal “Vangelo”) … la riflessione-monologo a cui lo stesso Pasolini-Herlitzka si abbandona nel corso dello spettacolo ha qualcosa di troppo programmaticamente pensato ai fini di una esaustiva e sintetica celebrazione del Pasolini pensatore civile, per sorprenderci ed emozionarci veramente: attingendo dagli Scritti corsari, dalle Lettere luterane e da quel profondo e magmatico contenitore che è Petrolio, non mancano riferimenti ai misteri dell’ENI, alla fine di Mattei, al genocidio delle periferie a l’omologazione culturale che ha cancellato l’orizzonte delle piccole patrie … e sull’orizzonte delle stragi, la spiazzante e profetica previsione di un popolo che come polli d’allevamento – avrebbe accettato – la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo. Niente di più appropriato e pertinente dunque, per i nostri desolati giorni, in termini etici e di contenuti … ma sulla scena qualcosa scricchiola: un sapore convenzionalmente celebrativo appunto, che va a scapito della poesia, della tensione e della coesione del testo (perchè quel lungo elenco con nomi e generalità delle vittime delle stragi di Piazza Fontana?) – c’è un tono un pò troppo fiacco e monitorio nella recitazione del protagonista, che contraddice l’ambigua vitalità di Pasolini … e in questo senso forse, l’ossuta e un pò anchilosata fisicità di Herlitzka (superbo attore dal volto pieno di pathos) che si trascina con passo stanco e senile sulla scena contribuiscono a ribadire questo senso di estraniamento dalla disperata vitalità del poeta! – ( … perché allora, muovendosi nella dimensione metafisica della scena-teatro, non farlo interpretare da un attore enormemente giovane che con la fisicità di un calciatore avrebbe intonato col giusto vigore i giovanili versi friulani?…) soprattutto nel finale, quando il testo rievoca l’ultima notte in cui spinto da quella oscura, famelica pulsione che lo possedeva, compie quella che forse è la più tragica e al tempo stesso sublime esperienza a cui un artista può aspirare: la deflagrante collisione che porta a fondersi la realtà con la sua rappresentazione …la vita con la propria creazione. Forse proprio per questo Pierpaolo Pasolini …. non smetterà mai di parlarci!
data di pubblicazione 10/11/2014
Il nostro voto: 
da Alessandro Pesce | Nov 7, 2014
Che uno spettacolo di successo venga ripreso dopo anni dalla première e per la terza volta, con la stessa protagonista e il medesimo allestimento, non è un fatto frequentissimo per i teatri italiani.
Ancora più singolare è che non si tratti di un classico ma di un autore contemporaneo Annibale Ruccello, senz’altro il più interessante drammaturgo che ha operato in Italia negli anni 80, consacrato da diversi successi sia in Patria che all’estero, forse ancora di più dopo la sua tragica scomparsa.
E’ stato autore di storie spesso estreme e visionarie, ma nello stesso tempo connesse strettamente alla realtà dei nostri tempi, e a volte, come in questo caso, addirittura profetiche, nel senso che una storia come quella della casalinga Adriana Imparato, frustrata e depressa e del suo tragico finale. oggi è ancora più attuale e vivo e ahimè più vicino alle nostre maledette cronache quotidiane.
Come in tutte le opere di Ruccello anche in Notturno si mescolano ad arte ironia, divertimento, dramma, commozione, surrealismo e naturalismo, sangue e poesia, comicità e thrilling.
La regia di Enrico Maria Lamanna ha saputo con precisione e lucidità (doti che poi quel regista non ha poi più saputo trovare), interpretare la varietà dei toni della pièce e felicemente ha ricreato in scena quell’ambiente degradato di hinterland partenopeo, toccando l’apice della regia nei momenti di “sogno” come quando si materializza il ricordo del Padre-Madre o nelle “apparizioni” degli “ospiti”.
Un cast perfetto fa da contorno alla protagonista meravigliosa, Giuliana De Sio, che per la terza volta affronta questo difficile personaggio tra fragilità e follia, solitudine e voglia di sognare. L’attrice ritrova la straordinaria complicità con il personaggio aggiungendo nuovi fremiti di maturità dopo il difficile momento di malattia che ha attraversato.
L’esito del pubblico di fronte a questo spettacolo si conferma entusiasta, come se il pubblico avvertisse di essere di fronte a qualcosa di urgente, che ci appartiene, che poi è il vero senso del Teatro.
Dopo Napoli lo spettacolo sarà a novembre a Roma e poi in tournée a beneficio degli spettatori che non hanno potuto vederlo nel 1996 e nel 2003.
data di pubblicazione 7/11/2014
Il nostro voto: 
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