da Antonella Massaro | Gen 2, 2015
Un appartamento vuoto nell’ormai leggendaria Rue Jules Verne di Parigi, due sconosciuti che si incontrano per caso, due corpi che si fondono per istinto, due anime che si avvicinano per necessità, secondo i tradizionali canoni di un’attrazione tanto irresistibile da divenire fatale.
Dopo aver assistito alla prima newyorkese di Ultimo tango a Parigi (1972), Pauline Kael, tra i critici americani più rappresentativi della sua epoca, scrisse che la proiezione del film di Bertolucci equivaleva, nella storia del cinema, a quel che “La sagra della Primavera” di Stravinnskij aveva rappresentato per la storia della musica e, più in generale, della cultura. Un’opera in grado di gettare una platea di persone adulte, dotate di una solida formazione culturale, in un autentico stato di shock e di spalancare al cinema le porte di quella potenza evocativa che il grande schermo stava sperimentando, forse per la prima volta, in maniera così drammaticamente esplicita.
Ultimo tango a Parigi, prodotto dal “coraggioso” Alberto Grimaldi, è anche noto per essere stato il protagonista di una vicenda giudiziaria talmente articolata e discussa da far meritare all’opera di Bertolucci il titolo di autentico leading case nei rapporti tra arte cinematografica e diritto, sia in riferimento alla scure della censura amministrativa sia (e forse soprattutto) per la possibile rilevanza penale di film considerati “osceni” (articoli 528 e 529 del codice penale).
Tanto nelle sentenze relative al “caso Ultimo tango” quanto nell’immaginario collettivo, l’emblema di una (pretesa) offesa al comune sentimento del pudore è rappresentata dalla scena, peraltro non prevista nella versione ufficiale della sceneggiatura edita da Einaudi nel 1973, in cui Marlon Brando “porge” all’ignara Maria Schneider un panetto di burro per scopi non propriamente domestici, dissacrando con le sue parole quella santa istituzione inventata per educare i selvaggi alla virtù che è la famiglia.
Tanto rumore per un panetto di burro?
Sicuramente dissacrante, ma quantomeno pertinente, è la ricetta di biscotti al burro che abbiamo voluto abbinare a questo autentico capolavoro della cinematografia mondiale.
INGREDIENTI: – 350 gr di farina “00” per dolci (arricchita con amido di frumento) – 1 cucchiaio abbondante di zucchero – 2 uova intere – 1 pizzico di sale – 250gr di burro (tirato fuori dal frigo almeno ½ ora prima) – 1 bustina di lievito per dolci –zucchero a velo q.b.
PROCEDIMENTO: Accendete come prima cosa il forno a 150° termo-ventilato; amalgamare quindi bene gli ingredienti aggiungendo al centro della farina adagiata su di una spianatoia: il pizzico di sale, il lievito, le due uova, lo zucchero, il burro molto morbido fatto a pezzettini. Lavorare gli ingredienti fino ad ottenere un impasto omogeneo e quindi mettere l’impasto per circa 15 minuti nel frigorifero avvolto nella pellicola trasparente; dopo averlo fatto riposare in frigo, con il mattarello tirare sfoglie alte 1 cm. e tagliarle con formine varie. Adagiare quindi i biscotti così ottenuti su una leccarda foderata con carta da forno e infornare a 150° termo-ventilato per soli 12 minuti. Dopo aver cotto tutti i biscotti (non basterà una sola infornata), a freddo cospargeteli con zucchero a velo e conservarli in una scatola di latta con il fondo ricoperto di carta oleata.
Sono ottimi con il the.
CONSIGLI: Si possono aggiungere all’impasto degli aromi, come ad esempio i semi di un baccello di vaniglia, la buccia grattugiata di ½ limone, dello zenzero tritato o semplicemente della cannella in polvere.
da Maria Letizia Panerai | Dic 30, 2014
(Festival di Cannes – in Concorso)
È il 1932 quando Jimmy Gralton fa rientro dagli Stati Uniti a Leitrim nel nord dell’Irlanda, per prendersi cura dell’anziana madre oramai rimasta sola: dieci anni prima si era reso colpevole di aver costruito la Pearse Connolly Hall, un capannone di lamiera dove i giovani come lui potevano incontrarsi, ballare e fare musica, cantare, seguire corsi d’arte, oltre che leggere e sentirsi liberi di esprimere ognuno le proprie idee, insomma un punto d’incontro e di condivisione per quel piccolo paese rurale. Nonostante l’esilio forzato, Jimmy non ha perso il “vizio” di volersi sentire libero né di trasmettere questo senso di libertà agli altri e, nel giro di pochi mesi, decide di riaprire quella sala causa del suo allontanamento. La Jimmy’s hall ben presto ri-diviene per la nuova generazione di Leitrim un vero e proprio centro sociale che come nel passato continua a fare ancora molta paura alle autorità, al parroco del posto e ai politici locali, perché in quel capannone in mezzo alla campagna si coltivano idee comuniste e si tengono atteggiamenti poco ortodossi tra ragazzi e ragazze che ballano al ritmo di jazz, la musica del diavolo importata direttamente da New York. Jimmy questa volta verrà espulso dal suo paese senza un processo, come “immigrato clandestino” pur essendo irlandese, e non vi farà più ritorno.
Applauditissimo al festival di Cannes Jimmy’s Hall-Una storia d’amore e libertà, che ha al centro la figura di quest’uomo realmente esistito, un personaggio leggendario, quasi un eroe romantico, potrebbe essere l’ultima fatica dell’oramai settantottenne Ken Loach che rivolge, anche in questo caso, lo sguardo verso le classi meno abbienti rappresentate sovente da personaggi portatori di un’enorme dignità. Con un sottotitolo perfetto, Jimmy’s Hall è realmente una storia di sentimenti perfettamente dosati con la politica, che mai come in questo caso assume il significato di libero pensiero, in perfetto equilibrio tra semplicità e melanconia.
data di pubblicazione 30 /12/2014
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da Antonella Massaro | Dic 29, 2014
(Museo dell’Ara Pacis – Roma, 26 settembre 2014 / 25 gennaio 2015)
Henri Cartier-Bresson (1908-2004) ha immortalato attraverso l’obiettivo della sua macchina alcuni degli snodi più significativi del secolo scorso, cesellando al tempo stesso quegli scatti senza tempo che nell’immaginario comune identificano ormai la Fotografia per antonomasia.
La poesia e il gusto per la composizione dell’immagine da una parte, l’impegno politico e la testimonianza dall’altra. Henri Cartier-Bresson è Uno, Nessuno e Centomila nell’esposizione allestita a Roma presso il Museo dell’Ara Pacis, che celebra il genio eclettico del suo “occhio assoluto”, divenuto in breve tempo “occhio del secolo”.
È affascinato dalla rassicurante infallibilità della matematica e della sezione aurea, ma anche fatalmente attratto dalla deformazione surrealista dei corpi e dello spazio. È l’artista che lascia la macchina in paziente attesa che “succeda qualcosa” davanti al suo occhio e che cattura poi “l’istante decisivo” come un cacciatore fa la con la sua preda, ma è anche il fotografo a servizio della stampa comunista e tra i fondatori della Magnum Photos, l’agenzia che inaugura un nuovo modo di fare e di intendere il reportage.
Durante il percorso disegnato dalla mostra, la fotografia assume progressivamente la consistenza del “documentario”, mostrando una vocazione sempre più chiaramente ed esplicitamente politico-sociale. Dietro lo scatto minuziosamente composto che, rievocando le atmosfere di alcuni dipinti di Renoir, ritrae un momento di svago in riva alla Senna si cela il traguardo delle prime ferie retribuite ottenute dai lavoratori francesi, così come dietro i volti sorridenti del gioco a premi “Il mistero del bambino scomparso” si nasconde la celebrativa simbologia salvifica del comunismo. Nessuna “interpretazione” è per contro necessaria a fronte della vibrante sequenza del processo popolare allestito nei confronti di una collaborazionista nazista o davanti al pianto dirotto di una donna accartocciata sulle macerie di Dessau.
L’occhio dello spettatore è catapultato in un vorticoso viaggio attorno (e nel) mondo: l’Africa delle colonie, la Cina della cartamoneta che si svaluta vertiginosamente, la Cuba di Fidel Castro e dei conturbanti corpi femminili, l’India dei funerali di Gandhi, la Russia in cui troneggia ancora per molto tempo la gigantografia di Stalin.
Il tutto intervallato dagli stracci che alludono al mistero dell’erotico velato, dalle donne in nero che nelle stradine di Scanno volteggiano come note su uno spartito, da quei celeberrimi scatti del 1932, “Dietro la stazione Saint-Lazare” e “Hyères”, che condensano mirabilmente la perfezione di un’arte al cospetto della quale è inevitabile l’estatica contemplazione.
Per me la fotografia non è un lavoro, ma piuttosto un duro piacere; non cercare niente, aspettare la sorpresa, essere una lastra sensibile.
Il momento dello scatto si colloca a metà strada tra il gioco del borsaiolo e del funambolo. Un gioco perpetuo, accompagnato da una tensione estrema.
L’uomo. L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. […] Io mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta.
data di pubblicazione 29 /12/2014
da Maria Letizia Panerai | Dic 28, 2014
Quasi amici è un film francese ispirato ad una storia vera, molto divertente ma anche commovente, che narra dell’insolito rapporto tra un paraplegico ed il suo badante; la pellicola, che ha avuto un enorme successo in Francia, ha incassato moltissimo anche nel nostro paese. Cast di altissimo livello, tra cui emerge una bravissimo Francois Cluzet. A questo film abbiniamo la raffinata marmellata di cipolle della nostra amica Claudia, in onore del personaggio protagonista la cui storia ci ha scaldato il cuore, perfetta da abbinare ai formaggi stagionati…non solo francesi!
INGREDIENTI: 7/8 cipolle bianche e dorate – 1 bicchiere di zucchero semolato bianco – 1 bicchiere di zucchero di canna – 1 noce di burro – 1 bicchiere di aceto di vino bianco
PROCEDIMENTO: Sbucciare e tagliare a spicchi le cipolle (il numero di cipolle dipende dalla loro grandezza: prendete tutte di grandezza media). Farle bollire in acqua x 10 minuti. Scolarle bene. Nel frattempo in una padella larga mettere a sciogliere lo zucchero senza farlo caramellare. Aggiungere le cipolle, un fiocco di burro e una volta amalgamato il tutto, aggiungere l’aceto a filo versandolo intorno alle cipolle sino ad esaurimento. Cuocere a fuoco basso girando spesso per 40 minuti, senza coprire… Mettere la marmellata dentro dei barattoli di vetro e sterilizzare seguendo le regole per le marmellate fatte in casa.. e buon appetito!
da Antonella Massaro | Dic 28, 2014
Sugli schermi italiani addobbati per le Feste arrivano le Storie pazzesche (titolo originale: Relatos salvajes) dell’argentino Damián Szifrón, introdotte dall’altisonante (e accattivante) “Pedro Almodóvar presenta”, che benedice con la sua produzione un esperimento dall’esito certamente non scontato.
Sei episodi che si snodano lungo il filo conduttore del “farsi Giustizia da sé”, ma che restano sufficientemente distinti e distinguibili. Forse anche troppo, per chi entra al cinema aspettandosi di vedere un film inteso nella sua classica accezione.
È un umorismo nero quello innescato dalla scintilla che fa esplodere la rabbia troppo a lungo repressa dei protagonisti. Scene di vita quotidiana: un’automobile rimossa “ingiustamente”, un insulto di troppo tra automobilisti, un incidente stradale con vittime innocenti (la goccia che fa traboccare il vaso in ben tre storie su sei è legata a situazioni attinenti derivanti dalla circolazione stradale), una vita di rifiuti e frustrazioni, le ombre del passato che si materializzano all’improvviso, il tradimento del proprio uomo scoperto durante la festa di matrimonio.
Quando il Diritto e la Giustizia decidono di fare i separati in casa, l’unica via praticabile, quella più follemente razionale o più razionalmente folle, sembra indicata dalla Vendetta: a volta amara, a volte dolce, a volte liberatoria, a volte semplicemente necessaria.
Tra i sei episodi si registrano autentiche punte di diamante, come Pasternak, che precede i titoli di testa, o il tragicomico duello tra automobilisti ingaggiato in Il più forte. “Giustizia da sé”, unica soluzione follemente razionale quando si alza il telefono per chiamare la Polizia e la Polizia non risponde. Perché è proprio quando il Diritto e la Giustizia decidono di fare i separati in casa che trova fertile terreno la Vendetta: a volte amara, a volte dolce, altre volte semplicemente necessaria.
Personaggi ben caratterizzati, colpi di scena al posto giusto e al momento giusto, una morale facilmente intuibile. Come nella migliore tradizione del cortometraggio d’autore. Perché più che a degli “episodi” (sono lontani i tempi d’oro di film come Paisà) lo spettatore ha proprio l’impressione di assistere alla proiezione di sei “cortometraggi”.
Dopo aver sdoganato il documentario, il grande schermo tenta l’impresa anche con i corti? Ai posteri l’ardua sentenza. Lo spettatore odierno può godersi nel frattempo il riso amaro di storie pazzesche, eppure così ordinarie.
data di pubblicazione 28 /12/2014
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da Accreditati | Dic 21, 2014
(Festival Internazionale del film di Roma 2014 – Gala)
Gone Girl ovvero la vita di Amy (Rosamund Pike): da ragazza manipolata dai genitori che sin da quando era bambina ne fanno oggetto di una collana di libri per l’infanzia, a donna manipolatrice della sua perfetta ed invidiata vita matrimoniale con Nick (Ben Affleck), almeno sino a quel mattino del 5 luglio del 2012 in cui Amy scompare misteriosamente dalla casa coniugale. Rapita? Forse uccisa? O semplicemente sfuggita ad un marito violento? David Fincher, con l’adattamento cinematografico del best seller di Gillian Flynn L’amore bugiardo, mette sotto la lente di ingrandimento una ben assortita serie di cliché: la coppia perfetta, il loro matrimonio in crisi per tradimento, la vita coniugale che scoppia anche a causa della crisi economica che ha risucchiato i loro lavori, la ricerca di un figlio salva-crisi, l’invadenza dei salotti televisivi e dei processi mediatici che pretendono di colmare il vuoto lasciato da un’inesistente Giustizia terrena, mentre gli “imputati” si adattano con sempre maggiore convinzione alla parte che altri scrivono per loro.
Il tutto è tenuto insieme da un intreccio mai banale, attorno al quale Fincher costruisce un thriller coinvolgente, perennemente sospeso tra psicologico e psicopatico, in cui anche i personaggi minori escono tratteggiati da un’impressionante dovizia di particolari e che, affidando alla stessa scena l’incipit e l’epilogo della storia, segue un’affascinante andamento circolare, ricomponendo in unità due “punti di vista” apparentemente inconciliabili.
data di pubblicazione 21/12/2014
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da Alessandro Pesce | Dic 19, 2014
Lo stress prenatalizio, che fa esplodere i conflitti interpersonali e porta a emergere improvvise voglie di fuga, non è solo caratteristica nostrana (ricordate “Matrimoni” della Comencini?) ma evidentemente miete vittime anche oltr’alpe. Il film della Thompson segue le vicende di una famiglia “allargata” nei tre giorni prima del 25 dicembre, da un funerale dove tutti bisbigliano dei preparativi e dei regali da fare fino al giorno del fatidico pranzo che non vedremo (ma nei titoli di coda c’è una autentica ricetta francese). Vediamo i personaggi nei loro intricati rapporti e sentiamo le loro confessioni rivolte direttamente al pubblico in una indovinata soluzione da quarta parete. Appena un pizzico di deja vu viene perdonato grazie alla brillantezza dei dialoghi e alla bravura iperbolica degli attori: Sabine Azema (scatenata anche nel ballare e cantare), le incantevoli Emanuelle Behart e Charlotte Gainsbourg e i carissimi Claude Rich e Francoise Fabian: scusate se è poco…
A questo film non possiamo che abbinare la sua ricetta, Dinde de Noel ovvero Tacchino di Natale al fois gras, perfetta per un buon….pranzo di Natale!
INGREDIENTI (x 8 persone): Un bel tacchino – 400 g di fois gras fresco – 2 dadi di brodo di pollo – 200 g di salsicce di maiale – 100 g di scalogno – 1 bel fungo porcino – 3 cl di vino rosso – burro q.b. – per la salsa – 20 cl panna liquida – 50 g de fois gras
PROCEDIMENTO: Lasciate soffriggere in una terrina un pò di burro, aggiungete lo scalogno a fette sottili e fate indorarlo in un poco di burro, aggiungete i funghi. Lasciate cuocere da 5 a 6 minuti girando di tanto in tanto; quindi, in un robot da cucina, unire alla carne della salsiccia, i funghi e lo scalogno appena cotti. Prendete poi il fois gras fresco, tagliatene 2 belle scaloppine e mettetele da parte, ed incorporate quindi il resto del fois gras nel robot, aggiungete del sale, del pepe e frullate il tutto. Con questa farcia così ottenuta, riempire la tacchina; poi, con un coltello incidete la carne per poter scollare delicatamente la pelle, ed introducete, tra la carne e le pelli le 2 scaloppine di fois gras che avete tenuto da parte. Preriscaldate il vostro forno a 200°. Prendete una grande pentola di coccio o marmitta, riempitela a metà di acqua. Aggiungete i 2 dadi di brodo di pollo, portate poi a ebollizione e mettete la tacchina a bollire per circa 30 minuti (o meno a seconda delle sue dimensioni). Dopo che si è sgrassata in acqua, disponete la tacchina in un grande piatto, aggiungete sale e pepe q.b.. Infornatela per 1 ora e 30 minuti, senza dimenticare di irrorare di tanto in tanto con del vino affinché la carne non si secchi.
Per la crema da servire con il tacchino:
Con un mestolo, prelevate circa 2 a 3 loschi di succo di cottura nel piatto della tacchina, mettete il succo in una casseruola e fatelo ridurre per metà a fuoco vivo. Lasciate poi la fiamma a fuoco dolce, incorporate la panna liquida con l’aiuto di una frusta. Tagliate i 50 g di fois gras in piccoli dadi e, una volta che la crema è molto calda, aggiungete i dadi di fois gras, sempre alla frusta. Lasciate cuocere 3/5 minuti, ritirate del fuoco e servite con la tacchina.
da Maria Letizia Panerai | Dic 19, 2014
Insolita storia per un’accoppiata collaudata, quella tra il regista R. Scott e Russell Crowe, dopo il grande successo de Il Gladiatore. Un’ottima annata è una commedia romantica molto gradevole, e narra la storia tra Max (R. Crowe) e Fanny (una giovanissima Marion Cotillard), ambientata tra i vigneti della Provenza. A questo film, che ha il gusto ed il profumo di un buon bicchiere di vino d’annata, non potevamo che abbinarci una ciambella a base di formaggio e noci, fantastica come aperitivo.
INGREDIENTI: 1 barattolino da 125gr. di yogurt bianco magro – 3 barattolini (dello yogurt) pieni di parmigiano grattugiato – 3 barattolini (dello yogurt) pieni di farina 00 – 3 uova intere – ½ barattolino (dello yogurt) di olio – 2 etti di fontina – 1 e ½ di brie o di taleggio – 10/12 gherigli di noce – 1 bustina di lievito istantaneo per pizze e focacce – 1 cucchiaio da cucina di semini di papavero – noce moscata o pepe nero q.b..
PROCEDIMENTO: Fate scaldare il forno sopra e sotto a 180°, non termo-ventilato. In una coppa rovesciate il barattolo di yogurt da 125 gr, sciacquatelo ed usatelo come unità di misura: pertanto versate nella coppa con lo yogurt 3 barattolini di parmigiano e mescolate, le 3 uova una alla volta sempre mescolando, 3 barattolini di farina e ½ barattolino di olio, la bustina di lievito istantaneo per pizze e focacce, un pizzico di pepe o di noce moscata. Mescolate tutto ed aggiungete all’impasto la fontina tagliata a cubetti ed il brie sempre tagliato a cubetti (o del taleggio, che conferirà alla ciambella un sapore più deciso). Infine sminuzzateci 5/6 gherigli di noce. L’impasto così ottenuto, molto elastico al tatto, adagiatelo in una pentola con il buco nel centro, precedentemente imburrata o unta con poco olio. Sopra la superficie di questa ciambella di formaggio spolverateci il cucchiaio di semini di papavero ed infilzate i rimanenti gherigli di noce come decoro. Infornare in forno ben caldo per 20 minuti e togliere subito dopo, altrimenti si asciuga troppo ed invece deve risultare morbida ed umida. E’ buona fredda o tiepida e, se la avvolgete a della carta argentata, si conserva morbida un paio di giorni. Quando la servite, inserite nel buco centrale delle patatine fritte: contribuiranno a creare un aperitivo buono e bello.
da Maria Letizia Panerai | Dic 17, 2014
(Festival di Cannes – Sezione Quinzaine des Réalisateurs)
LGSM è l’acronimo di Lesbian and Gay Support the Miners, nome che nel 1984 si diede uno sparuto gruppo di attivisti gay; Lesbiche e gay aiutano i minatori divenne anche il loro slogan, urlato per le strade di Londra, allo scopo di rastrellare fondi per i minatori del Galles che, proprio in quell’anno, avevano iniziato uno sciopero in massa per protestare contro lo smantellamento di molti siti estrattivi voluto dal governo di Margaret Thatcher. Il movimento, capitanato dal giovane attivista Mark Ashton che ebbe l’acume di ravvisare una certa – seppur incredibile – assonanza tra la lotta della comunità gay londinese e quella dei minatori, in quanto entrambi vittime dello stesso sistema, dovette ovviamente affrontare diffidenze, pruriginose intolleranze ed inevitabili pregiudizi anche da parte di alcuni gruppi degli stessi minatori, che rifiutavano l’idea di farsi sostenere avvicinando così le loro differenti forme di protesta. Tuttavia LGSM riuscì ugualmente nel suo intento, arrivando ad organizzare un grande concerto di beneficenza per la raccolta fondi, favorendo così anche l’incontro sociale tra queste due realtà così apparentemente distanti.
Pride di Matthew Warchus, vincitore quest’anno a Cannes della Queer Palm e in nomination ai Golden Globe 2015, è una piacevole commedia basata su questi fatti realmente accaduti, capace di narrare un’incredibile storia di solidarietà tra individui in lotta per difendere i propri diritti nell’Inghilterra degli anni ‘80, senza però essere un film di impegno politico. Girato nelle location dell’epoca e parlando di persone realmente esistite, il film seppur scivoli in facili cliché e in un pò di retorica, lasciando sicuramente più spazio al divertimento che all’analisi del periodo storico in cui si svolge l’intera vicenda, risulta tuttavia piacevole perché non ha la pretesa di essere “impegnato”. Pride è intriso di una certa piacevole leggerezza, con un tema centrale orientato più sull’amicizia che sulla denuncia, concetto perfettamente simboleggiato dalle immagini finali che ricostruiscono il Gay Pride del 1985 a Londra in cui, tra lo stupore generale, una moltitudine di minatori gallesi raggiunsero i loro sostenitori per aprire il corteo, a conferma che l’unione e la solidarietà tra individui, anche se molto diversi tra loro, renda forti.
data di pubblicazione 17/12/2014
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da Antonella Massaro | Dic 14, 2014
Il Teatro Argentina, fino al 1 gennaio 2015, ospita Natale in Casa Cupiello, lo spettacolo che la penna dolce e amara di Eduardo ha reso mirabile sintesi di quella contraddittoria atmosfera della quale sono permeate queste settimane di Festa. La famiglia riunita, l’unità ritrovata, la statica perfezione del Presepe è quel che si vede. I legami che si allentano, i vuoti che non si colmano, l’inesorabile disfacimento dell’illusione è quel che si sente. Luca, ingenuo e utopico sognatore, prova a rendere il Presepe virtuoso catalizzatore di buone intenzioni e di buoni sentimenti, ma, costretto ad aprire quegli occhi che per troppo tempo ha tenuto chiusi, si troverà a disegnare la sua personalissima parabola, così cristologica eppure così umana, che dalla Natività conduce alla Morte.
Incidere sperimentalmente su un pezzo di teatro che tende alla perfezione nella sua versione originale è indubbiamente un’operazione ardita, come quella di valorizzare una messa in scena densa di simbolismi, che sviscera il testo e gli attori, che lavora sul linguaggio e sui corpi, quando si ha a che fare con battute che “parlano da sole”.
È sicuramente potente e suggestiva la resa della dialettica stasi-cambiamento, attraverso quell’immobilismo iniziale spazzato via dal movimento tumultuoso che invade letteralmente l’intero palcoscenico per poi ricomporsi nel finale in una plasticità pacata e armonica.
L’impressione dello spettatore, tuttavia, è quella di aver assistito a uno spettacolo nuovo, che resta “Natale in casa Cupiello” solo nel titolo e nel nome dei personaggi. La questione del “riadattamento dei classici” a teatro è troppo nota e troppo complessa per essere affrontata da uno sguardo laico. Quello stesso sguardo laico che però, almeno ogni tanto, preferirebbe che la rilettura di un testo non originale venisse sostituita dalla scrittura di un testo originale. E che Eduardo, almeno ogni tanto, non venisse riletto, ma solo interpretato.
data di pubblicazione 14/12/2014
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