da Maria Letizia Panerai | Apr 22, 2015
I bambini sanno, ovvero la “seconda volta” di Walter Veltroni che, dopo il successo di Quando c’era Berlinguer, si mette di nuovo dietro la macchina da presa per girare un docufilm che ci riporta non solo all’infanzia, ma che soprattutto ci introduce nel complesso ruolo di genitore. E non è importante esserlo veramente nella vita perché, assistendo alla proiezione di questo film, lo si diventa.
Dopo avere intervistato trecentocinquanta bambini tra gli 8 e i 13 anni, quell’età in cui si diventa ciò che poi si è, dal colloquio con trentanove di loro Veltroni ha voluto in particolare sorprenderci con le loro grandi risposte che fanno sorridere e commuove al contempo: basta ascoltarli, per rimanere colpiti dalla spontaneità e profondità disarmanti con cui comunicano il loro personalissimo modo di sentire il nostro tempo. L’empatia con questi trentanove bambini si instaura anche grazie all’amore del regista per il cinema: traendo ispirazione dal proiezionista Alfredo di Nuovo Cinema Paradiso nella famosa scena dei baci censurati, Veltroni omaggia lo spettatore all’inizio del suo film con il montaggio di diverse scene che ritraggono solo bambini che corrono, tratte da pellicole di Tornatore, Salvatores, i fratelli Taviani e tanti altri. E così, magicamente, ci traghetta nel loro mondo, e i bambini intervistati diventano immediatamente i nostri figli: naturali o adottati, alcuni diversi, altri feriti perché quando hai un dolore impari ad incassare e a non sottovalutare, alcuni ghettizzati nei campi rom o salvati dagli sbarchi a Lampedusa, altri ancora guariti da una brutta malattia che non è come avere la febbre, o semplicemente italiani nati da genitori immigrati. Tutti, però, indistintamente, hanno occhi colmi di speranza e mai di rabbia, alcune volte velati di tristezza, come Marius, ma basta poco perché guizzino come grandi olive nere sotto il sole, qualcuno di loro è preoccupato per il futuro anche se futuro è comunque una bella parola; tuttavia alla domanda sei felice? quasi tutti rispondono senza esitare “sì!”, perché per esserlo basta sognare o perché i bambini, al contrario dei grandi, sanno fare la pace ed inventare le cose.
E se il futuro non sarà bello come loro immaginano, anche noi come questo sorprendente regista vogliamo continuare a crederci e sperare.
Film da non perdere per capire meglio le cose della vita.
data di pubblicazione 22/04/2015
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da Alessandro Pesce | Apr 20, 2015
Il sipario si apre su altri due sipari a righe che danno un effetto optical, come fossero tanti fiammiferi allineati, preparando un’emotiva ipnosi collettiva. Ma perché le prime parole, o fonemi, che ascoltiamo, sono incomprensibili? A che serve parlare se non si capisce, si chiede un’ipotetica narratrice. E perché nel palcoscenico finalmente aperto campeggia un enorme punto interrogativo? Stiamo per ascoltare la fiaba di Andersen La piccola fiammiferaia, la storia della bimba povera che muore di gelo o si sta giocando al gioco del teatro con un’intenzione insieme semplice ma anche squisitamente meta teatrale? Non è la prima volta che Chiara Guidi e la Societas Raffaello Sanzio si avvicina al mondo delle fiabe, in un indimenticabile Buchettino (titolo italiano di Pollicino) di anni fa, il pubblico era ospitato in una stanza buia dove tutti, piccoli e grandi, dovevano coricarsi dentro alcuni lettini da collegio ottocentesco e lì ascoltavano la narratrice che raccontava la fiaba mentre i passi dell’orco e la sua ombra inquietavano il fortunato pubblico di quella esperienza teatrale. Qui all’apparenza è tutto più astratto e meno coinvolgente ma poi quando nell’oscurità si dà inizio al rito dei fiammiferi accesi, tutto si fa incantato e toccante: un gioco che non può fermarsi, perché ad ogni fiammifero acceso corrisponde un’evocazione, un ricordo,e basta una musica, una percezione, un attimo di teatro, insomma, e la magia riprende e anche le favole tristi possono riacquistare il calore della memoria, nessun gelo reale vincerà, la fantasia e il teatro hanno la meglio sulla Morte. Protagoniste di questo incantesimo la maestria di Chiara Guidi e la semplicità della piccola attrice che si fa guidare e grazie a loro per la prima volta La bambina dei fiammiferi non è “una favola che mi fa piangere”, come diceva coi lucciconi agli occhi la mia nipotina quando gliela narravo io.
data di pubblicazione 20/04/2015
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da Elena Mascioli | Apr 20, 2015
L’amore e la tenerezza passano attraverso il complemento oggetto di “alcune rose”, l’eredità delle Madri attraverso un dativo di possesso. Mia madre, di Nanni Moretti, è un film che lascia nello spettatore un senso poetico di gratitudine: per un racconto tanto personale che però ha il coraggio e la capacità di non chiudersi e ripiegarsi in una nostalgia retorica e ammiccante, di non spingere l’acceleratore sull’emozione spicciola, ma di raccontare l’inadeguatezza umana di fronte alla vita, al dolore, e anche alla sua messa in scena. Margherita, regista impegnata nelle riprese del film Noi siamo qui, dispensa ai suoi attori, da anni, lo stesso suggerimento: mettiti a lato del tuo personaggio. Ma se lei stessa e gli attori che dirige non sembrano cogliere a pieno il senso del messaggio, a metterlo in pratica è proprio lo stesso Moretti, che si mette a lato del personaggio che qui lo incarna: gli occhi blu e la specificità femminile di Margherita (la Buy), appunto, di cui Nanni diventa il fratello Giovanni. E la scelta è più che felice. Margherita si fa megafono di ciò che Nanni ha da dirci: mi dà fastidio la retorica. Quelle frasi non sono vere e non servono a nessuno. Il regista è uno stronzo a cui permettete di fare di tutto. Ma i messaggi di Nanni passano anche attraverso i dialoghi del film che si sta girando: anche sforzandosi, lei non riuscirà a capire cosa significa per noi questo lavoro, dice Vittorio (Enrico Ianniello) al Barry Haggins interpretato da un magnifico Turturro, che balla (scena memorabile!), si dimena nel suo personaggio, ingabbiato nella finzione del cinema americano che rappresenta e che lo fa urlare: riportatemi nella realtà. Nanni non risparmia le critiche anche a sé stesso, e al cinema che rappresenta, soprattutto per l’incapacità di cogliere e raccontare una realtà che è fatta anche di operai con le sopracciglia depilate. I riflettori, inoltre, sono puntati alla difficoltà umana e personale di conciliare un set di finzione con il dolore dell’esistenza che porta a vedere la madre, interpretata dalla grandissima Giulia Lazzarini, incapace di ritrovare le parole giuste dopo tanto aver aiutato le generazioni in veste di insegnante, a trovare quelle stesse parole sul vocabolario dell’esistenza, passando per il latino. Che fine farà quell’eredità, quella cultura, tutto quel lavoro (e quindi, poi, anche il nostro)? Un meraviglioso finale dà una risposta che non è consolazione, ma scelta di vita. E ci regala emozione vera. Grazie Nanni.
data di pubblicazione 20/04/2015
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da Maria Letizia Panerai | Apr 17, 2015
Dopo Divorzio all’Italiana, Petro Germi ci riporta nell’assolata Sicilia, per ambientare il film Sedotta e abbandonata, storia di un matrimonio riparatore in una famiglia patriarcale di Sciacca (in un’Italia in cui, secondo l’allora vigente codice penale, con il matrimonio si cancellava il reato di violenza carnale), interpretato magistralmente da un cast di attori di primissimo livello, ad iniziare da Saro Urzì nel ruolo di Vincenzo Ascalone (premiato a Cannes come miglior interprete maschile) nella parte del padre della “sedotta”, interpretata da una giovanissima e bravissima Stefania Sandrelli (Agnese), sorella minore di un altrettanto giovanissimo Lando Buzzanca nel ruolo del fragile Antonio. Sarà Agnese ad accendere la miccia dell’intrigata vicenda di onore familiare, commettendo l’errore di cedere alle lusinghe di Peppino (Aldo Puglisi), studente fuori corso in Giurisprudenza di cui è segretamente innamorata e promesso sposo della sorella maggiore Matilde (Paola Biggio), bruttina e poco sensuale che preferirà, sul finale tragi-comico di questo film pieno di esilaranti colpi di scena, farsi suora piuttosto che unirsi in matrimonio con il barone Rizieri (uno strepitoso Leopoldo Trieste), spiantato e senza denti, scelto dal padre “in seconda battuta” per difendere l’onore di tutta la famiglia Ascalone.
A questo film, un vero e proprio cult da rivedere, accostiamo la ricetta di un dolce che ha un tipico ingrediente siciliano: il croccante di pistacchi.
INGREDIENTI: 100 gr di pistacchi sgusciati – 150 gr di zucchero – succo di limone qb – buccia grattugiata di mezzo limone
(N.B. se si vuole una variante al sesamo: 200 gr di zucchero – succo di limone qb – 150 gr di sesamo – buccia grattugiata di mezzo limone).
PROCEDIMENTO: Per il croccante di pistacchi, tritare grossolanamente i pistacchi con il tritatutto o al coltello. Far sciogliere in un padellino antiaderente lo zucchero con qualche goccia di limone finché non incomincia a scurirsi e quindi a caramellare, facendo attenzione che non bruci. A questo punto unire i pistacchi e la buccia del limone, e mescolare fino a ottenere un composto colloso, morbido e brunito. Rovesciare il tutto sopra un tagliere ricoperto con carta da forno e, con estrema cautela, stendere il composto prima con un cucchiaio di legno poi, coprendolo con un altro foglio di carta da forno, appiattirlo con il mattarello fino a ottenere una lastra sottile. Questa operazione dovrà svolgersi in tempi brevi, altrimenti il caramello si solidificherà e non sarà più manipolabile. Aspettare pochi minuti prima di togliere il foglio di carta da forno superiore, quindi tagliare il croccante come volete, anche a losanghe come da manuale, prima che sia completamente indurito. Per il croccante di sesamo, il procedimento è il medesimo, con variante nel quantitativo di zucchero che dovrà esser superiore (200 gr.).
da Maria Letizia Panerai | Apr 17, 2015
Il film, presentato con successo nel 2013 alla Berlinale e girato con attori non professionisti (la protagonista è la moglie di Winspeare, la coprotagonista la figlia di quest’ultima ed il principale interprete maschile il socio del regista), segue Sangue vivo, Il miracolo e Galantuomini, tutte pellicole ambientate nel Salento, terra del regista che, a dispetto del cognome, è nato in provincia di Lecce da una famiglia di origine anglo-napoletana. In grazia di dio racconta il coraggio e la determinazione di una giovane donna che, in seguito al fallimento di una piccola attività da fasonista che aveva messo su assieme al fratello, decide di tornare a coltivare la terra, trasferendosi nella modesta casa di campagna della madre assieme alla figlia, una adolescente che non ha molta voglia di studiare, e alla sorella minore che insegue le sue aspirazioni d’attrice. Ma questa nuova vita, tutta da ri-costruire, sorprenderà e cambierà questo eterogeneo microcosmo tutto al femminile. A questo bel film, sicuramente da recuperare per chi non lo avesse visto al cinema, in cui si percepisce la fatica fisica e mentale nel reinventarsi tutta la propria vita ripartendo dalle origini (la protagonista coltiva, in un piccolo fazzoletto di terra in mezzo ad un terrazzamento di ulivi secolari, ogni tipo di ortaggi che poi rivende ai fruttivendoli del paese), accostiamo una ricetta povera e facile a base di carote, da gustare accanto agli arrosti di carne o pesce: la purea di carote.
INGREDIENTI: – 450 gr.di carote affettate sottilmente – 40 gr. di burro – un pizzico di noce moscata – sale e pepe q.b..
PROCEDIMENTO: Sbucciare e tagliare le carote a fettine sottili. Quindi fate sciogliere il burro in una grossa padella, aggiungete le carote, salate, pepate e spolverizzate con noce moscata.
Coprite la pentola con un foglio di carta argentata per creare il vapore necessario a far cuocer le carote e per non farle scurire: manterranno un bel colore arancione. Lasciare cuocere a fuoco lento per almeno 15 minuti. Dopo, eliminare il foglio di carta argentata e schiacciare le carote con una forchetta. Continuare a far cuocere le carote scoperte ed a fiamma viva sino a quando il liquido di cottura si sarà riassorbito. Trasferire le carote nel mixer o usatene uno ad immersione, e lavoratele sino ad ottenere una purea liscia. È un crema perfetta per accompagnare carni bianche o pesce al forno o al cartoccio.
da Antonella Massaro | Apr 16, 2015
Dopo Il piccolo Nicolas e i suoi genitori (2009), Laurent Tirard prosegue nella non scontata opera di adattamento cinematografico delle avventure del personaggio plasmato dalla penna di René Goscinny e dalla matita di Jean-Jacques Sempé.
Suona l’ultima campanella dell’anno scolastico, si rompono le righe, si abbandonano le cartelle e le divise e ci si prepara alla tanto agognata “villeggiatura”. Nell’eterno dilemma tra mare e montagna, che vede puntualmente contrapposti la mamma (Valérie Lemercier) e il papà (Kad Merad) del piccolo Nicolas (Mathéo Boisselier), riescono a spuntarla le spiagge assolate che lambiscono il lido dell’Hôtel Beau-Rivage. A patto però che anche “nonnina” (Dominique Lavanant) si unisca alla famigliola in calzoncini e costume, con il suo sacchetto di caramelle, le sue richieste di “bacini” e l’ombra dell’antico e pressoché perfetto pretendente di sua figlia, prontamente e immancabilmente contrapposta all’ordinaria mediocrità del bonario genero.
La vacanza, si sa, assume spesso la consistenza di un Carnevale (emblematica la scena del ballo in maschera), in cui si sospende e/o si sovverte la dimensione dell’ordine costituito, si incontrano nuovi “amici”, nuovi amori, nuovi sogni. Succede così anche a Nicolas. I compagni di classe sono sostituiti da quelli di ombrellone, mentre il grande amore cittadino è rimpiazzato dalla piccola Isabelle, la bimba dagli occhi grandi e sgranati, che dopo aver “inseguito” Nicolas per tutto l’albergo, ricreando in maniera esilarante le atmosfere di Shining, si rivela in grado di rapire il cuore del protagonista.
L’atmosfera carnevalesca coinvolge e travolge anche la mamma di Nicolas. Un produttore cinematografico, interpretato da Luca Zingaretti, sguaiatamente ammaliatore e, non a caso, italiano, le fa intravedere le sfavillanti luci della ribalta, coccolandola con champagne, feste e interviste.
Ma il Carnevale, si sa, è destinato a finire in breve tempo. Si riaprono le porte della scuola, con il Direttore e il Custode che non aspettavano altro. Ritornano la vecchia vita e i vecchi amori. Perché, in fondo, la vacanza è bella quando dura poco.
Malgrado l’esasperazione macchiettistica di alcuni personaggi e di certi tratti della sceneggiatura, che non sempre risultano amalgamati in un racconto che pure trova nella straniante esagerazione i suoi più evidenti punti di forza, Le vacanze del piccolo Nicolas risulta nel complesso un film piacevole e ben confezionato, in grado di (ri)portare in sala i lettori, grandi e piccini, di Goscinnuy e Sempé.
data di publicazione 16/04/2015
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da Antonella Massaro | Apr 16, 2015
Una commedia con sfumature noir, tenuta insieme dal collante del grottesco e dalle camaleontiche capacità di Micaela Ramazzotti (e di Libero De Rienzo). Questi, in breve, gli elementi caratterizzanti di Ho ucciso Napoleone, secondo lungometraggio diretto da Giorgia Farina, che torna in sala a distanza di due anni da Amiche da morire.
Anita (Micaela Ramazzotti), figlia del disinvolto modello pedagogico dei “genitori-amici” di matrice sessantottina, ha cura di nascondere le proprie debolezze dietro la corazza protettiva di un “sofficino surgelato”. La sua tanto ostentata quanto poco credibile anaffettività, della quale farà le spese anche (e soprattutto) quel Napoleone il cui epitaffio, pronunciato direttamente dal suo carnefice, risuona nel titolo del film, diviene l’elemento catalizzatore di un’ascesa lavorativa apparentemente inarrestabile, condita da tutti i più irrinunciabili cliché del caso: dall’odio dei colleghi per la bella e giovane donna in carriera, alla relazione con il capo sposato e con prole (Adriano Giannini), per concludere con l’altrettanto immancabile gravidanza frutto di imperdonabile disattenzione.
Costretta inaspettatamente ad abbandonare i lussuosi locali della casa farmaceutica per la quale lavora, Anita cerca di riorganizzare la propria vita dalle altalene dal parco di fronte, divenute l’ufficio della “spacciatrice di farmaci” Olga (Elena Sofia Ricci) e il crocevia del nutrito “pacchetto clienti” di quest’ultima (tra cui Gianna, interpretata da Iaia Forte). Il ponte tra “fuori” e “dentro”, attraverso il quale riprendere la poltrona che sente di meritare, sembra esserle gettato da Biagio (Libero De Rienzo). Ma le storie, si sa, possono sempre essere raccontate da più prospettive e quel cambio di soggettiva, che lo spettatore del cinema più recente (per quanto il parallelismo possa sembrare azzardato) ha avuto modo di sperimentare con L’amore bugiardo di David Fincher, rappresenta certamente uno degli elementi meglio riusciti della scrittura di Giorgia Farina e di Federica Pontremoli.
Il rovesciamento di fronte, indubbiamente repentino, pur non peccando di eccessivo senso dell’irrisolto, non pare fondarsi su un solido approfondimento dei personaggi, i cui tratti più complessi restano solo abbozzati e, in definitiva, risolti e “sviliti”, tanto per Anita quanto per Biagio, nel davvero troppo stereotipato rapporto tra genitori e figli. Anche il contorno dei personaggi secondari, dotati di buone potenzialità nella definizione del registro narrativo di tipo comico-grottesco, resta solo sullo sfondo, senza mai divenire autentica parte integrante del racconto. La cura per l’intreccio sfuma poi nel finale in perfetto stile “e tutti vissero felici e contenti nella famiglia allargata”, che, forse, risulta fuori contesto rispetto allo “spirito” che fino a quel momento sembrava aver ispirato il racconto.
Ho ucciso Napoleone rimane comunque una pellicola dalla quale traspare chiaramente la costante ricerca di uno stile, personale e riconoscibile, di una sceneggiatrice e regista, che merita appieno il titolo di “osservata speciale” nell’ambito del cinema italiano fatto dalla generazione anni Ottanta.
data di pubblicazione 16/04/2015
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da T. Pica | Apr 13, 2015
(Teatro dell’Orologio – Roma, 7 aprile 2015 / 19 aprile 2015)
In questa primavera teatrale più Adamo & Eva di Mauro Santopietro per tutti! Un’Opera ben strutturata, una miniatura del Paradiso e del rovinoso allontanamento della coppia per antonomasia da Dio alla scoperta della Terra che incanta per le luci di scena, i colori, la scenografia e le musiche. Mauro Santopietro si conferma Attore e Regista di spessore della scena romana e non solo. Nel primo dei sette quadri che compongono Adamo & Eva siamo avvolti dall’aria rarefatta di soffici nuvole bianche e tra l’atmosfera candida e fumosa ecco le altalene fatte di funi – che poi altro non sono che i timori, i tabù, la proiezione delle complessità interne a ciascun individuo, sempre pronti a frenare l’uomo, rallentarne l’azione, la passione, l’iniziativa anche sottoforma di alibi – e poi mele, tante mele invitanti e succose sparse ai piedi dei dondoli fluttuanti. Siamo nell’Eden e subito è chiaro che fin “dai tempi di Adamo e Eva” la donna era, “ovviamente”, l’elemento passionale, curioso, ribelle, talvolta fastidioso e sciocco, imprudente e tentatore al quale si contrapponeva la razionalità, la prudenza, talvolta codarda, la cultura e l’intelligenza dell’uomo. Questa diversità, questa stereotipata distribuzione dei ruoli viene continuamente ribaltata nel passaggio da un quadro all’altro del viaggio spazio temporale con cui i due protagonisti, allontanandosi dal Paradiso, vivono il loro rapporto attraversando epoche storiche lontanissime ma al contempo incredibilmente vicine sotto il profilo della relazione uomo-donna. Dall’età delle Crociate, passando per l’Amor Cortese e la Rivoluzione Industriale fino ai giorni nostri uomo e donna, Adamo e Eva, sono due universi che si attraggono e respingono con pari forza: incomunicabilità da cui nascono incomprensioni e costanti interrogativi sul significato di “Amore”. Questo è il tema di fondo, il grande interrogativo che non trova risposte cristallizzabili in nozioni enciclopediche. Nonostante Eva offra ad Adamo un’impeccabile declinazione del significato di Amore, il senso continua ad essere inafferrabile. Ciò che invece appare una verità ineluttabile è che l’Amore non è eterno e che il matrimonio finisce con il rendere l’Amore una mela marcia minata dall’abitudine. Eva (una bravissima Alessia Giangiuliani), incantevole ed emozionante nel suo splendido abito di sposa bohémien che si infanga sotto la pioggia (compresa la “pioggia” miserevole che sgorga dalla bocca di Adamo, ma anche da quella di Eva), incarna tutte le donne: sognatrice, curiosa, romantica, generosa, fragile, forte e sempre risolutiva si scontra con un Adamo che non ha sentimenti ma passioni mutevoli in funzione del fluttuare delle sue fugaci sensazioni, dei suoi obiettivi primari e che, come tutti gli uomini, recrimina il suo spazio: bisogna lasciargli aria. Se Eva è assetata di conoscenza, se vuole capire trovare un senso per poter amare e costruire, Adamo, accecato dalla sola conoscenza accademica e scientifica, qualunque sia il contesto storico, ha una sola certezza: praticità, che spesso sfocia in semplicismo, e insofferenza quando dibatte con Eva perché ci sono sempre troppe parole, troppe parole inutili. E così, mentre ogni spettatore ha rivissuto, o sta rivivendo, su quel palcoscenico le proprie fragilità, una parte di se stesso e qualche tassello della propria vita di e in coppia, Adamo e Eva ricorrono al piano B, ovvero al divorzio: Eva “placa” le proprie domande e la sete di conoscenza arrendendosi alla vita terrena e, in attesa della morte, alleggerisce la mente dai suoi incessanti pensieri complessi dedicandosi a cure beauty e a letture “impegnate”; Adamo, invece, lasciato finalmente libero nel suo spazio punta verso l’infinito per morire tra le nuvole senza però apparire del tutto convinto e appagato dalla sua egoistica ricerca megalomane. Due universi apparentemente (ed eternamente?) inconciliabili destinati a rimanere soli? A ciascun Adamo spettatore e a ciascuna Eva spettatrice l’ardua risposta. Da non perdere!
data di pubblicazione 13/04/2015
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da T. Pica | Apr 12, 2015
(Teatro dell’Orologio – Roma, 8 aprile 2015 / 19 aprile 2015)
Sulla scia del boom dei talent show dei fornelli va in scena al Teatro dell’Orologio la pièce Note di cucina che già in tempi non sospetti, lontani dalle luci della ribalta televisiva, aveva colto nella “cucina” – intesa come luogo di confronto/scontro e come vera e propria “arte” – la forza attrattiva, come una sorta di inconscio riconoscimento, che essa esercita sull’essere umano, donna o uomo che sia. La voce narrante, e non solo, del bravissimo Giorgio Carducci, avvolto nella sua impeccabile mise elisabettiana, introduce i quattro protagonisti, ma non prima di aver scrupolosamente ricordato a tutti il decalogo delle regole della buona tavola. E dalla “tavola” da cui tutto ha avuto inizio – che lascia presagire un incontro di commensali rievocativo della tavolata, con i suoi altrettanto bizzarri scambi di battute esistenzialistiche, della pellicola di Patroni Griffi Metti, una sera a cena – inizia il dialogo, o presunto tale, tra due uomini (Giancarlo Fares e Alessandro Porcu) e due donne (Sara Valerio e Mariasilvia Greco), cuochi e commensali al contempo. Uno dei due uomini si presenta affermando Io sono Stupido e subito si innesca un ritmato “doppio” di affermazioni, domande, risposte: tutte si rincorrono riflettendo la complessità dell’animo umano. Si susseguono riflessioni sulla vita, sulla società, sulla desolazione dell’anima, sul successo e l’affermazione del singolo, sul guadagnarsi la vita, sul senso della vita: annegare nella vita per qualcuno dei “cuochi” ha un’accezione positiva e si contrapporrebbe al negativo ed “affannoso” stare a galla; per altri invece annegare nella vita non è sinonimo di vitalità, passione, né vuol dire assaporare tutti i sapori e gli odori delle sfumature che la vita offre bensì altro non è che lo smarrimento di chi rimane fermo, e succube degli eventi senza sapere cosa fare, quale strada prendere. Ognuno percepisce e vive le cose in modo diverso. Il mondo è una trappola e ogni strada è sbagliata. Ad ogni nato è stato abortito il diritto di non nascere: i quattro protagonisti, durante un surreale banchetto di nozze sviscerano un dialogo che spesso diviene un “corale monologo” come individuale flusso di coscienza che li accomuna sovrapponendone i pensieri, i timori, i sogni infranti. Il tema della famiglia, della scuola, della precarietà, dell’amore e del rapporto di coppia e con i figli. I capisaldi della società sono affrontati con tratto forte, spregiudicato e ironico da Rodrigo Garcia con incredibili picchi di humor, paradossi e venature amare. In particolare, davvero spassoso e irresistibile è il “quadro” del papà (un bravissimo Giancarlo Fares) che denuncia la scuola, composta dai parassiti dell’educazione, e decide di far crescere suo figlio in “modo sano”, lontano dall’odore di famiglia – fatto di latte, miele, pane, marmellata – portandolo ogni mattina a fare una colazione a base di vermut, ma con olive, e Campari così trascorrerà le ore in classe ridendo continuamente senza ascoltare e “immagazzinare” l’educazione demenziale. Altrettanto acuto e tagliente è la proposta/organizzazione con epilogo finale di una cena “speciale” – Maxim’s di Parigi o dallo Zozzone?-. Visionarie ricette, come in una gara a chi è più bravo quantomeno nel destare meraviglia nei commensali – come la visionaria e iperbolica progettazione/competizione di un banchetto matrimoniale – “pepano” qua e là il testo dello spettacolo insieme all’incantevole voce dell’“elisabettiano” narratore che regala intermezzi musicali d’autore con la giusta ironia.
Da assaggiare e assaporare fino all’ultima goccia amarognola del no sense addolcita dal liuto di Simone Colavecchi.
data di pubblicazione 12/04/2015
Il nostro voto: 
da Maria Letizia Panerai | Apr 11, 2015
Di questa dissacrante commedia a carattere storico, vogliamo solo ricordare alcune frasi celebri dell’indimenticabile Alberto Sordi nelle vesti del Marchese Del Grillo, molto più dirette ed esplicite di un nostro breve ricordo: “Mi dispiace, ma io so’ io e voi nun siete un c****!” ed anche “Quanno se scherza, bisogna èsse’ seri!” ed ancora “Morto un papa se ne fa un altro”… maquesta frase ad oggi non più vera! Ed infine Mia cara Olimpia, méttete in pompa, che sto grillaccio der marchese sempre zompa! Zompa chi campa, allegramente… A proposito di quest’ultima frase, nel film c’è una scena in cui il Marchese portò la bella Olimpia in una hosteria a mangiare i rigatoni con la pajata (piatto tipico della cucina popolare romana) e fu lì che si accorse di avere un sosia, Gasperino er carbonaro, un ubriacone che divenne il protagonista di uno dei suoi più crudeli scherzi. Abbiniamo a questo film, da rivedere e gustare in tutta la sua scarsa sacralità, fulgido esempio assieme a tante altre pellicole della graffiante ironia del suo magnifico regista, proprio una ricetta a base di rigatoni, non con la pajata, ma con un sugo veloce e molto gustoso. Ecco i nostri rigatoni con provola affumicata.
INGREDIENTI:rigatoni (che tengano bene la cottura) o mezze maniche rigate – 3 o 4 cucchiai di passata di pomodoro – una generosa dose di provola affumicata stagionata e non fresca – 1 aglio – peperoncino (a chi piace) – basilico – origano –sale, pepe q.b. – olio extravergine d’oliva – parmigiano grattugiato e pecorino q.b..
PROCEDIMENTO: Mentre bolle l’acqua per la pasta, prendete una bella pentola larga antiaderente con il bordo alto (perché ci dovremo ripassare la pasta una volta cotta), e metteteci a rosolare un aglio in abbondante olio d’oliva con un peperoncino (facoltativo), versare poca passata di pomodoro, sale, pepe ed un pizzico di origano, oltre ad alcune foglie di basilico fresco sminuzzate. Dopo circa 10 minuti di cottura, abbassate la fiamma sotto il pomodoro togliendo l’aglio e, contemporaneamente, mettete a cuocere la pasta nell’acqua bollente; versate quindi nel pomodoro (che è ancora sul fuoco a fiamma bassa) un generoso spicchio di provola affumicata tagliata a pezzetti piccoli (per i quantitativi regolatevi in base al gusto). Appena la provola comincia a sciogliersi ed a filare, ripassateci i rigatoni appena scolati, girate con un mestolo e metteteci a pioggia una bella manciata di parmigiano grattugiato misto ad un po’ di pecorino (proporzione 2/3 parmigiano e 1/3 pecorino). Attenzione: non preparate il sugo molto tempo prima di cuocere la pasta, perché la provola tende a raggrumarsi e quando andrete a ripassare la pasta nel condimento sul fuoco non riuscirete ad amalgamare bene il tutto.
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