A BODY THAT WORKS – serie Netflix, 2024

A BODY THAT WORKS – serie Netflix, 2024

Ellie e Iddo (Rotem Sela e Yehuda Levi) sono una coppia apparentemente stabile e affiatata. Vogliono un figlio, un sogno che inseguono da anni. Dopo l’ennesimo aborto spontaneo, e l’ennesima delusione, decidono di fare ricorso ad una madre surrogata. Incontrano una giovane donna (Gal Malka), già madre di un bambino e quasi del tutto priva di mezzi di sostentamento. Sarà questa donna a portare in grembo quell’embrione, quel figlio tanto desiderato dai due sposi. Le conseguenze, impreviste anche se forse prevedibili, comporteranno turbolenze improvvise e repentini dirottamenti. Da seguire col fiato sospeso, e su cui riflettere.

A body that works, un corpo che funziona. È il titolo di una serie israeliana, attualmente distribuita a livello internazionale. Nella versione inglese sarebbe anche – letteralmente – un corpo che lavora. Nella storia che ci viene raccontata, il lavoro da portare a compimento è mettere al mondo un figlio. E lo strumento è il corpo della donna.

Meccanismo rodato da secoli, quello della riproduzione. Che può incepparsi, talvolta. Come se vi fosse un difetto di fabbrica o mancasse l’anello di una catena. Come se venisse meno un tratto di un binario ferroviario. Nella traduzione francese si direbbe un corps qui marche, dove funzionare e camminare, nel senso di avanzare o procedere, appartengono ad uno stesso nucleo semantico. Una unica cellula. Così viene mostrato nel corso degli otto episodi che compongono la serie: il corpo di una donna altra – madre surrogata – di mese in mese cresce nella gestazione, e nella consapevolezza di sé. Inversamente, la madre biologica, da cui gli ovuli sono stati prelevati, subisce uno stop. Si arresta, regredisce persino, quindi si perde in giri tortuosi, di fatti e di parole. Il suo corpo non funziona come dovrebbe, e la mente si cristallizza. Nei banali riti scaramantici (vietato rivelare il nome scelto per il nascituro). Nella negazione di una intimità sessuale con il partner. Nel controllo quasi morboso del corpo dell’altra (via il cellulare dalla tasca dei pantaloni, niente sigarette, prescrizioni mediche rigorose). Delirio e parossismo, che si riflettono anche sul proprio lavoro di curatrice editoriale, alle prese con uno scrittore egocentrico (Tomer/Lior Raz). Le parole, messe a nudo, e ostinatamente sviscerate, si trasformano in enigmi irrisolvibili, benché rivelatori di crude verità. Emblematico il duello tra lei e l’autore sull’inserimento di una frase, altrettanto emblematica: quel momento seminò una crepa.

I personaggi maschili, dal canto loro, che siano mariti o amanti, padri o nonni, appaiono tanto impotenti quanto pretenziosi. Più che garantire reale sostegno questi sembrano contribuire a un’opera di demolizione dell’io, forse preludio inconsapevole di una successiva ricostruzione. Così Chen, madre in affitto, viene accusata dagli uomini della sua vita – il proprio padre e il padre di suo figlio, redivivo – di vendere il proprio corpo per soldi, di non fare nulla di buono. E soprattutto, Ellie – tanto inflessibile nell’esercizio della professione quanto insicura e fragile nel proprio intimo – diventa bersaglio del marito. Iddo il buono, Iddo il bello, quello che tutti adorano, quello che sarà all’altezza, un ottimo padre. Al suo cospetto lei è la donna senza utero, o dall’utero danneggiato. Inospitale, incapace di trattenere la vita e di proteggerla. E da cui la vita stessa fugge, sottraendosi alla sua presa, e alla sua tutela. Da qui, la scelta quasi obbligata dell’evasione – o della diserzione – che la porterà lontano da lui, dalla propria casa, dal proprio Paese. E poi il rifiuto di quel ruolo di madre incompleta o fittizia. Fino alla totale disumanizzazione, di se stessa e dell’altra, suo alter ego: Siamo ciò che siamo. Tu incubatrice, io bancomat.

Ma alla fine di questo lunghissimo e duplice travaglio, c’è qualcosa di nuovo che nasce, o rinasce. A dispetto di qualsiasi imperfezione o mancanza, di qualsiasi accusa o sbaglio precedente. Sbagli, mancanze e imperfezioni – e accuse – rimangono lì, infine, esclusi dalla sala dove si produce la vita. Tagliati fuori, e fuori della porta ad aspettare, cercando di captare segni.

L’epilogo, tra il drammatico e il poetico, è tutto da scoprire. In contrasto con le aspettative suscitate dai primissimi episodi, certamente. Un epilogo imprevisto. Anche se forse prevedibile.

data di pubblicazione:12/07/2024

UNBELIEVABLE di Susannah Grant – Netflix

UNBELIEVABLE di Susannah Grant – Netflix

La serie è ispirata a una storia vera e il plot si basa su un articolo, vincitore del Premio Pulitzer, che ne trattò il caso, An Unbelievable Story of Rape. La protagonista, Marie Adler, denuncia uno stupro, avvenuto in casa sua, di notte, mentre dormiva nel suo letto. Ad opera di uno sconosciuto, incappucciato ed armato, svanito poi nel nulla senza lasciare tracce. Marie racconta più volte l’accaduto, in sedi diverse, con testimonianze verbali e deposizioni scritte. Ma è un’adolescente con problemi, poco più che una bambina “senza famiglia”, cresciuta tra assistenti sociali e genitori affidatari diversi. Dunque, soggetto non attendibile. Dovrà rispondere a reiterati interrogatori, replicare le versioni del proprio racconto, rivivere quella notte mentre la accusano di avere inventato tutto. E infine, ritrattare. Incredibile, non è vero?

 

Unbelievable è l’atto di non credere. A qualcuno o a qualcosa. Non si crede per diffidenza. Per convenienza. Talvolta per cinismo o per presunzione. Come nel caso dei detective ed altri “esperti” indagatori che qui si impongono sin dai primissimi episodi. Questi pretendono di saper riconoscere la verità, al di là di ciò che potrebbe ragionevolmente essere ritenuto una prova (evidence) perché venuto fuori da chi ha appena “patito” un male.

È ciò che accade alla giovane Marie, protagonista della storia (e non sarà l’unica), interpretata da Kaitlyn Dever. Si comincia a scavare nel suo passato, infelice sin dalla prima infanzia. A rovistare nei suoi dossier come tra le pieghe dei suoi traumi precedenti. Si perquisiscono le “stanze” del suo vissuto volendo repertoriare le “prove contrarie”: bisogno di attenzioni, comportamenti manipolativi, tendenza alla bugia per eccesso di immaginazione. L’indagata diventa lei. Nella “anatomia del dubbio”, il sospetto ricade su di lei. Con un peso maggiore di quel corpo che le crollava addosso, a più riprese, quella notte. Nessuno le crede. E piuttosto, incredibilmente, viene condannata per falsa testimonianza.

In una sorta di universo parallelo, da un’altra parte di quell’America tanto vasta quanto varia, un’altra donna, avendo patito il medesimo male, viene ascoltata. Ascoltata davvero. E dopo di lei – o grazie anche a lei – una social catena di altre creature si va delineando. Più efficace di quell’introvabile DNA, che talvolta risulta persino duplice e ingannevole, oltre che ostile.

Due ispettrici, Karen e Grace (rispettivamente Merritt Wever e Toni Collette), dal temperamento opposto – una credente e tendenzialmente mite, l’altra razionale e impetuosa – si ritrovano unite, e complici. Tanto nella “caccia all’uomo” quanto nella tutela di chi è riconosciuto come vulnerabile, a rischio di “estinzione” o annullamento di sé. Finalmente, tutto diventa degno di attenzione e di fiducia. E finalmente, si crede. Si crede per fede, si crede per solidarietà. Solidarietà di specie e non soltanto di genere. Per dare un senso alla propria vita, preservando quella degli altri. È tutto qui, l’aspetto più originale di questo crime thriller sceneggiato, diretto e prodotto da Susannah Grant. Ascoltare, accogliere, condividere il pathos, lottare insieme. Per essere chiamate donne, per essere chiamati uomini. Esseri umani, col privilegio di vivere in una società libera.

Una nota particolare meritano, quasi per legge di contrappasso, certe inquadrature di quel corpo maschile (un metro e ottanta, massiccio ma con un ventre quasi molle), privato degli abiti (tolga tutto!), sottoposto ai flash di una macchina fotografica e manipolato coi guanti sino nelle parti più intime. Le gambe divaricate, lo sguardo fisso in avanti, questo molosso – grottesca caricatura dell’uomo vitruviano – si mostra agli occhi dello spettatore come icona del non umano. Da cui non lasciarsi contaminare, mai. E dunque, per non correre il rischio, poliziotti investigatori infermieri assistenti sociali giornalisti semplici amici o conoscenti, persone comuni insomma, in futuro “facciano di meglio”.

Next time, do better.

data di pubblicazione:09/06/2024

SEI FRATELLI di Simone Godano, 2024

SEI FRATELLI di Simone Godano, 2024

I cinque figli di Manfredi Alicante, avventuriero impunito e padre latitante da sempre, si ritrovano a condividere per alcuni giorni la stessa casa, dopo la morte improvvisa di lui. Il tempo di aprire il testamento e decidere il da farsi. L’eredità è un allevamento di ostriche a Bordeaux, convertito in una coltura di perle, illusoria come un miraggio in una duna di sabbia; un mucchio di debiti, qualche mollusco dal sapore salmastro e un’unica perla, imperfetta e di poco valore; una perla di nome Luisa.

 

Sei fratelli è una storia di famiglia. Una come tante, ma amplificata tanto nel numero quanto nella materia. In questo nucleo “allargato” e sfilacciato, Luisa (interpretata da Valentina Bellè) è la sorpresa, la sesta figlia, fino a quel momento ignota a tutti; la sesta punta della stella, il lato nascosto dell’esagono (la storia è ambientata in Francia, forse non a caso), una sesta nota “stonata”, che fa fatica ad entrare nel coro, in una polifonia già di per sé dissonante. Cinque fratelli “legittimi”, noti e riconosciuti, ciascuno con un suo “carattere” senza mai essere fino in fondo stereotipi si contendono la scena, in perenne conflitto con se stessi e con gli altri a loro vicini; perennemente alla ricerca di un proprio centro di gravità, di un legame da recuperare – o da creare – malgrado tutto. Con gli abbracci o con le botte. Urlando vecchi rancori o sussurrando nuove confidenze.

Al di sopra di tutto – narratore onnisciente già dall’incipit del film attraverso la voce fuori campo di Gioele Dix – quel padre che ha dato più volte la vita, ma senza curarsene, e generando menomazioni dell’anima come del corpo: così Marco, il prediletto (Riccardo Scamarcio), zoppica per un male al tallone, il giovane Mattia (Mati Galey) è quasi muto e Leo (Gabriel Montesi) ha problemi d’udito, oppure finge. E poi c’è l’ibrido, Luisa, l’intrusa nella famiglia, simbolo dell’alterità straniante che però aiuterà a chiudere il cerchio (anche fisicamente, attorno al tavolo del notaio, in esordio e in chiusura). Lei che di quel padre “anche suo” ha preso quel “poco” che ha potuto, e che se l’è “fatto bastare”.

E adesso che sono lì, tutti quanti, orfani di colui che era insieme pecora nera e capro espiatorio, quel padre amato e odiato, voluto e respinto, lontano e accusato in contumacia di essere il cattivo per eccellenza… “a chi daranno la colpa, per la loro infelicità”.

Il regista Simone Godano, metteur en scène e direttore d’orchestra, scandisce bene tempi e dinamiche all’interno del film, e si lascia seguire, grazie anche a una sceneggiatura semplice ma intensa, che non cede a facili coups de théâtre, né a luoghi troppo comuni.

Belle le luci di Bordeaux di notte; suggestive le note di quella sonata in si minore, eseguita al piano sin dalle prime scene e che ritorna, più volte, nella storia.

data di pubblicazione:20/05/2024


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