da Daniela Palumbo | Giu 13, 2025
presentazione della stagione estiva del Teatro Biondo 2025
(Palazzo Ziino – Palermo, 12 giugno 2025)
Richiamandosi alla presentazione della stagione teatrale 2025/2026 del mese scorso, questo incontro nella sede dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo mira a rinnovare l’invito a teatro rivolto alla città tutta intera, nel cuore pulsante della stessa. Il teatro non chiude le porte, il teatro non va in vacanza.
In linea con il fine che si propone il Teatro sotto la guida di Valerio Santoro, la rassegna appena presentata, forte della felice intuizione del nuovo direttore artistico, esce fuori dalle mura del palazzo (il Teatro Biondo Stabile), eleggendo come “residenza estiva” la splendida cornice della Galleria d’Arte Moderna. Qui lo spettacolo, all’ombra del chiostro interno alla GAM, “sotto il cielo di Palermo”, si presta a nuove interpretazioni, offrendo diverse chiavi di lettura per svelare l’anima della città. Il centro storico, non soltanto luogo di svago e di “degustazione” a vantaggio quasi esclusivo dei tanti turisti, tende a recuperare – grazie ad iniziative come questa – una sua dimensione culturale, fortemente connessa all’identità profonda del capoluogo siciliano, e dei suoi abitanti.
In programmazione, otto spettacoli (dal 19 giugno al 23 luglio) che – come precisa lo stesso Santoro – rappresentano una “sintesi di generi diversi”. Così come i grandi artisti in cartellone si alternano alle nuove voci del teatro, in un’ottica di apertura a tuttotondo (ben sei, gli appuntamenti previsti per scoprire e premiare la nuova drammaturgia under 40).
Non mancano i temi di denuncia (La caja de concreto – La scatola di cemento di Alessandro Ienzi, drammaturgo e avvocato per i diritti umani), di invettiva (La grande menzogna di Claudio Fava, dialogo immaginario di un Paolo Borsellino redivivo con un pubblico troppo distratto), di rivolta contro la mercificazione della donna (Ragazze all’ingrosso, di Rossella Pugliese). Terroni, adattamento di un saggio di Pino Aprile per la regia di Roberto D’Alessandro, chiude il ciclo di rappresentazioni (22-23 luglio), con la volontà di consegnare agli uditori una sorta di ribaltamento della storia ufficiale dell’Unità d’Italia.
Risalta, infine, nello spazio ideale di questa “estate a teatro”, un viaggio attraverso i sentimenti, di ieri e di oggi: così va in scena Like Alcestis, saggio sull’amore di Rosario Palazzolo, regista e autore del testo. Immaginato e scritto – come lui stesso orgogliosamente spiega – “su misura per ciascuno degli allievi della Scuola di recitazione del Teatro Biondo di Palermo”.
Biondo d’estate, accattivante nell’ambientazione come nel nome stesso, annuncia dunque un teatro personificato, solare, variegato. E ancora una volta, aperto a tutti, sempre.
data di pubblicazione:13/06/2025
da Daniela Palumbo | Giu 12, 2025
Per la nuova edizione di Cinema in festa, il Rouge et Noir di Palermo ripropone il musical Dancer in the Dark, proiezione in lingua originale di una versione restaurata del film, già vincitore a Cannes nell’anno 2000. È la storia di Selma, immigrata cecoslovacca negli Stati Uniti, condannata alla cecità per una malattia degenerativa, la stessa che è stata trasmessa geneticamente al figlio Gene. Unica via d’uscita, per salvare almeno lui dal “buio”, un’operazione molto costosa, per la quale la donna risparmia lavorando “a tentoni” e senza sosta in fabbrica. Quando la somma racimolata – lasciapassare per la luce – le viene sottratta dal padrone di casa senza scrupoli, la situazione precipita. Così lei, accusata di omicidio e sottoposta a giudizio, sarà condannata al braccio della morte e ad una prolungata agonia.
I temi affrontati in questo film, l’emarginazione e l’handicap – tanto quello fisico, del singolo, quanto quello dell’intero sistema – sono tra i più dolorosi, e tra i più duri da trattare. È il sogno americano tramutato in incubo. Dove la povertà, la disabilità (Selma immigrata ceca quasi cieca) e la colpa o colpevolezza vanno di pari passo, ma in una contrapposizione ideologica connotata anche geograficamente (Selma donna dell’est nel paese dei colonizzatori).
La sceneggiatura, tuttavia, si colora di interpretazioni candidamente poetiche (quella di Björk nelle vesti della protagonista, innanzitutto, ma Catherine Deneuve in versione teneramente materna, o Peter Stormare nel ruolo di Jeff, l’innamorato fedelissimo, non sono da meno). Così come di canti e danze tra l’ironico e il visionario (di punto in bianco tutti si mettono a ballare e a cantare!), concentrati di inquietudini escapiste che diluiscono il pathos nei momenti cruciali.
Ciascun rumore o ticchettio, gli stessi suoni dei macchinari nella fabbrica diventano musica. Ciascuna mossa un passo di danza. Lo stesso ricorrere dei numeri, nel corso della narrazione, sembra “dare il tempo”, come seguendo una partitura (citati più volte i 2056 dollari e 10 centesimi messi insieme a fatica; scanditi da più voci, nel finale, i 107 passi verso il patibolo).
Per di più, da quell’unica macchina da presa a mano dei momenti più cupi o iperrealistici si passa a una moltitudine di videocamere in grado di dilatare lo spazio, proprio quando il musical prende campo. Punti di vista molteplici che sono altrettanti occhi dati in prestito a chi non può più vedere. Ma cosa c’è da vedere? canterà Selma, di fronte ad un Jeff improvvisamente turbato e incredulo, nella scena del binario (“tu non vedi!”). Ed è come se lo chiedesse a ciascuno di noi, noi spettatori. Cosa c’è da vedere? Non le cascate del Niagara, non la Tour Eiffel né la Grande Muraglia cinese. Non le sette meraviglie del mondo, niente di tutto questo. Se volete vedere l’innocenza mortificata e punita, se volete guardare in faccia la giustizia mentre si prostituisce per denaro, drogata di pregiudizio. Se volete vedere la pietà, anche, qui nell’amica Kathy/Cvalda e persino nella carceriera compassionevole. Se volete vedere l’amore di un uomo, pronto al sacrificio per lei, la donna amata, per non lasciarla sola nel momento estremo. Questo è il film da guardare, con cuore e coraggio. E senza troppa paura.
data di pubblicazione:12/06/2025
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da Daniela Palumbo | Mag 17, 2025
È la storia vera di Francesca Morvillo e di Giovanni Falcone, portati in scena con i loro nomi propri, mentre vivono – come suggerisce il sottotitolo del film – la loro vera storia d’amore, che è anche la storia di una guerra. È la Sicilia oppressa dalla mafia (quella di Cosa Nostra, ma anche quella di un “mare nostro” dove si ingrassano “i pescecani”), straziata da attentati e stragi che sembrano non avere fine: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici. Dove ci sono “morti che camminano”, persone che vivono giorno dopo giorno facendo dono di se stessi, e sfidando la paura della morte, per uno scopo. Come loro, come Francesca e Giovanni.
Dov’è Giovanni? Lo cercheremo, nel corso di questa toccante ed insolita rievocazione, puntando a scorgervi, in filigrana, il giudice celeberrimo, l’eroe, l’uomo che voleva “cambiare il mondo”.
Dov’è Giovanni, se non in un’aula di tribunale, alla scrivania, sulle carte, o nella sala degli interrogatori? Qui lo troviamo, così come lo ha trovato lei, Francesca, in quello sguardo discreto e un po’ smarrito, quello del primo incontro. In quella mano sulla spalla dell’amico, quasi fratello. Nel gesto improvviso, precipitoso, che s’infiamma di fronte all’ingiustizia o alla calunnia. Nel sorriso che accarezza la sua donna e rimane lì, fisso su di lei, fino all’ultimo istante di vita.
Dov’è Giovanni, saranno le ultime parole – sussurrate appena – di Francesca (interpretata da una emozionante ed intensa Ester Pantano), eco di un cercarsi vicendevolmente, dopo essersi trovati quasi per volere del destino, per mai perdersi, mai lasciarsi, a costo del sacrificio più grande.
Francesca, magistrato anche lei, procuratore presso il tribunale per i minorenni, fiore dallo stelo robusto tra le mura del Malaspina (il carcere minorile di Palermo), dove proliferano brutture dell’animo, sudiciume e pidocchi. Lo sguardo che ci guida, e ci attraversa insieme, è quello di lei.
Innamorata della famiglia, nel ricordo degli insegnamenti ricevuti sin dall’infanzia. Dei giovani, vittime delle “eredità dei padri”. Della propria terra, ricordata nella sua bellezza crudele, troppo spesso deturpata e offesa. Innamorata di lui, di Giovanni, di un amore che si nutre di stima e di condivisione profonda. Una passione che travalica l’appello dei sensi e la stessa intesa mentale. Ed è proprio attraverso quel suo sguardo – sguardo di donna – che scaturisce l’umanità, straordinaria ed essenziale, di lui. Di quell’uomo, figlio della Kalsa (Primo Reggiani gli presta il volto, in una prova alquanto efficace), che “non ha paura di nulla”. Se non di perdere lei, di mettere a rischio la vita di lei. Di non riuscire a proteggere la sua compagna.
La dimensione intima, seppure strettamente connessa a realtà storiche fedelmente riferite, prevale su quella pubblica, professionale, rivelandone al contempo tutta la drammaticità e lo spessore.
E in quella stessa intimità, tutto quanto riflette la natura duplice di situazioni e luoghi, atmosfere e stati d’animo. Così, sagome armate (gli agenti della scorta) e sirene perennemente in sottofondo fanno il controcanto alla serenità disarmante di un tramonto, o alla trasparenza di un fondale marino. Lungo i vialetti di un chiostro o per le scale della casa materna.
Legami di sangue e rapporti d’amore in embrione vengono immolati sull’altare dell’omertà e dell’onore (il caso del sedicenne Dino, presunto parricida preso a cuore da Francesca, ne è un esempio significativo).
Si prova rabbia per alcuni, compassione per altri. Si soffre, percorrendo ancora una volta, sullo schermo, la via di una fine annunciata e avvenuta.
E se al termine di tutto, viaggiando insieme a loro, a Francesca e a Giovanni, su quel tratto di autostrada, quasi ci aggrappiamo a quegli occhi ignari e consapevoli, dell’uno e dell’altra, è perché la loro storia è la storia di tutti noi. E rivivendola, possiamo solo dire “grazie” tutti insieme. E insieme, piangere.
data di pubblicazione:17/05/2025
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da Daniela Palumbo | Mag 9, 2025
(Teatro Biondo – Palermo, 8 maggio 2025)
Al Biondo di Palermo, una campagna abbonamenti lanciata in anticipo rispetto alle date consuete e incentrata su una felice combinazione di nomi autorevoli e nuove prospettive. Con una mano protesa verso i giovani, ricercati sia come fruitori sia come portatori di modernità. E un abbraccio che si estende a tutto il territorio e oltre.
“Teatro Biondo – Cultura aperta”: l’insegna s’impone come primo tratto distintivo del progetto, presentato in anteprima con soddisfazione ed entusiasmo. Una cultura, ovvero un teatro che s’intende “percorribile”. Aperto a ciascun tipo di pubblico, al territorio nella sua interezza, ai diversi generi teatrali.
Sul palco della Sala Strehler – preceduto da Gianni Puglisi, Presidente del Teatro Biondo – si svela, con la parola e con il gesto, il direttore artistico Valerio Santoro. “Uomo di teatro”, come lo definiscono ed egli stesso si definisce. Eclettico per passione.
Un corale e colorito benvenuto in perfetto gergo teatrale (assessori alla Cultura e al Turismo ed altri artisti – attori e registi locali – gli fanno compagnia in questa sede) introduce il nuovo protagonista. “Un napoletano a Palermo” (o quasi napoletano), ospite di questa “terra magnetica” e insieme labirintica, dove fermentano e proliferano la “poesia e la musica”, nel segno della speranza. Duettando idealmente con il maestro Marco Betta, sovrintendente del più noto (in campo nazionale) Teatro Massimo di Palermo, Santoro annuncia, inoltre, un singolare coniugio tra prosa e lirica. L’obiettivo: lavorare “insieme” per creare armonia, e diffonderla ovunque la sua voce possa giungere.
Dunque, un progetto ampio e ambizioso. Che si concretizza e si manifesta quasi come una visione. Una sorta di “onda culturale”, un’onda lunga, volta a raggiungere finanche le zone più marginali o periferiche della città. Uno specchio d’acqua, in altre parole, limpida o torbida, a seconda della storia. Dove ciascuno potrà vedere riflessa (da qui il titolo Storie che si riflettono) una parte di se stesso, trasferendo dal palcoscenico alla platea – e viceversa – molecole d’anima, particelle di vita.
Il cartellone, di cui vengono enumerati alla fine gli spettacoli della stagione (a cominciare da Re Chicchinella di Emma Dante, 18-26 ottobre), si presenta corposo e vario. E vanta nomi prestigiosi, da Silvio Orlando (Ciarlatani di Pablo Remón, 18-23 novembre) a Toni Servillo (Tre modi per non morire di Giuseppe Montesano, 28 gennaio-1febbraio). Da Giuliana De Sio (Il gabbiano di Anton Čechov, 4-8 febbraio) a Gabriele Lavia, regista e interprete in Lungo viaggio verso la notte (3-8 marzo).
Una menzione particolare merita La principessa di Lampedusa (data unica, 11 ottobre), diretto e interpretato da Sonia Bergamasco, una trama che si iscrive nell’ambito del “Progetto Gattopardo” che si svolgerà nell’arco di un triennio, fino al 2027.
Un invito al viaggio, dunque. In un teatro che vuole vagare, ritrovandosi, oltre le barriere del tempo e dello spazio.
data di pubblicazione:09/05/2025
da Daniela Palumbo | Mag 1, 2025
Un treno ad alta velocità diretto a Tokyo rischia di saltare in aria per effetto di una bomba piazzata nelle vetture da un anonimo attentatore. Impossibile viaggiare al di sotto dei cento chilometri orari, impossibile frenare. Difficile, per il personale di bordo, gestire l’emergenza e le reazioni dei tanti passeggeri, facendo i conti al tempo stesso con la paura di morire. Suspense garantita fino all’ultima sequenza o quasi: chi si salverà? chi dovrà essere sacrificato?
Remake di una pellicola giapponese datata 1975 (vaghe reminiscenze del contemporaneo Cassandra crossing potrebbero affiorare alla mente di qualche spettatore), questo thriller a tema ferroviario offre un miscuglio ben dosato di adrenalina e commozione.
Vi si ritrovano, uno dopo l’altro, tutti i “passaggi” tipici del genere. Dalla breve carrellata dei personaggi – molto diversi tra loro – nella parte introduttiva, all’irruzione della minaccia con crescente percezione del pericolo. Panico tra i passeggeri, scontri spesso violenti, e tensioni tra gli “addetti” a mantenere ordine e controllo. Tra questi, spicca la figura del capotreno Takaichi (interpretato da un intenso Tsuyoshi Kusanagi), sin dalle prime scene presentato come una sorta di nume tutelare dei vagoni, tanto calmo, quasi imperturbabile, quanto attento e scrupoloso. A lui il compito di proteggere, mettere in salvo ciascun viaggiatore (non uno di meno), mantenere viva la speranza, in più di un senso. E al di là dei binari, nel chiuso di un’efficientissima centrale operativa, il medesimo ruolo è svolto, col massimo del coinvolgimento, dal direttore e dai collaboratori tutti, compreso un rappresentante del governo per buona parte della vicenda trincerato nel proprio cinismo.
Il tratto di maggiore originalità – nella narrazione di questa storia che è luogo comune del cinema – è dato da quelle “suggestioni d’oriente” di cui la pellicola risulta per buona parte impregnata. Così il tema si snoda, al ritmo vorticoso del treno, tra un harakiri autopunitivo – percepito nelle scene più impetuose o drammatiche – e una pacata saggezza, messa in risalto grazie a certi primi piani realizzati ad hoc, con focus sullo sguardo.
Tecnologie all’avanguardia e umanità, reciproci e profondi inchini – segno di obbedienza o devozione – ma anche spirito di squadra e senso di appartenenza, ponderazione e operosità estrema si alternano armoniosamente fino alle ultime riprese. Con un messaggio che prevale su tutto, persino sull’angoscia della catastrofe, o sull’istinto di sopravvivenza: amare chi non riesce ad amarsi è l’unica salvezza possibile. Per tutti quanti. Perché, semplicemente, “è difficile da credere, ma si può sempre ricominciare”. Insieme.
data di pubblicazione:01/05/2025
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