MI ABITO di e con Miriam Palumbo

MI ABITO di e con Miriam Palumbo

regia di Emilio Ajovalasit

(Teatro Atlante – Palermo, 8/9 novembre 2025)

Una ragazza, desiderosa di unirsi ad un gruppo di amiche ed amici, passa in rassegna i diversi capi del proprio guardaroba alla ricerca del “giusto outfit” per una festa. Il movimento frenetico dall’uno all’altro look – lasciapassare per l’integrazione – assume via via i tratti di una crisi di identità, qui correlata tanto al trasformismo teatrale quanto al processo di metamorfosi dell’Io.

Lo spettacolo di questa sera, annunciato e introdotto dalla viva voce del regista, è espressione di un teatro che nasce da “una necessità”. Ovvero “fare teatro” è dare spazio e respiro a qualcosa che si ha dentro e quasi spinge per uscire. Per lasciare che si manifesti e fare in modo che venga condiviso. Così, passando dall’indefinito alla forma, dal caos alla quieta armonia, su questo palco il soggetto rivela – o piuttosto “svela” – il suo essere crisalide senza più un involucro. Come pure esprime l’affannosa ricerca di una individualità definita. Dapprima attraverso “l’abito” e infine a prescindere da questo.

Presenza unica sulla scena, con un lungo monologo che a tratti simula lo scambio con un interlocutore “altro”, Miriam Palumbo “veste i panni” di Bianca, una donna giovanissima, sola ma traboccante di affetto (“Vi voglio bene!”: le parole con cui esordisce, quasi tremante). Disposta a spogliarsi di sé – e ansiosa di farlo, in una lotta simbolica contro il tempo – per aderire a un modello socialmente accettato.

Motivo ricorrente della tradizione anche cinematografica – che sia il “glow up” per mano di una “fata aiutante” o la conquista del perfetto look attraverso il convulso va e vieni dal camerino – il cambio d’abito può sembrare un gioco. Un gioco innocente come le bambole che alle bambine hanno insegnato a vestire. Buffo all’apparenza, come la goffa andatura su dei trampoli “a spillo”. Divertente, come certe battute che strappano il sorriso (la mise raffinata, da studiosa di filologia “romantica” si alterna al look aggressivo e fosco da patita di musica “trans”). Un gioco crudele, in realtà. Poiché richiede uno sforzo che snatura e falsifica, che deforma persino. Facendo della persona una caricatura di sé, o la copia di qualcun altro, o addirittura una pasta da modellare.

La “caccia all’abito” da indossare è al tempo stesso la ricerca di una “casa” da abitare. Ma la casa è “abitata”, a sua volta, da altre presenze o entità. Ora è infestata dagli spettri del passato, che hanno portato via con sé “pezzi di noi”, lasciandoci mutilati, seminudi. Ora è invasa dalle voci del presente, echi giudicanti impietosi (“Non sei come lei! Non sei abbastanza!”).

Al “centro” della scena – arredata con qualche vecchio mobile e un appendiabiti che funge talora da muto sostegno – una valigia, che rimane chiusa e misteriosa per gran parte della rappresentazione. Rivelandosi, alla fine, come fonte di pura saggezza; riscoperta di verità sepolte nella memoria personale e familiare. Una sorta di epifania, per ritrovare la via, rifiorire. E così, oltrepassando la soglia di ogni singola e limitante “dimora”, il messaggio, liberatorio come un canto spontaneo, si estende alla platea tutta. Su cui si irradia il sorriso di lei, Bianca/Miriam.

Eccezionale la prova di questa giovane interprete – che è anche autrice del testo, da lei stessa “concepito” -, per cinquanta minuti padrona assoluta della scena, del linguaggio e delle emozioni. Che vive insieme al suo pubblico.

data di pubblicazione:09/11/2025


Il nostro voto:

RE CHICCHINELLA scritto e diretto da Emma Dante

RE CHICCHINELLA scritto e diretto da Emma Dante

(Teatro Argentina – Roma, 28 ottobre/9 novembre 2025)

(Teatro Biondo – Palermo, 18/26 ottobre 2025)

La pièce conclude la trilogia ispirata ad alcune fiabe dello scrittore campano Giambattista Basile, ed è un libero adattamento di uno dei suoi “cunti”. Reduce da una battuta di caccia e in preda a un improvviso ed incontenibile bisogno fisiologico, re Carlo III, per pulirsi dopo l’evacuazione, decide di adoperare una gallina “dalle morbide piume” che giaceva in terra e che lui credeva morta. Errore fatale: questa, ancora viva, attraverso quel varco “proibito” e oscuro, si insinua dentro il suo corpo, prendendone possesso irrimediabilmente.

Carlo III d’Angiò, qui tristemente ribattezzato Re Chicchinella, è un sovrano. Possiede una corona, un mantello rosso e una sfilza di titoli da sciorinare. Ma il nome altisonante lascia il posto ad una buffa onomatopea. E su questo palcoscenico spoglio di orpelli e di suppellettili, il re è nudo. Coperto soltanto, dalla vita in giù, da un’ampia gonna a balze, che ricorda le ballerine di can can. I cortigiani invadono il palco, danzando, tra lustrini e paillettes, e la scena si apre allo spettacolo di un cabaret parigino, o meglio, alla sua parodia.

Francese e napoletano – lingue opposte e complementari -, così come passato e presente, si mischiano. In uno scambio di gesti, ora affettati ora istintivi, e di battute sagaci e insieme amare. Il tocco naïf è affidato ai due servitori, in calzamaglia intera color della pelle. Si mostrano anch’essi nudi, come il loro sovrano, che accudiscono sin dalle prime ore del giorno come fosse un bambino.

Il grottesco risiede in questa miscela di elementi visivi e narrativi – abilmente integrati all’interno di una scenografia originale e a tratti visionaria – in forte contrasto con il dramma della malattia e della morte incombente. Il re, cui per tradizione si addice la posa eretta e fiera, si ritrova qui accovacciato, piegato in avanti nel gesto di sottoporre alla vista altrui il proprio posteriore. Soggiogato dall’animale che credeva ormai inoffensivo, e che gli impone una metamorfosi degna di un bestiario medievale, Chicchinella sperimenta il disagio, la sofferenza, e anche il cinismo e l’avidità di coloro che lo circondano. Comprese la figlia e la consorte dai “nobili natali”.

Come nella celebre favola di Esopo, il re produce, dopo ogni pasto, delle uova d’oro. Divenute oggetto della cupidigia dei familiari. Ma in senso opposto rispetto alla versione originale, qui è proprio il protagonista a decidere di porre fine alla propria esistenza. Un ultimo tentativo da parte di uno dei tanti medici venuti apposta per visitare il suo “regale deretano”, e il re si accascia a terra privo di vita. È il momento più emozionante: sulle note struggenti della celebre aria di Händel – Lascia ch’io pianga -, si mette in atto l’estremo intervento per tentare di espellere la “creatura” dalle viscere del re. Con le mani nude di medici e infermiere, con le spinte vigorose, e alla fine, persino con un forcipe. Mentre si assiste a questa sorta di “parto al contrario” – parto fallito, che si chiude con l’inevitabile sacrificio umano -, la risata s’arresta e la platea quasi trattiene il respiro. Ci si commuove, per qualche momento, si prova compassione per l’uomo. Per poi tornare, ancora una volta, a ridere e a stupirsi, posando lo sguardo su di lui, “Sua Maestà/Sa Majestè”. In qualche modo e assurdamente redivivo.

data di pubblicazione:19/10/2025


Il nostro voto:

LA PRINCIPESSA DI LAMPEDUSA di Ruggero Cappuccio

LA PRINCIPESSA DI LAMPEDUSA di Ruggero Cappuccio

diretto e interpretato da Sonia Bergamasco – musiche di Marco Betta e Ivo Parlati

(Teatro Biondo – Palermo, 11 ottobre 2025)

Si inaugura così la stagione teatrale del Biondo di Palermo, e il progetto triennale “Cultura aperta”: con uno spettacolo preceduto da un ballo, dal sapore di altri tempi, nel cuore della città. Il tema conduttore è il mito del Gattopardo. Fantasia e storia, sfarzo e decadenza si mescolano e si fondono. In un tripudio di suoni e colori, pervaso di sottile malinconia. Grazie alla scrittura di Ruggero Cappuccio, si recupera la genesi del mito stesso, facendo rivivere il personaggio di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, principessa di Lampedusa. Madre di Giuseppe Tomasi, autore del celebre romanzo, questa si pone alla ribalta come donna di carisma e di spessore, che neppure la morte metterà a tacere.

Oggi a Palermo si allestisce un sogno, fuori e dentro le mura del teatro. Coppie di ballerini in costumi d’epoca – dalla Compagnia nazionale di danza storica – sfilano per le strade del centro fino alla piazza Villena, “Teatro del Sole”. Al centro, un palco, un pianoforte a coda e due giovani talenti, allievi del Conservatorio di Musica di Palermo: Enrico Simonetta, pianista, e Luciano Giambra, tenore. Così “l’aurora di bianco vestita” e “o sole mio” vengono fuori dal petto e dalle labbra, e dalle abili dita. Scintillano. Perché non c’è magia senza la musica. Tutt’intorno, a fare da cornice ma anche soggetto del quadro, una folla di palermitani in festa, protagonisti veri, più che semplici comparse.

È questo il progetto del direttore artistico Valerio Santoro: un teatro a tutto tondo, che dilaga, sconfina e “invade” il territorio, facendolo proprio e donandosi completamente.

E quando la platea si ricompone, al chiuso, davanti ad un sipario nuovo fiammante, il clamore si attenua, e si riprende a sognare. È una dimensione onirica. Le luci della ribalta si accendono su di lei, Beatrice, la principessa di Lampedusa, che qui ha la voce, il corpo, le movenze di Sonia Bergamasco. È lei l’anima della storia, è il suo instancabile monologo a tenere la scena, per tutta la durata della rappresentazione. Lei e le sue tante voci, ora riprodotte in falsetto, ora duplicate come riverberi indistinti, misteriosi. Voci attraverso le quali rivivono figlie e madri, ragazze del popolo, familiari e stranieri, nobili e persone comuni. Di questa terra e di un tempo “che fu”. E rivive anche lei, spettro che parla (“sono morta il diciassette ottobre millenovecentoquarantasei”) mentre si dondola su quell’altalena che è il centro del palcoscenico e il fulcro stesso della narrazione. Gira su di sé, volteggia, a piedi scalzi. Ascolta, dapprima, i grilli cantare sommessamente, in una sorta di placido requiem orchestrato in natura, e poi si stordisce col fragore delle bombe sopra Porta Felice, venute lì a scoperchiare le cupole delle chiese e i tetti dei palazzi. Rievoca, quasi sussurrando, canti popolari sulla prima intimità tra sposi (quannu la misi ‘ntra dd’amatu lettu, e ci scuprivi li minnuzzi d’oru …). Recita e mima un amplesso “spettacolare”, di fuoco e di fumi maestosi, tra i due colossi delle Due Sicilie: il Vesuvio (lui) e l’Etna (lei), unendo eros e mito in un nodo inestricabile di amore e morte.

Espressione di una sicilianità forte e fiera, che sopravvive a tutto, La principessa di Lampedusa rinasce per il suo pubblico, che inizialmente la vede di spalle, sulla scena semibuia. Per consegnarsi a lui, alla fine, in un applauso che è un abbraccio di luce.

data di pubblicazione:12/10/2025


Il nostro voto:

ANGELA – serie Netflix in sei episodi, 2025

ANGELA – serie Netflix in sei episodi, 2025

In questa miniserie spagnola diretta da Norberto Lopez Amado, Angela – interpretata da Veronica Sanchez – è madre di due bambine e moglie di un uomo di successo, apparentemente devoto alla famiglia. La sua “perfetta esistenza è costellata, in realtà, di abusi e maltrattamenti. Ma nessuno le crede. Forse non ne è consapevole neppure lei.

A prima vista, Angela può sembrare la classica storia che riproduce e racconta, secondo copione noto, la violenza di genere, esercitata sulla donna. E in particolare, la violenza domestica. La domus, nel caso specifico, è una bella casa lussuosa, gabbia dorata in cui gli spazi di prigionia appaiono camuffati da ampie vetrate panoramiche con vista sul mare. Si alternano, in questo thriller dal ritmo più che serrato, riprese grandangolari di spiagge sconfinate e primissimi piani di volti angosciati e angoscianti. Minaccia e terrore, tanto negli sguardi scrutati da vicino quanto nella natura irruente (mare perennemente agitato, onde che si infrangono sugli scogli).

Luoghi altrettanto comuni sono l’immagine pubblica di un marito premuroso (Gonzalo/ Daniel Grao) e la metamorfosi dello stesso che avviene in privato, quando nessuno vede. Ossessione e controllo si traducono nella ricerca di un ordine maniacale e in una scansione del tempo tanto arbitraria quanto rigida, nel quotidiano. Come già visto in A letto col nemico, film del ‘91 con protagonista Julia Roberts. Una parte piuttosto corposa della storia rievoca persino il celeberrimo – e ben anteriore – Angoscia, con Ingrid Bergman (Gaslight, 1944). Dove il dubbio – condiviso tra l’eroina stessa e lo spettatore – diventa, per buona parte della narrazione, “padrone” della scena, protagonista assoluto. Dove è proprio la vittima ad essere caricata di colpa e sospetto, schiacciata dall’ombra lunga del pregiudizio e della presunta follia. Contrariamente alla tradizione cinematografica tipica del genere, però, la “salvezza” e il riscatto qui non passano attraverso altra figura maschile, che faccia da contrappunto al “mostro”. Il fantomatico Eduardo (Jaime Zatarain), belloccio e scanzonato – personaggio ambiguo e monodimensionale insieme – non è affatto risolutivo. Né svolge il ruolo di aiutante, qui riservato ad una donna (l’amica avvocato Esther/ Lucia Jimenez).

Angela – nome simbolico le cui singole lettere, mostrate nell’intro di ciascun episodio, ruotano di 180 gradi – produce su di sé una sorta di “svitamento”. Un rovesciamento. Di sé stessa e su sé stessa. Si smonta e si ricostruisce, Angela madre e donna, da sola o quasi. Superando resistenze, tormenti e ferite fisiche e morali, sino alla tanto attesa “soluzione finale”. Che offre allo spettatore – quasi a voler compensare la tensione costantemente mantenuta – un godibilissimo colpo di scena. Inverte la rotta, lei, Angela. Da sola o quasi, sfidando il rischio e affrontando il dolore, e ogni tipo di sofferenza. Semplicemente perché – come si scoprirà alla resa dei conti – è necessario. “Hay que hacerlo”: bisogna farlo.

data di pubblicazione:28/09/2025

OUR SOULS AT NIGHT di Ritesh Batra, 2017 – Netflix

OUR SOULS AT NIGHT di Ritesh Batra, 2017 – Netflix

La recente scomparsa di Robert Redford, attore tra i più amati per il talento e il fascino senza tempo, invita gli appassionati di cinema, e non solo, a rivedere i suoi film.

Netflix propone questa pellicola, apprezzabile per tanti aspetti, che lo vede interpretare – insieme a Jane Fonda – una vicenda romantica.

Addie e Louis sono due vedovi, due persone mature. Vicini di casa da parecchi anni, non si sono mai conosciuti veramente. Finché il desiderio di sfuggire alla solitudine, di notte soprattutto, spinge Addie ad avvicinarsi a Louis, ponendo le basi per una nuova, inaspettata storia di amicizia, e forse, d’amore.

 Cosa accade quando si incontrano due solitudini? Quando queste si cercano, in punta di piedi, sommessamente, superando il pudore e il timore di essere respinti. O la paura del giudizio, di ciò che potrebbero pensare “gli altri”. È proprio questo che viene mostrato nel film, un film dal ritmo sereno, senza strappi bruschi o colpi di scena, delicato come il suono di una chitarra in sottofondo. Un canto dolce, che non esplode mai in una sequenza di acuti a pieni polmoni. Un fraseggio lieve, di corde pizzicate appena, ma che entra dentro.

E così un uomo e una donna, non più giovani, decidono di unire le loro “anime”, costruendo in breve tempo un “noi” (oursouls) che appare a tratti intercambiabile: una sorta di intreccio con le storie passate, dei due protagonisti innanzitutto (“forse sono ancora innamorato del ricordo di lei”), ma anche col vissuto di chiunque assista alla scena, o ascolti il racconto di questa storia.

Il corpo è sopito, i sensi quasi dormienti oramai, ma lo spirito dei due si svela completamente, senza troppa ritrosia. In lei dapprima, Addie, interpretata da una Jane Fonda lontana dagli eccessi spumeggianti della Corie di “A piedi nudi nel parco”. E tuttavia diretta e limpida, decisa. E poi anche in lui, Louis, un “brav’uomo” malgrado gli errori del passato, che qui ha tutta la struggente malinconia di Robert Redford. E ha la sua bellezza, anche; una bellezza che il tempo non è mai riuscito a scalfire. Perché è tutta lì, nello sguardo, nel sorriso appena accennato, nei gesti pacati e lenti. Sono i gesti di un uomo che sin dalle primissime scene vediamo seduto alla propria tavola da solo. Oppure chino sul lavello a risciacquare le poche stoviglie. O ancora, da solo, seduto sulla poltrona a leggere il giornale. Finché lei non bussa alla sua porta, una sera. E gli chiede semplicemente di poter dormire insieme, condividere il letto, e il sonno, per “attraversare la notte”. Insieme, farsi compagnia. E prima di dormire, sotto le lenzuola, in quell’intimità che non si realizza più attraverso l’erotismo, restare a parlare, a raccontarsi. Ripercorrere gli eventi più dolorosi, i sogni, i rimpianti, o le colpe che ancora pesano sulle spalle. E tutto questo accade, accade davvero. Diventa vita vissuta, normalità, abitudine, legame, quasi “famiglia”. Una famiglia scelta liberamente e consapevolmente, cui la famiglia “vera”, quella del “sangue” (figli e nipoti), si oppone con feroce egoismo, obbligando a scelte dolorose.

Cosa rimane, dunque, di questo sentimento nuovo e insieme antico? Di questo “noi” costruito, o ricostruito, un pezzetto dopo l’altro, come i vagoni di un vecchio trenino giocattolo, sulle macerie di una città distrutta?

Il finale, sereno e commovente insieme, ce lo svela, come lezione di vita e di umiltà.

Ti svegli una mattina e hai tutto e la mattina dopo è sparito tutto. La vita può cambiare così, in un istante.

data di pubblicazione: 18/09/2025


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