da Daniela Palumbo | Set 16, 2024
Louise e Ben Dalton, americani residenti a Londra per motivi di lavoro, sono in vacanza in Toscana con la figlia Agnes, afflitta da disturbi d’ansia. Socializzano con un’altra coppia, Paddy e Ciara, anche loro genitori di un bambino – il piccolo Ant – stranamente chiuso e silenzioso. Trascorrono dei bei momenti insieme, cercando di recuperare un rapporto in crisi. Tornati a casa, e ai problemi quotidiani, decidono di accettare l’invito dei nuovi amici, per un week end di relax nella campagna inglese in compagnia di questi. Gli sconosciuti, però, hanno un lato oscuro, che lentamente verrà a galla. Inquietanti verità saranno svelate, in un climax di tensione inarrestabile, fino allo shock finale.
Gæsterne. “Ospiti”. È il titolo dell’originale horror danese al quale il film americano è ispirato. Parola chiave dall’etimo duplice, che definisce tanto chi dà ospitalità quanto chi la riceve, questa mette a fuoco una singolare quadriglia – due coppie contrapposte in modo speculare – in una sorta di danza sempre più macabra.
È la storia di un’amicizia nata troppo in fretta, accordata reciprocamente, complice una spasmodica ricerca di nuove esperienze e di contatti umani non virtuali. Abbracci che vanno oltre il semplice shaking hands squisitamente britannico. Grandi sorrisi e sonore risate. Una apparente solidarietà cameratesca tra uomini, uno spiccato istinto di “protezione” mostrato dalle due donne. Corpi che si denudano all’improvviso per tuffarsi in acqua senza pudore (o quasi) e senza paura. Confidenze premature sulla vita di coppia, confessioni intempestive su fantasie o apatie sessuali, a seconda del caso. Fame di condivisione, insomma. Una fame massiccia, che materialmente (e metaforicamente) affiora, nei pasti consumati insieme, attorno alla stessa tavola. Ragione per cui l’atto di nutrirsi rimanda spesso a una bestialità primitiva e persino a una sorta di cannibalismo latente (l’oca di famiglia, allevata nella fattoria e dotata persino di nome proprio, sarà sacrificata “in onore” degli ospiti e servita con una spremuta color rosso sangue di arance siciliane). Una fame che vorrebbe saziarsi, dunque, anche di “carni” da divorare. Fin troppo evidente l’imbarazzo di Louise (Mackenzie Davis) – dichiaratamente vegetariana – che fingerà di ingoiare il boccone, per poi rigettarlo nascondendolo nel palmo della mano con un gesto furtivo. Evidente almeno quanto l’inettitudine del marito di lei, Ben Dalton (Scoot McNairy), incapace di imporsi o di far “sentire la propria voce”.
Di genuino, di vero, non c’è nulla. Tutta la prima parte del film e buona parte della seconda si fondano su questa arte del simulare (o del dissimulare), su questo fingere di “mandare giù il boccone”. Che si fa via via più amaro (per coloro che sono “ospitati”, soprattutto), dapprima per quella condizione di “cortesia dovuta” che rende schiavi di certe convenzioni sociali, poi anche per sudditanza psicologica e per eccesso di prudenza, per viltà malcelata. L’unico rapporto autentico è quello che si instaura tra i due bambini, Ant ed Agnes (interpretati dal piccolo Dan Hough e dalla giovane Alix West Lefler), sebbene inficiato dall’impossibilità di comunicare verbalmente. Ant non ha la lingua per parlare, e quando tenta di scrivere lo fa in un idioma incomprensibile alla bambina (anche lui sarà costretto ad “ingoiare” il pezzetto di carta contenente il suo messaggio, affinché non venga intercettato). Solo certe immagini potranno sopperire all’inefficacia delle parole, svelando pienamente l’orrore. Un orrore che tarda ad arrivare, lasciando per lungo tempo allo spettatore l’illusione che, forse, non giungerà mai. Che magari finirà per essere addomesticato da un buonsenso comune. O ancora, che si scioglierà in quelle grida a cielo aperto prodotte dai due maschi (quasi due primati urlanti), con funzione “liberatoria”. I due uomini, protagonisti della storia, appaiono qui quasi alleati, ancorché profondamente diversi. E soltanto alla fine, manifestamente nemici. Particolarmente significativo – per ironico contrasto – è il nome del protagonista Paddy, paronimo del comunissimo ed innocuo Buddy (in inglese, “amico”). Presenza scenica che incombe, costantemente sopra le righe, la sua è una figura minacciosa senza mai risultare inquietante fino in fondo. I suoi gesti assumono quasi sempre i tratti di una burla, talora persino di una provocazione infantile (Mostramelo! Mostrami amore!). La sua risata è uno sberleffo alla vita, le pupille appigliate a quel filo doppio (scala o fune) che morbosamente lega vittima e carnefice, fino all’assedio finale.
Non è uccidere, lo scopo ultimo, ma l’atto stesso di far abboccare il pesce all’amo. Per ricreare a forza un legame da sempre negato, una condivisione a qualsiasi costo. “Do you feel the same?” – provi le stesse cose? – canterà lui, in uno dei momenti più drammatici, con la voce rotta e la ferocia negli occhi, sulle note di una dolcissima melodia (Eternal flame di The Bangles), superbo contrasto di toni. Spicca tra tutte la straordinaria interpretazione di James McAvoy, troppo istrionico, in realtà, per incutere vero terrore. Risultando comunque efficace, ben calato nel ruolo controverso e senz’altro non facile del cattivo. Nella finzione cinematografica, uno dei tanti cattivi. “Che poi così cattivi non sono mai”.
data di pubblicazione:16/09/2024
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da Daniela Palumbo | Set 10, 2024
Prisca e Guy stanno per separarsi. Annunceranno la decisione ai propri figli, ancora piccoli, dopo un’ultima vacanza da trascorrere tutti insieme, in un resort tropicale. Ma la spiaggia esclusiva che condivideranno con altri “fortunati” turisti – pochi prescelti con qualcosa in comune – si rivelerà presto una trappola infernale. In quel luogo stregato tutti invecchiano rapidamente, mentre qualcuno li osserva, non visto, dall’esterno. Per loro, cavie inconsapevoli di folli sperimentazioni, è impossibile fuggire. Impossibile fermare il tempo…
Liberamente tratta da Château de sable, graphic novel francese datato 2010, approda su Netflix questa pellicola di Shyamalan dal titolo impietosamente conciso: Old. Un monosillabo, un’unica cellula che vorrebbe contenere in sé un mondo, in sintesi o in embrione. Ricettacolo di reminiscenze e suggestioni narrative e cinematografiche. Old. Ovvero nulla di nuovo.
Il luogo fisico – teatro dell’azione – di questo fantamistery è lo scenario “paradisiaco” per eccellenza: la spiaggia (quasi) deserta, destinazione da sogno per soggiorni idilliaci. La vediamo qui rappresentata ora con toni macabri (onde insidiose si alternano a rocce impervie e a crepacci senza via d’uscita) ora con accenti parodistici (una gravidanza inattesa si compie in tempi da record in questa Blue Lagoon tinta di noir). L’intero dramma, forse svelato troppo precocemente, si concentra in poche ore, che contano come anni. La vita si contrae in uno spazio ristretto, e in egual misura il tempo si riduce, sotto l’occhio vigile di un Grande Fratello in versione scienziato pazzo, che osserva imperturbabile dall’alto del suo laboratorio.
Ripercorrendo lo schema classico della fiaba, la storia propone una parata – a tratti grottesca – di eroi ed antieroi. C’è l’uomo impavido che sfida il destino a costo della propria vita. C’è la donna – maga o strega – la cui bellezza esteriore finirà per contorcersi in mostruose metamorfosi. In veste di “aiutante”, c’è lo gnomo/bambino grazie al quale i due sopravvissuti risolveranno l’enigma nodale. E saranno loro, fratello e sorella – novelli Hansel e Gretel sin troppo cresciuti – a cercare, fino all’ultimo respiro, la salvezza. Mettendo a frutto l’ingegno senza rinunciare all’immaginazione, residuo d’infanzia. In questo bailamme di rimandi tragicomici sgranati in rapida sequenza, un messaggio (affidato alla discreta interpretazione di Vicky Krieps e Gael Garcia Bernal, Prisca e Guy) risulta comunque apprezzabile. A noi che inseguiamo il tempo, rincorriamo il tempo, volendo anticipare, precorrere, e abbiamo troppa fretta (Non vedo l’ora di sentire la tua voce quando crescerai – dirà la madre Prisca alla piccola Maddox) viene posto dinanzi uno specchio. Dove le nostre “brame” sono mutate in incubi. E dove tutto quanto rischia di essere annientato in pochi attimi. Nel male e nel bene (Stavamo litigando per qualcosa? Non me lo ricordo più…) cancellato, dissolto. Come fa il mare con le orme o con le scritte sulla sabbia. E persino coi castelli.
data di pubblicazione:10/09/2024
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da Daniela Palumbo | Ago 30, 2024
Un caso di cronaca che sconvolse la Lucania negli anni‘90 viene rappresentato da questa fiction diretta da Marco Pontecorvo, già trasmessa lo scorso anno su Rai uno ed approdata in sei episodi su Netflix.
La giovane Elisa – interpretata da Ludovica Ciaschetti – un giorno non fa ritorno a casa e non viene più ritrovata. L’ultimo ad averla incontrata, in una chiesa di Potenza, è Danilo Restivo, già stalker di altre giovani donne e protetto dal padre in ogni circostanza. La famiglia Claps non si arrende e conduce una lotta disperata alla ricerca di verità e giustizia. Protagonisti assoluti di una tale impresa, il fratello Gildo, che qui ha il volto di uno straordinario Gianmarco Saurino, il fratello minore Luciano (Giacomo Giorgio) e i genitori, Filomena e Antonio Claps, interpretati da Anna Ferruzzo e Vincenzo Ferrera. Una prova corale e suggestiva, per non far dimenticare Elisa. Qualcosa che lascia il segno.
È esistita davvero, Elisa Claps. Così come è scomparsa davvero, una mattina all’improvviso. Misteriosamente no. È tutto fin troppo chiaro sin dall’inizio della storia, che non a caso comincia in un giornata di sole, su una spiaggia, all’aria aperta. Dove si proietta subito anche l’ombra del male, giunto a un passo da lei, a spiarla, a coprirne la luce.
Elisa Claps vive per poco. E sulla scena vive ancora meno. Il tempo di una gita al mare col fratello e di una cena in famiglia. Poche riprese, poche inquadrature. Per noi, è come sbirciare appena da una finestra aperta, mentre qualcun altro scruta da una fessura.
Elisa Claps è un misto di tenerezza e di ironia. Lo si percepisce anche solo pronunciando il suo nome completo. Sentendola parlare col suo tono ora buffo ora quasi struggente. Guardandola negli occhi, guardandola sorridere.
Elisa – figlia, amica, compagna di scuola – muore. Muore prematuramente. Muore assassinata, per mano di qualcuno che lei conosce e chiama per nome (Ciao Danì!). Che difende persino. Da chi non è gentile con lui. Perché lo trova “strano”.
Diciassette anni dopo la sua scomparsa, davanti a una bara bianca con un corpo finalmente ritrovato, qualcun altro, che l’ha amata come se stesso, dirà: Oggi siamo qui. A celebrare il funerale di mia sorella… “Mia sorella”, dirà. Ed è in quel preciso momento che si comprende davvero: Elisa – figlia, amica, compagna – è soprattutto “sorella”. Di tutti noi (più che semplici spettatori) come di Gildo Claps. Soffriamo per lei e con lui. Ci illudiamo fino all’ultimo di tutte le illusioni possibili e impossibili, contro ogni evidenza e pur conoscendo la storia (“fatto di cronaca”, tristemente noto). Ci sentiamo legati a quella famiglia che l’ha amata così tanto, e dove ciascuno ama ciascun altro così tanto. Ci muoviamo anche noi nella città che l’ha vista nascere, abominevole ammasso di cemento in alcune inquadrature, magico presepe illuminato dalle mille fiaccole, in altre. Città dal volto duplice: costellazione e discarica.
E certamente, proviamo rabbia e impotenza per tutto quanto rimane impunito, occultato, trascurato, eluso, per un tempo che pare senza fine. Ci perdiamo, anche noi, nei vicoli ciechi e nei pozzi senza fondo come nei cantieri abbandonati e complici. In quella sagrestia che diventa porta per l’inferno, nel sottotetto di quella chiesa che si cambia in sepolcro. Immondo, come chi collude col male più nero. Siamo vicini, non solo a Gildo, “il” fratello. Vicini a quella madre irrigidita nel dolore e al tempo stesso amorevole, a quel fratello più giovane che sente di non aver “fatto abbastanza”. A quel padre, infine, che non vuole più lottare. Un po’ accusando “l’Italia dei pagliacci” un po’ incolpando se stesso per non aver saputo proteggere la sua famiglia, proteggere Elisa. Elisa Claps. Dolce come una sonata al piano, vivace come un batter di mani. Partecipare a quei funerali postumi, in piazza, tra la gente, lui non lo vorrà. Lui, il padre – mentre Gildo “il fratello” parla alla folla commossa – preferisce stare su una panchina in mezzo a un po’ di verde, in solitudine. A fissare il vuoto, a cercare un ricordo che finalmente – almeno quello – torna ad essere vivo, e risorge.
Attraverso lo schermo, il nostro posto è lì, con lui, ma restando in silenzio. Senza disturbare.
data di pubblicazione:30/08/2024
da Daniela Palumbo | Ago 24, 2024
Tratto dal romanzo omonimo di Mariapia Veladiano, il film di Marco Tullio Giordana racconta la storia di una famiglia dell’alta borghesia vicentina negli ultimi decenni del Novecento. Da Maria e Osvaldo nasce Rebecca, la figlia tanto desiderata. L’elemento perturbante e inatteso: la bambina ha una vistosa macchia rossa su un lato del viso. Colta da una forte depressione, la madre la respinge, chiudendosi in se stessa sino al tragico epilogo. Rebecca, cresciuta sotto l’ala della zia Erminia, pianista e concertista di successo, scoprirà nella musica una via di liberazione e di salvezza.
Si può amare e respingere insieme? La storia – così come il regista ha scelto di raccontarla – ruota intorno a queste poche parole. A questo interrogativo che sembra non trovare risposta. Se non nelle pieghe nascoste di una follia visionaria, nelle apparizioni oniriche, nella musica, nelle pagine di un diario segreto.
Un’atmosfera plumbea, sin dalle primissime scene, pervade la ricca dimora di una ricca famiglia di Vicenza, in attesa del primo figlio. Ricca, ma solo nella forma (poverina, poverina… poverini tutti!) È un labirinto di stanze e di saloni, di scale e di corridoi, quella grande casa. E relegata in quel labirinto, al pari di un mostruoso Minotauro, vivrà i suoi primi anni di vita Rebecca, la bambina nata da Osvaldo (Paolo Pierobon) e Maria (Valentina Bellè). Isolata e reclusa, sottratta alla vista degli altri, estranei alla famiglia, allo “sguardo che uccide” e che giudica. Rebecca (interpretata da diverse attrici, da Sara Ciocca all’esordiente Beatrice Barison) non è una bambina “come tutte le altre”. È un “mostro di natura” che la madre rifiuta di prendere in braccio e persino di guardare in viso, per consolarne il pianto.
Esattamente come una lettera scarlatta, quella macchia rosso sangue impressa sul viso rappresenta il segno evidente della colpa, di una condanna senza possibilità di espiazione. Colpa che qui si rovescia sull’innocenza più pura. Un peccato originale ricade sulla creatura appena nata a tal punto che neppure il battesimo dei cristiani potrebbe cancellarlo. Ma l’acqua santa gliela lava via la macchia? – chiederà Maria, madonna senza Dio e senza fede. Una madre fantasma, spodestata e vicariata, per forza di cose, dalla gemella di Osvaldo, Erminia (Sonia Bergamasco). Donna determinata, volitiva, composta. Decisa, tanto nell’esecuzione di un brano al pianoforte quanto nella pianificazione della propria (ed altrui) esistenza. Alter ego. Seguendo il suo esempio, Rebecca imparerà a forgiare il suo innato talento per la musica attraverso la disciplina, con esercizi estenuanti e ripetitivi. Inutili le suppliche della madre di “suonare qualcosa” (senza le scale non si va da nessuna parte).
Ridondante è anche la simbologia cromatica, nel corso di tutta la pellicola. Il rossetto vermiglio sulle labbra di Erminia, la porpora delle poltrone a teatro si contrappongono al nero luttuoso o al bianco spettrale della figura di Maria, dall’inizio alla fine, in rapida involuzione.
Il regista, con l’ausilio di una fotografia a tratti molto suggestiva, racconta dunque il corpo e lo spirito attraverso un gioco di luci ed ombre. Di tasti bianchi e neri, con delle punte rosso fuoco che s’intravvedono nei martelletti al tocco violento delle dita.
E vivendo “accanto” alle ombre, scoperchiate e risorte – non al di sopra, né sotto di esse ma accanto, così da poterle guardare negli occhi e parlarci faccia a faccia – si arriva a scoprire una verità, che è vera luce. Anche se viene dalla notte. E dalla notte estrema.
data di pubblicazione:24/08/2024
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da Daniela Palumbo | Lug 12, 2024
Ellie e Iddo (Rotem Sela e Yehuda Levi) sono una coppia apparentemente stabile e affiatata. Vogliono un figlio, un sogno che inseguono da anni. Dopo l’ennesimo aborto spontaneo, e l’ennesima delusione, decidono di fare ricorso ad una madre surrogata. Incontrano una giovane donna (Gal Malka), già madre di un bambino e quasi del tutto priva di mezzi di sostentamento. Sarà questa donna a portare in grembo quell’embrione, quel figlio tanto desiderato dai due sposi. Le conseguenze, impreviste anche se forse prevedibili, comporteranno turbolenze improvvise e repentini dirottamenti. Da seguire col fiato sospeso, e su cui riflettere.
A body that works, un corpo che funziona. È il titolo di una serie israeliana, attualmente distribuita a livello internazionale. Nella versione inglese sarebbe anche – letteralmente – un corpo che lavora. Nella storia che ci viene raccontata, il lavoro da portare a compimento è mettere al mondo un figlio. E lo strumento è il corpo della donna.
Meccanismo rodato da secoli, quello della riproduzione. Che può incepparsi, talvolta. Come se vi fosse un difetto di fabbrica o mancasse l’anello di una catena. Come se venisse meno un tratto di un binario ferroviario. Nella traduzione francese si direbbe un corps qui marche, dove funzionare e camminare, nel senso di avanzare o procedere, appartengono ad uno stesso nucleo semantico. Una unica cellula. Così viene mostrato nel corso degli otto episodi che compongono la serie: il corpo di una donna altra – madre surrogata – di mese in mese cresce nella gestazione, e nella consapevolezza di sé. Inversamente, la madre biologica, da cui gli ovuli sono stati prelevati, subisce uno stop. Si arresta, regredisce persino, quindi si perde in giri tortuosi, di fatti e di parole. Il suo corpo non funziona come dovrebbe, e la mente si cristallizza. Nei banali riti scaramantici (vietato rivelare il nome scelto per il nascituro). Nella negazione di una intimità sessuale con il partner. Nel controllo quasi morboso del corpo dell’altra (via il cellulare dalla tasca dei pantaloni, niente sigarette, prescrizioni mediche rigorose). Delirio e parossismo, che si riflettono anche sul proprio lavoro di curatrice editoriale, alle prese con uno scrittore egocentrico (Tomer/Lior Raz). Le parole, messe a nudo, e ostinatamente sviscerate, si trasformano in enigmi irrisolvibili, benché rivelatori di crude verità. Emblematico il duello tra lei e l’autore sull’inserimento di una frase, altrettanto emblematica: quel momento seminò una crepa.
I personaggi maschili, dal canto loro, che siano mariti o amanti, padri o nonni, appaiono tanto impotenti quanto pretenziosi. Più che garantire reale sostegno questi sembrano contribuire a un’opera di demolizione dell’io, forse preludio inconsapevole di una successiva ricostruzione. Così Chen, madre in affitto, viene accusata dagli uomini della sua vita – il proprio padre e il padre di suo figlio, redivivo – di vendere il proprio corpo per soldi, di non fare nulla di buono. E soprattutto, Ellie – tanto inflessibile nell’esercizio della professione quanto insicura e fragile nel proprio intimo – diventa bersaglio del marito. Iddo il buono, Iddo il bello, quello che tutti adorano, quello che sarà all’altezza, un ottimo padre. Al suo cospetto lei è la donna senza utero, o dall’utero danneggiato. Inospitale, incapace di trattenere la vita e di proteggerla. E da cui la vita stessa fugge, sottraendosi alla sua presa, e alla sua tutela. Da qui, la scelta quasi obbligata dell’evasione – o della diserzione – che la porterà lontano da lui, dalla propria casa, dal proprio Paese. E poi il rifiuto di quel ruolo di madre incompleta o fittizia. Fino alla totale disumanizzazione, di se stessa e dell’altra, suo alter ego: Siamo ciò che siamo. Tu incubatrice, io bancomat.
Ma alla fine di questo lunghissimo e duplice travaglio, c’è qualcosa di nuovo che nasce, o rinasce. A dispetto di qualsiasi imperfezione o mancanza, di qualsiasi accusa o sbaglio precedente. Sbagli, mancanze e imperfezioni – e accuse – rimangono lì, infine, esclusi dalla sala dove si produce la vita. Tagliati fuori, e fuori della porta ad aspettare, cercando di captare segni.
L’epilogo, tra il drammatico e il poetico, è tutto da scoprire. In contrasto con le aspettative suscitate dai primissimi episodi, certamente. Un epilogo imprevisto. Anche se forse prevedibile.
data di pubblicazione:12/07/2024
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