da Paolo Talone | Apr 1, 2025
con Valentina Carli e Giuseppe Tantillo
(Teatro Belli – Roma, 25/30 marzo 2025)
Debutto romano per la coppia artistica Tantillo/Carli di Bestfriend teatro nell’ambito di EXPO – rassegna diffusa di drammaturgia contemporanea italiana (con spettacoli in cartellone al Belli di Trastevere fino all’11 maggio). Dopo Best friend (2015) e Senza glutine (2017), l’autore e attore palermitano Giuseppe Tantillo presenta il suo terzo lavoro, Bianco. Una riflessione – condita di sana ironia – sulla percezione del tempo che rimane da vivere a due pazienti oncologici.
Lucio e Mia vivono una vita che ha perso colore. O meglio, è diventata dello stesso colore del male che portano dentro: bianco. Così appaiono infatti la maggior parte delle volte le masse tumorali quando si vanno a sviluppare all’interno dell’organismo. I due si conoscono mentre aspettano il proprio turno di visita nella sala d’aspetto di un ospedale oncologico. La storia è divisa in quadri. Ogni quadro è un passo avanti nella relazione che da semplici conoscenti li porterà a vivere una relazione stabile. Nessuno dei due parte avvantaggiato rispetto all’altro. Così l’analisi sulle conseguenze del tumore può dirigersi verso le emozioni, i pensieri, sulle possibili implicazioni che il loro rapporto avrebbe potuto avere.
Lucio è un professore di italiano e storia, con un tumore ai polmoni. La malattia ha invaso totalmente i suoi pensieri. È così insistente che anche nei sogni, invece di evadere, rivive come in un film la giornata appena trascorsa. Il pensiero della morte lo tormenta e si accentua quando gli viene data la notizia di una nuova operazione. Accanto a lui c’è Mia che di professione è un medico gastroenterologo. Il male l’ha colpita al seno. Il suo personaggio esprime come una sorta di distacco e freddezza scientifica rispetto alla tragedia della malattia. Ne misura la percentuale che lascia di sopravvivenza (in base alla quale pianifica il suo prossimo viaggio); scommette, guardando un gruppo di infermieri in sciopero per un miglior trattamento salariale, su chi sarà il prossimo a morire (combatterebbe allo stesso modo sapendo di dover morire?).
Eppure, nonostante l’apparente impassibilità, è quella che sa andare oltre e sa indicare a Lucio la strada. Senza stupide illusioni. Senza moralismi che fanno perdere tempo. Il tempo è infatti il tesoro più prezioso da non sprecare. Fatti i dovuti conti con la malattia, le rimane abbastanza spazio per essere scanzonata e tremendamente ironica. Mia sa andare oltre e aggiungere colore al bianco. Fino a trascinare Lucio addirittura fino in Cambogia, dove i tramonti sono di un rosso vivo. Gli occhi sono la prima cosa a decomporsi dopo che si è morti: per questo è necessario riempirli di meraviglia.
È una scrittura contemporanea quella di Tantillo, se per questo si intende strappare dalla realtà dialoghi e considerazioni che non hanno pretesa di morale. Imprime sulla scena – con la parola prima e il modo di recitare poi – una verità specchio del reale. Valentina Carli lo segue, in perfetta sintonia con lo stile crudo e naturale. Il lavoro sdrammatizza, senza cadere nel banale, un tema delicato e complesso. Guarda alla malattia per quello che è: un’intromissione, una castrazione. Ma la vita è qualcosa di più, si prende il suo spazio. Anche quello che non le è concesso.
data di pubblicazione:01/04/2025
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da Antonio Iraci | Mar 29, 2025
Hilde, mentre il fidanzato Franz combatte sul fronte russo, conosce Hans e i suoi amici. I due si innamorano e la ragazza, quasi inconsapevolmente, si troverà a far parte di un gruppo di resistenza antinazista. Tramite una rudimentale trasmittente radio comunicano con i servizi segreti russi e contattano i prigionieri tedeschi, permettendo loro di mandare messaggi rassicuranti alle famiglie…
Andreas Dresen è un regista tedesco che conosce molto bene il passato oscuro del suo paese. In questo suo ultimo film non gli riesce quindi difficile raccontare una storia vera che si accompagna a quella di tante altre. Sullo sfondo gli orrori del nazismo, oramai sviscerati in tutte le forme e che comunque non sono mai abbastanza per ricordare e fare riflettere. Dopo tutto quella che è stato documentato su un popolo, marcato da un senso di colpa indelebile, il regista riesce a rendere il tema attuale. Un salto nella vita di una giovane Hilde, egregiamente interpretata da una straordinaria Liv Lisa Friel. L’attrice berlinese si era fatta notare dal pubblico nostrano come una delle protagoniste della serie Babylon Berlin accanto a Volker Bruch. Dresen affronta un tema certamente drammatico, utilizzando un registro espressivo molto sobrio anche nella scelta delle luci, cupe e dai toni spenti. Come contrappunto ricorre a dei flash back che, sia pur sconnessi nella successione temporale, danno invece risalto ai colori accesi di una estate assolata. In queste scene ritroviamo un gruppo di ragazzi che passano momenti spensierati, senza dimenticare i pericoli a cui vanno incontro con la loro attività clandestina. In Berlino, estate ‘42 viene trascurato ogni tratto eccessivo per raccontare di fatti accaduti e vissuti realmente. Non viene tralasciato alcun dettaglio per rimarcare un’ideologia che non lasciava scampo ad alcuna forma di propaganda sovversiva. Sincera la storia d’amore di Hilde con Hans (Johannes Hegemann) un ragazzo taciturno che sa divertirsi e sa anche impegnarsi in una lotta decisamente impari. Il film è sicuramente un piccolo capolavoro che riesce a trasmettere allo spettatore quel clima opprimente vissuto da quella generazione. Giovani che hanno creduto in un riscatto sociale e in un futuro di libertà d’espressione, lontano da ogni autoritarismo. Il film è stato presentato alla Berlinale dello scorso anno e adesso finalmente in distribuzione nelle sale italiane. Se ne consiglia la visione.
data di pubblicazione:29/03/2025
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da Antonio Jacolina | Mar 29, 2025
Puntuale come sempre, ormai un classico appuntamento culturale di inizio Primavera, ecco di nuovo a Roma dal 2 al 6 aprile al cinema Nuovo Sacher Rendez-Vous Festival del Nuovo Cinema Francese. L’iniziativa è giunta alla XV Edizione. Si rinnova così l’opportunità per i tanti amanti del cinema d’Oltralpe di scoprire i più recenti successi, cogliere le nuove tendenze e anche incontrare alcuni protagonisti di una cinematografia vitalissima. Il Cinema Francese continua a vivere infatti un momento di alte soddisfazioni per pubblico, qualità, incassi, produzioni e apprezzamenti internazionali. Un Cinema che riesce sempre a combinare intelligentemente consapevolezza artistica, contenuti e capacità di interagire con i gusti del pubblico. Anche nel 2024 i suoi indici non hanno conosciuto flessioni. Secondo i dati Cinetel in Francia si sono registrati infatti ben 181,2 milioni di ingressi in sala, ben 2,6 volte in più rispetto all’Italia (69,7 milioni), nonostante un numero di abitanti quasi simile. La quota di mercato dei film francesi programmati in Francia è stata del 44,4% mentre quella dei film italiani in Italia è stata solo del 24,6%. Una conferma in più di uno stato di salute ottimo e invidiabile, frutto delle valide politiche governative di sostegno alle produzioni e alle distribuzioni in funzione già da anni. Certo, bisogna sottolineare che la cinematografia francese ha il vantaggio di un mercato mondiale di oltre 300 milioni di persone francofone. Sono quindi evidenti le possibilità di sfruttamento dei film e dei conseguenti ricavi degli investimenti.
Quanto al Festival, anche quest’anno è particolarmente nutrita la presenza di registe e attrici, a sottolineare quanto l’autorialità e la rilevanza dei ruoli femminili nel cinema francese sia una costante di rilievo, più che apprezzata e consolidata.
Complessivamente saranno presentati 14 film. Alcuni usciti a Cannes 2024, altri nel corso dell’anno, altri ancora inediti. Segnaliamo fin d’ora Quand vient l’Automne di F. Ozon; Trois Amies di E. Mouret; Ma mère, Dieu et Sylvie Vartan di K. Scott. Inaugurerà il Festival L’attachement di C. Tardieu, con la presenza di Valeria Bruni Tedeschi, cui farà seguito una serata di gala nei saloni di Palazzo Farnese, sede dell’Ambasciata di Francia.
Dopo le giornate a Roma, il Festival proseguirà con delle Sezioni Speciali a Bologna, Firenze, Napoli e Palermo.
Tutti i dettagli (programma, orari, biglietti) si possono trovare sul sito dell’Institut Français Italia.
data di pubblicazione:29/03/2025
da Antonio Iraci | Mar 25, 2025
Rosa Sauer fugge da Berlino per rifugiarsi a casa dei suoceri in campagna e attendere il ritorno del marito Gregor mandato a combattere al fronte. Lì vicino, in un bunker nascosto dalla foresta, si è da tempo trasferito Hitler con il suo quartier generale. Un giorno, insieme ad altre giovani donne, viene reclutata forzatamente e obbligata ad assaggiare i pranzi preparati per il Führer. Inizialmente guardata con sospetto dalle altre, si conquisterà piano piano la fiducia delle compagne, soprattutto dell’enigmatica Elfriede…
Con Le assaggiatrici Silvio Soldini si cimenta in un lavoro molto impegnativo che tratta di un vero fatto storico, da molti assolutamente sconosciuto. Ultra novantenne, prima di morire, una certa Margot Wölk svelò di essere stata una delle assaggiatrici del cibo preparato per Hitler. Da questa storia, Rosella Postorino ne ha tratto un romanzo affascinante con il quale nel 2018 ha vinto il Premio Campiello e altri premi letterari. Il regista ha saputo registrare, in maniera scrupolosa, ogni dettaglio a partire dall’ambientazione, nel paese di Gross-Partsch dove era ubicata la Tana del Lupo. Viene raccontato il destino di quelle donne oramai private del sostegno degli uomini, tutti mandati a morire al fronte. Una volta selezionate per buona salute, alcune di esse sono obbligate a testare il cibo del Führer come vere e proprie cavie. Per Rosa (Elisa Schlott), abituata a vivere a Berlino, sarà difficile accettare quella vita campagnola e svolgere l’ingrato incarico. Come tanti, anche lei si troverà a sacrificare la propria vita per “lui” e per il suo distorto ideale. Senza mostrare direttamente i meccanismi della guerra, esattamente come ne La zona di interesse, Soldini ci fa prendere coscienza della palpabile tensione che accompagna quelle donne, sedute attorno a un tavolo e costrette a mangiare sotto lo sguardo vigile dei sorveglianti. Tra di loro, si instaureranno rapporti di amicizia ma anche di competizione, di alleanze ma anche di tradimenti. Iniziata una relazione clandestina con il feroce tenente Ziegler (Max Riemelt), Rosa avrà sentimenti contradditori. Grandi sensi di colpa verso un marito, anche se oramai dato per disperso, e l’amore, forse sincero, per l’ufficiale delle SS. In Le assaggiatrici il regista affronta in maniera trasversale la violenza sulle donne, gli orrori della guerra, l’imminente disfatta del Reich che si va profilando. Ma rimane la voglia di vivere, di coltivare i propri sentimenti e le proprie ambizioni, di lasciarsi ancora una volta andare ai piaceri della vita. Per quel poco che ancora aveva da offrire…
data di pubblicazione:25/03/2025
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da Antonio Jacolina | Mar 25, 2025
David (J. Eisenberg) e Benji (K. Culkin) sono due cugini di origine ebraica. Cresciuti insieme si sono poi un po’ persi di vista. Per desiderio della nonna appena scomparsa, partono insieme con un tour organizzato per riscoprire la Polonia, le radici e la casa di famiglia. I loro caratteri sono diametralmente opposti e durante il “viaggio della memoria” succederà di tutto …
Uscito in sala il 27 Febbraio il film è purtroppo già quasi scomparso nonostante l’Oscar per il Migliore Attore Non Protagonista a Culkin. Peccato! A Real Pain merita un maggior apprezzamento. L’opera seconda di Eisenberg che lo ha scritto, diretto e cointerpretato è infatti una realizzazione minimalista che si rivela però migliore di quel che può sembrare. Un lavoro che in effetti sfugge ad ogni categorizzazione tanto forte è la libertà realizzativa dell’Autore che riesce con eleganza e pudore a fondere il Dramma e la Commedia alternando momenti commoventi ad altri esilaranti. Un equilibrio dolce amaro tra un Road Movie stravagante ed un racconto introspettivo, tra una Black Comedy ed un dramma cinico. In realtà, dietro l’apparente leggerezza del mix fra emozioni e humour A Real Pain propone una tenera riflessione sul Dolore, la sua elaborazione, sul peso del passato, i vincoli familiari, la memoria, la presa di coscienza di sé ed il coraggio del cambiamento. Temi non da poco, ma il regista lo fa in modo intelligente e divertente utilizzando le esperienze dei due cugini e la diversità delle emozioni e reazioni. David e Benji rispecchiano ciascuno i differenti vissuti e non detti. Le loro maschere cadono con il procedere del viaggio e le varie situazioni comiche che si generano consentono di dare spazio libero alle emozioni, all’empatia e ai sentimenti repressi. Un gioco che esplicita le diverse esperienze e contraddizioni. Un gradevole pretesto per interrogarsi, senza giudizi o diagnosi, su temi intimi quanto anche universali.
La regia basata su uno script preciso può sembrare semplice e lineare mentre invece è ritmata e accurata, non si perde in eccessive sotto storie ed evita la trappola del melodramma. I dialoghi sono essenziali ed autentici. Complice è il sottofondo sonoro di Chopin. I due coprotagonisti sono eccellenti nel delineare i chiaroscuri dei loro personaggi. Culkin è veramente ispirato, tormentato e dirompente. Brillanti anche i secondi ruoli che fanno da sponda alle vicende dei due cugini.
A Real Pain è dunque un bel piccolo film senza pretese ma intelligente. Un momento di buon Cinema che con humour sottile cattura e commuove e che resta dentro anche dopo essere usciti dalla sala.
data di pubblicazione:25/03/2025
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da Salvatore Cusimano | Mar 25, 2025
Un uomo trascorre tranquillamente le sue giornate in ospedale senza troppe preoccupazioni. E’ ricoverato ed è in coma da lungo tempo, la sua ‘anima’ sta da un po’ in quella condizione a vagare, ma è questa condizione che gli sembra il modo migliore per vivere la sua vita. In quella preziosa routine che scorre senza intoppi, arriva una nuova persona che viene ricoverata nello stesso reparto, aggiungendo un altro ‘nonostante’ al contesto.
La storia del film è surreale e onirica, ma ha la sua origine nel dolore profondo, che riguarda la paura della morte propria e delle persone amate, tipica di un cinquantenne per il quale questo pericolo diventa inaspettatamente più concreto. Nonostante è dedicato ad Alberto Mastandrea, il padre di Valerio scomparso nel 2023, la genesi del film sembra quindi proprio questa e si respira dall’inizio alla fine quella pesantezza, a volte più mitigata e altre volte meno dall’istrionismo dell’attore italiano.
Sei anni dopo RIDE – film che si interrogava sulla eventualità (o meno) di soddisfare le attese del mondo nell’elaborare un lutto – Valerio Mastandrea torna dietro la macchina da presa con questo suo secondo film da regista, in cui l’attore risulta coraggioso e più maturo, mostrandoci una storia d’amore originale sì, ma che alla lunga può risultare con un andamento lento che coinvolge fino ad un certo punto. Il racconto di una “vita nella non vita” può a tratti risultare indigesto, tanto che si può anche dire che siamo un po’ al confine, in un mondo ambiguo, in parte metaforico e in parte anche vero.
I temi che Nonostante stimola sono molti, dalla faccenda della vita dopo la morte, alle più semplici considerazioni sul fluire del tempo, sul valore della memoria e sul senso delle relazioni affettive, ma forse affrontarli in questo modo così surreale risulta un po’ troppo ardito.
data di pubblicazione:25/03/2025
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da Anna Paulinyi | Mar 25, 2025
Hugh Grant: uno dei pilastri della RomCom made in UK degli ultimi quattro decenni, questa volta nel ruolo di un malvagio. Ma non perché seduce con il solito sorriso molto british e il modo di fare un po’ imbranato che lo contraddistingue. In questo film, un mix tra Thriller psicologico ed intellettualistico ed Horror classico, girato dal duo di registi Scott Beck e Bryan Woods, che navigano nel genere da dieci anni con una certa bravura (tra i loro lavori c’è anche Un posto tranquillo del 2018 con Emily Blunt), Hugh Grant diventa un folle torturatore, un cattivo vero.
Le sorelle Barnes (Sophie Thatcher) e Paxton (Chloe East), due giovanissime mormoni – inizialmente un po’ allocche – si presentano sulla soglia di casa, ovviamente un po’ isolata, del signor Reed (Hugh Grant), con l’intenzione di convertirlo e farlo entrare nella loro “Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni”. Nonostante un primo accenno di pericolo, dovuto al comportamento gioviale ma strano del padrone di casa, le ragazze decidono comunque di entrare, sfidando una delle regole principali della loro congregazione. La regola vieta di entrare in case dove non sia visibile la padrona di casa, ma il signor Reed le rassicura, dicendo che la signora Reed sta preparando una torta di mirtilli in cucina. Infatti, c’è un buon odore di torta di mirtilli nell’aria. Peccato che poi si scoprirà che l’origine del profumo è tutt’altro.
Ed è così che la prima parte del film, un vero thriller psicologico, ha inizio e si rimane incollati alla sedia per non perdere nessun pezzo dei dialoghi e dei quesiti, che durano quasi un’ora e ruotano esclusivamente intorno al significato di religione e fede. All’inizio, ci si augura che il signor Reed sia davvero solo quel simpatico, seppur bizzarro, personaggio che sembra essere, con il suo modo di fare da studioso d’altri tempi, che propone divertenti paragoni tra le religioni monoteiste e il gioco del Monopoly, ed è appassionato dei Radiohead. E che l’unica intenzione che ha sia davvero solo quella di voler dare una lezione di secolarismo alle due giovani. Però, quando poi spinge le ragazze in una cantina buia, dove le aspetta una figura coperta da un telo bianco, tutto cambia e ci ritroviamo nella seconda parte del film, che non deluderà di certo gli amanti del genere Horror e sarà pieno di labirinti claustrofobici, mostruosità, e colpi di scena da manuale, un po’ grotteschi e un po’ splatter.
E più di questo non vogliamo rivelare della trama, se non che qualcuno sopravviverà e qualcuno no. Quello che possiamo rivelare però è che Hugh Grant è bravissimo – infatti è stato nominato per un Golden Globe per questo ruolo – e che i dialoghi della prima parte risultano un accattivante gioco di potere psicologico e filosofico, da vero cinema “Kammerspiel” di alto livello, che si conclude con l’ultimo scambio di battute tra il signor Reed e la sorella Paxton alla fine del film. Heretic porta con la sua trama ed immagini fino all’eccesso un certo tipo di considerazioni e stati mentali. Ed è per questo che non ha bisogno di una presenza soprannaturale per suscitare terrore. Basta la realtà purtroppo.
Molto probabilmente è dovuto a questo aspetto intellettuale del film il suo successo di pubblico e la buona critica. Infatti riesce a conquistare anche chi, come me, non è un vero amante del genere Horror, e mi sento di affermare che chi ha un debole per Hugh Grant e il dibattito su religione e fede non rimarrà deluso. Se poi si è impressionabili: durante la seconda parte è anche permesso mettere le mani davanti agli occhi.
data di pubblicazione:25/03/2025
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da Salvatore Cusimano | Mar 24, 2025
Il film, una vera e propria fiaba calcistica, è ambientato a Palmi, in Calabria, dove Don Vincenzo (Rocco Papaleo), geniale agricoltore in pensione, ha un’idea pazza per rialzare la squadra di calcio locale: organizzare una singolare raccolta fondi per ingaggiare Etienne Morville (Blaise Afonso), giocatore di Serie A dal pessimo carattere ma tra i più forti al mondo. Seppure malvolentieri, Morville lascerà Milano per trasferirsi a Palmi per provare a rimettere in sesto la sua immagine.
I fratelli registi Marco e Antonio Manetti, in arte Manetti Bros, dopo Ammore e malavita, tornano al Sud e mettono in scena una gradevole commedia sul filone ‘film di genere’- in particolare calcistico – mischiando la passione per lo sport con una serie di trovate tipiche del loro genio cinematografico. In ciò vengono aiutati dalle colorate interpretazioni di un Rocco Papaleo in stato di grazia e da una serie di personaggi, primi fra tutti lo spassoso mister interpretato da Max Mazzotta, un coacervo di simpatia e di espressività tipica calabrese. Menzione d’onore va anche alla poetessa interpretata da una splendida Claudia Gerini, che si mette in gioco in un ruolo divertentissimo cucito apposta su di lei. Alcuni sono riferimenti cinematografici – televisivi volutamente presenti, a partire da Fuga per la vittoria per arrivare al cartone Holly e Benji.
Il riferimento neanche troppo velato è alla carriera di Mario Balotelli, in un’opera che vuole sicuramente raccontare un altro Sud, poco visto sul grande schermo, lontano dagli stereotipi tipici del meridione, mostrandolo come un posto stupendo e anche lontano dai canoni di bellezza turistici, sovente in primo piano in molte altre opere televisivo/cinematografiche.
Si esce dalla visione con tanti buoni sentimenti e (perché no) anche divertiti, in un panorama di film fatti bene ma intrisi di molta cupezza e a volte di poca originalità.
data di pubblicazione:24/03/2025
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da Antonio Iraci | Mar 22, 2025
Coreografia, drammaturgia e interpretazione di Cristiana Morganti
(Teatro Vascello – Roma, 21/23 marzo 2025)
Cristiana si rivolge a un pubblico esigente per spiegare alcune tecniche di rilassamento e indurre a godersi lo spettacolo e la vita che lo contiene. Un’attenta riflessione su se stessa e sulle proprie sciagure. Momenti di gioia ma anche di ribellione verso quegli stilemi imposti da Pina Bausch. Se da un lato l’hanno formata, dall’altro le hanno impedito di assaporare appieno la propria libertà d’espressione…
É così che Cristiana Morganti esordisce sulla scena. Un fascio di luce psichedelica, piena di colore e calore. Una poltrona di plastica gonfiabile, perché è estremamente importante risparmiare sui costi di produzione e la poltrona si può cosi sgonfiare e riporre in borsa. Tutto va all’essenziale come anche la scarna descrizione di avvenimenti che riguardano un passato prossimo e un presente ancora da capire. Tante sono le cose che ci hanno travolto, come un’epidemia che ci ha destabilizzato e di cui ne piangiamo ancora le conseguenze. Su uno sfondo di immagini in continuo movimento, curate con estrema attenzione da Connie Prantera, Cristiana proietta la propria immagine. Un pot-pourri di suoni accompagnato da una danza con movimenti ora flessuosi ora deliranti, proprio per esprimere la discontinuità degli stati d’animo del soggetto. Sembra essere tornati agli happening degli anni settanta, quando l’improvvisazione scenica era l’unica possibilità espressiva e il teatro imponeva una partecipazione del pubblico all’evento artistico. Le storie si accavallano tra danza e monologo, le immagini non danno spazio a possibilità di riflessione perché tutto è freneticamente prodotto e consumato all’istante. Cristiana per un tempo sospeso accompagna per mano in questo labirinto di sensazioni corporali e il pubblico si lascia trasportare in un turbinio di risate. Alla fine dello spettacolo ci si sente come liberati da quel macigno che annienta nel quotidiano. L’azione liberatrice del teatro che attraverso la poesia alleggerisce da ogni passione e fa sentire più spediti e più vicini all’irrazionale. Non è piaggeria definire la drammaturgia di Cristiana Morganti come qualcosa di tecnicamente e emotivamente perfetto, una performance di altissimo livello, rievocazione di esperienze vissute. Una produzione Teatri di Pistoia Centro di produzione Teatrale in coproduzione con Fondazione I teatri – Reggio Emilia, Théâtre de la Ville – Paris, MA scène nationale-Pays de Montbèliard e con il sostegno di Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento.
data di pubblicazione:22/03/2025
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da Paolo Talone | Mar 22, 2025
con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa e Mario Arcari
(Teatro Vascello – Roma, 11/16 marzo 2025)
«Chiamatemi Ishmael». Inizia citando l’incipit del romanzo di Melville lo spettacolo di Elio De Capitani, Moby Dick alla prova – dal riuscito adattamento in versi sciolti che ne fece Orson Welles settanta anni fa per il Duke of York’s Theatre di Londra – in scena dal 2022 nella produzione curata dal Teatro Elfo Puccini di Milano insieme al Teatro Stabile di Torino per la nuova traduzione, capolavoro drammaturgico, della poetessa Cristina Viti.
È uno spettacolo definito dal regista ‘totale’ quello che Elio De Capitani, legato dagli anni Settanta al teatro dell’Elfo di Milano, sta portando in tournée sui palcoscenici italiani per la quarta stagione. Un lavoro magnifico curato in ogni aspetto: dalla musica alla scena, dal testo alla performance degli attori. In questa lettura il teatro viene prima di tutto. Come spazio di aggregazione e luogo di e non solo per la poesia. Luogo della metafora, dove prendono corpo immaginifiche visioni accanto a tremendi incubi. Dove si celebra il rito della rappresentazione della sacralità dell’umano e dell’insondabile della sua coscienza. L’inafferrabile Moby Dick è un’idea della mente che diventa ossessione, come lo spettro del padre di Amleto.
L’idea che sostiene la trama compie marinarescamente un nodo a bandiera tra il Re Lear, che gli attori di una compagnia portano in scena ogni sera, e le prove di un nuovo spettacolo condotte al pomeriggio nel teatro vuoto, Moby Dick. Una prova, appunto. Un tentativo di cui non si è certi della riuscita. Sono capolavori epici, Lear e Moby Dick, entrambi a un primo momento considerati irrappresentabili. Ma Welles riuscirà nell’impresa, trionfando con uno spettacolo che fa leva su una parola potente, evocativa, capace di trascinare il pubblico tra marosi e imprese mortali. E ci riesce De Capitani, che da copione ricopre i ruoli che ritagliò per sé il regista di Quarto Potere del re scespiriano, dell’impresario della compagnia, di padre Mapple e del leggendario capitano Achab.
La scena è essenziale, usa attrezzi comuni che si trovano in teatro (tavoli, un grande telo tirato sul fondale e alte scale a pioli) per simulare le imbarcazioni da caccia, gli alberi della nave, le vele e gli abissi marini. Il teatro diventa meraviglia quando si crede al gioco della finzione. Sopperiscono alla povertà dei mezzi le indicazioni del “direttore di scena” (Cristina Crippa) che alla maniera del teatro epico (in senso brechtiano) elenca i luoghi dell’azione. Lo spettatore è così stretto nella morsa del racconto, nelle due e più ore in cui si svolgono i due atti, in un viaggio che parte dal pontile di Nantucket per passare nella cappella dove si fa memoria dei marinai morti in mare (oscuro presagio per la nuova ciurma in procinto di salpare), per poi salire sulla baleniera Pequod e passeggiare tra il ponte della nave e la cabina del capitano fino a giungere all’incontro con il mostruoso Leviatano che, sì, appare in scena. I colori sono quelli del mare in tempesta, delle sconfinate, brumose e gelide acque oceaniche. Un grigio malinconico che si attacca ai costumi (meravigliosi) di Ferdinando Bruni come la salsedine rimane addosso alla pelle nella navigazione.
Anche la musica e le luci sono protagoniste. Mario Arcari ha composto e suonato dal vivo una colonna sonora suggestiva quanto le parole, in cui si evoca al sassofono la sirena della nave che lascia il porto, le onde che si infrangono sullo scafo, la tempesta che lo percuote a colpi di grancassa mentre nell’aria risuonano minacciosi tuoni che prendono voce da un gong. E poi i canti marinareschi (diretti da Francesca Breschi) che dànno ritmo alla navigazione e alla vicenda. Una partitura complessa e costante, che si affianca a quella delle luci di Michele Ceglia. Un altro ricco repertorio fatto di bagliori improvvisi e ombre. Perché se nella musica sono importanti i silenzi, nel teatro è importante il buio. È la sospensione necessaria affinché la mente possa figurarsi i suoi mostri, le sue visioni. Il riverbero delle superfici fredde e metalliche degli oggetti di scena gli fanno contrappunto. Insieme ai tagli di luce, compatta e concentrata sui corpi, a gettare fiamme sulle anime tormentate. L’immensità del mare simulata dalle silhouette delle figure in controluce. Con questo contrasto De Capitani dipinge così bene la morte da farcene sentire con persistenza l’olezzo soffocante.
Ma su tutto è straordinaria la compagnia di attori. Anime possedute da una cieca e ostinata volontà a cui fa capo Achab, che comanda obbedienza nella sfida all’impossibile. Trascina tutti nel suo folle volo verso la cattura del Leviatano. Anche il pubblico. Lo spettatore si immedesima con Ishmael e il suo desiderio di imbarcarsi per vedere il mondo. E non c’è posto migliore dove affacciarsi per vederlo se non dalla platea.
Il sipario, chiamato dal capocomico, si chiude su un sogno che si sarebbe voluto interminabile e invece è durato il tempo di un giro di clessidra.
data di pubblicazione:22/03/2025
Il nostro voto: 
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