CANDIDATURE 70° DAVID di DONATELLO

CANDIDATURE 70° DAVID di DONATELLO

Il Cinema Italiano “inizia a premiarsi”

Tempi belli per il Cinema Italiano? Al di là di ogni autoreferenziale illusione, non direi proprio!

Dobbiamo essere onesti con noi stessi, il Cinema Italiano non riesce più a superare di tanto la barriera delle Alpi né tantomeno ad attirare l’attenzione del pubblico internazionale. Difatti, nonostante i nostri passati primati e successi, non riusciamo più ad entrare seriamente in lizza per i grandi Premi o nei Festival che contano realmente e che sono poi il più concreto volano di diffusione dei film e di ritorno economico. E’ dal 2014, dall’Oscar a Sorrentino per La Grande Bellezza, che abbiamo inanellato brevi illusioni e cocenti delusioni. Come mai? E’ evidente che le nostre storie sono molto “locali”, non hanno afflato universale, sono di breve respiro e per di più prive di visione e coraggio innovativo. Cosa mai fanno invece gli altri? Guardiamo solo la Stagione passata e limitiamoci alla cinematografia europea. C’è mai in Italia un film come Emilia Perez? o La Stanza Accanto? o Perfect days? o anche come The Substance o Conclave? Riflettiamoci e avremo così la risposta!

Non occorre certo guardare ai modelli americani (per noi irraggiungibili sul piano dell’impegno economico sottostante ogni loro produzione) ma basterebbe per lo meno studiare, imitare e applicare i modelli di altre cinematografie europee a noi vicine. Dovremmo avere la volontà di investire molto meno sulla quantità e invece molto di più sulla qualità dei progetti. Attivare nuovamente anche la via fortunata delle Coproduzioni Internazionali per acquisire i sostegni economici e distributivi che non abbiamo. Certo sul nostro Cinema pesa il vincolo linguistico che è assai limitante sul piano della distribuzione e quindi degli investimenti ma il Passato ci insegna che è un vincolo superabile se dietro ci sono buone storie, talento, coraggio imprenditoriale ed artistico/creativo uniti ad una visione strategica ampia.

Tornando alla realtà ed all’Anno appena passato il Cinema Italiano “inizia a premiarsi”. I membri dell’Accademia hanno appena definito le cinquine per singola categoria delle candidature. I vincitori dei premi del 70° DAVID di DONATELLO verranno resi noti durante la cerimonia del prossimo 7 Maggio. D’ora in poi si aprono i grandi giochi! Vanno segnalate fin d’ora la possibilità che sia finalmente l’anno di un premio per una regista donna (ben tre candidate su cinque) e la candidatura di Neri Marcorè come regista esordiente per il delicato Zamora. Va anche rilevata l’assenza nelle candidature di due film accolti invece molto positivamente dal pubblico: Diamanti e L’Abbaglio.

Di seguito riportiamo le “cinquine” per le principali categorie:

_ Miglior FILM:

Berlinguer – La grande ambizione;

Il Tempo che ci vuole;

L’Arte della gioia;

Parthenope;

Vermiglio.

_ Miglior REGIA:

Andrea Segre                 per: Berlinguer-La grande ambizione;

Francesca Comencini   per: Il tempo che ci vuole;

Valeria Golino               per: L’arte della gioia;

Paolo Sorrentino          per: Parthenope;

Maura Delpero             per: Vermiglio.

 

_ Miglior ATTRICE PROTAGONISTA:

Barbara Ronchi                      per: Familia;

Romana Maggiore Vergano   per: Il tempo che ci vuole;

Tecla Insolia                           per: L’Arte della gioia;

Celeste Dalla Porta                 per: Parthenope;

Martina Scrinzi                       per: Vermiglio.

_ Miglior ATTORE PROTAGONISTA:

Elio Germano          per: Berlinguer- La grande ambizione;

Francesco Gheghi   per: Familia;

Fabrizio Gifuni       per: Il tempo che ci vuole;

Silvio Orlando         per: Parthenope;

Tommaso Ragno     per: Vermiglio.

_ Miglior ATTRICE NON PROTAGONISTA:

Geppi Cucciari                per:  Diamanti;

Tecla Insolia                    per:  Familia;

Valeria Bruni Tedeschi    per: L’Arte della gioia;

Jasmine Trinca                 per: L’Arte della gioia;

Luisa Ranieri                    per: Parthenope.

 

 

_ Miglior ATTORE NON PROTAGONISTA:

Roberto Citran                  per: Berlinguer- La grande illusione;

Francesco di Leva             per: Familia;

Guido Caprino                   per: L’Arte della gioia;

Pierfrancesco Favino         per: Napoli- New York;

Peppe Lanzetta                  per: Parthenope.

_Miglior ESORDIO ALLA REGIA:

Edgardo Pistone        per: Ciao Bambino;

Margherita Vicario    per: Gloria!;

Loris Lai                    per: I bambini di Gaza;

Gianluca Santoni       per: Io e il secco;

 Neri Marcorè            per : Zamora.

_ Miglior SCENEGGIATURA ORIGINALE:

Berlinguer- La grande ambizione

El Paraiso

Gloria!

Il tempo che ci vuole

Parthenope

Vermiglio.

_ Miglior FILM INTERNAZIONALE:

Anora

Conclave

Giurato N°2- Juror 2

La zona di interesse

Perfect days

data di pubblicazione 10/04/2025

1923 di Taylor Sheridan, serie tv Paramount

1923 di Taylor Sheridan, serie tv Paramount

Seconda stagione della serie prequel di Yellowstone e seguito cronologico di 1883. Le diverse vicende nei primi anni del XX secolo con al centro il ranch dei Dutton trovano il loro logico (?) divenire e si dipanano fra tragedie, agguati, crudeltà ed eroismi vari. L’evento principale è il tentativo di Spencer, eroe di guerra e nipote di Jacob Dutton, di riuscire a tornare nel ranch di famiglia nel Montana per aiutare lo zio in lotta con spietati nemici. La stessa idea ma con ancora maggiori tribolazioni la vive la dolce Alexandra che vorrebbe ritrovarsi con Spencer, suo grande amore.

Non è facile raccontare quanto accade in questa interminabile saga che fra originale, sequel, prequel e spin-off rischia di confondere i tanti appassionati frequentatori. A costo di ripetermi, tutto questo è merito o colpa del suo autore, Taylor Sheridan, lo sceneggiatore statunitense di molti dei grandi successi dello streaming mondiale. Della saga primigenia di Yellowstone – e quindi 1883 e 1923 di cui trattasi ma anche di Landman, Lioness. Mayor of Kingstown, solo per citare i più visti sulle diverse piattaforme. Tutto quello che tocca Sheridan si trasforma in oro, in prodotti di grande appeal e risonanza, questo a prescindere che lo si giudichi un reazionario wasp o un anarchico libertario.

Tornando alla serie, va dato atto che la sua riuscita è nel ritmo incalzante, nella forza e nella complessità delle vicende, nella grandezza degli attori (in primo piano il formidabile Harrison Ford e la sempre straordinaria Helen Mirren), nella perfezione dei dialoghi, nella assoluta fedele rappresentazione dei tempi e dei luoghi, nella bellezza delle locations, nel montaggio serrato, nel commento sonoro equilibrato e piacevole. I personaggi continuano a evolversi anche con le loro fragilità e la loro determinazione. In questo sono accumunati buoni e cattivi.

Dopo una prima stagione, questa seconda ha dovuto attendere la fine della pandemia, ma ha ripreso gli eventi dove si erano interrotti. Si era partiti dalla fine della Prima guerra mondiale e dallo scoppio del grande amore fra Spencer Dutton, (Brandon Sklenar, bello e schivo) e Alexandra (Julia Schaepfer. attraente e intensa). Terribili circostanze li avevano separati, niente in confronto a quello che affronteranno nei sette episodi che integrano questa seconda e probabilmente non ultima stagione. Non c’è stato un episodio in cui i protagonisti e i loro comprimari non si siano trovati a vivere/sopportare carichi e situazioni ai limiti del possibile e dell’impossibile. Senza dubbio anche la seconda stagione di 1923 ha mantenuto gli alti standard qualitativi della prima. Non aggiungo altro per non togliere il piacere della scoperta, ma rassicuro che la serie in questione ha certamente tutti i crismi di una delle più riuscite e appassionanti saghe familiari di sempre.

data di pubblicazione:10/04/2025

L’INCARICO basato sul racconto di Raymond Carver

L’INCARICO basato sul racconto di Raymond Carver

adattamento e regia di Luca Bargagna, con Silvia Ajelli, Claudio Di Palma, Arturo Muselli, Antonio Elia

(Teatro Biondo – Palermo, 9/13 aprile 2025)

Adattamento teatrale di un racconto di Raymond Carver, la pièce rievoca gli ultimi momenti di vita di Anton Čechov, gravemente colpito da una malattia ai polmoni, come peraltro lo stesso Carver. Traendo ispirazione da alcune pagine del diario di Olga Knipper, sulla scena si alternano ricordi del passato e citazioni letterarie, in un’atmosfera intima e drammatica insieme.

Luca Bargagna interpreta il testo di Raymond Carver – scrittore di racconti e poeta statunitense – e lo porta sulla scena mescolando biografia e invenzione, realismo e sogno. È l’incubo della morte incombente che si trasforma in visioni tanto oniriche quanto prosaiche. La poesia dei gesti quotidiani, colti nell’intimità tra Anton e la moglie Olga – accovacciarsi insieme sul pavimento, adagiare il cappotto sulle spalle dell’altro o semplicemente chiedersi come stai? – dilaga e trova spazio (materiale e simbolico) nel teatro. Rievocato, recitato e vissuto, questo, per celebrare la grandezza di chi ha scritto, creato, amato. E ancora ama.

Così gli interni domestici (casa o camera d’albergo?) che compongono la scena, nella loro sobrietà essenziale, sembrano aprire improvvisi squarci su orizzonti grandiosi. Si tratta proprio di lui, il Čechov scrittore al quale persino l’immenso Tolstoj volle rendere visita. Grande anche lui, pur nella sua modestia, e tuttavia incapace di disancorarsi da una realtà limitata, come limitata è l’umana esistenza. Proprio come i personaggi dei suoi racconti, l’uomo Čechov non è proiettato verso un’eternità, che non esiste. Alla domanda “dove vanno i suoi personaggi?” lui per primo risponderà, con squisita ironia, “dal divano al ripostiglio”, una replica che trova corrispondenza tanto nello spazio scenico quanto nei brevissimi spostamenti all’interno dello stesso.

La malattia costringe Anton in un ambiente ridotto, corto come il suo respiro, ravvivato solo dall’esuberanza della fedele moglie attrice, e dalle sue “numerose coppie di mani gesticolanti”. Eppure lui sogna di tornare a Mosca, con lei, e con un vestito nuovo di flanella bianca. E improvvisa una danza anche, lì sul palcoscenico. Una breve danza cheek to cheek sulle note di un jazz suadente, finché la tosse interrompe tutto bruscamente, e il respiro si cambia in rantolo.  Il corpo cede e la malattia ha il sopravvento, mostrando il fallimento della medicina. E di ciò il dottor Schwohrer in persona – testimone impotente della vicenda – per primo si rammarica.

Curare il corpo può essere, dunque, inutile e vano. Di contro, l’intelletto resiste, deve resistere, a costo di sforzi e fatica. Perché come dice a gran voce la stessa Olga, sempre più appassionata e audace, quello che scrive Anton “è necessario”. Per la sua poesia e bellezza, è necessario alla vita. E lui resiste, in questa sentita rappresentazione, fino al fatidico “Io muoio” plateale e sommesso insieme. A più riprese, sulla scena, Čechov muore della stessa morte di Carver, in una sorta di mise en abyme in cui si specchia e si riflette l’uomo. O lo stesso spettatore.

E dopo l’ultimo respiro? Si lascia spazio agli oggetti e alla loro simbologia: un telefono, una bottiglia di champagne, tre calici di cristallo su un vassoio, in equilibrio precario sulla testa di un improbabile cameriere, strampalato nell’aspetto e nei modi. A lui “l’incarico” di mutare il delirio dato dal dolore estremo in un ironico gioco di parole, che suscita il riso in mezzo alle lacrime. A lui il compito di raccogliere il tappo, sfuggito a quell’ultima bottiglia di Moët e che giace, superstite, sul pavimento. In attesa che qualcuno si chini a raccoglierlo e, finalmente, lo serri in pugno.

data di pubblicazione:10/04/2025


Il nostro voto:

A WORKING MAN di David Ayer, 2025

A WORKING MAN di David Ayer, 2025

Chicago. Levon (J. Statham) ex membro dei Royal Marines cerca ora di vivere tranquillamente. Lavora ormai da tempo, molto benvoluto, come capocantiere in una ditta di costruzioni edili. La figlia dei suoi datori di lavoro viene però rapita dalla Mafia Russa. Si trasformerà allora in una macchina da guerra perché solo lui può riuscire là dove la polizia non sa agire….

Il regista Ayer è un veterano degli Action Movie. Ad un anno dalla discreta accoglienza di The Beekeeper il regista ricompone la squadra con Statham sulla base di uno script co-sceneggiato addirittura con S. Stallone. A Working Man pur con il contributo di Stallone non apporta né intende apportare, nulla di nuovo al Genere ed è un film abbastanza convenzionale. Ciò non di meno è innegabilmente efficace e sarà apprezzato dagli appassionati e dai tanti fan di Statham. Un prodotto ben calibrato e tutt’altro che banale. Un film cinico, duro ed amorale. Un Action Thriller che riprende temi già sviluppati da altri film ed in cui l’attore inglese sconfina in territori fino a ieri occupati da L. Neeson. Il modello è infatti, con piccole varianti, proprio Taken (2008).  Siamo in piena formula consolidata e con i soliti ingredienti base. Il film procede infatti per automatismi, il che ha del positivo e del negativo al tempo stesso. Che predomini l’uno o l’altro, in tali casi, dipende solo dalla qualità dell’interprete. Ovviamente al centro di tutto c’è solo lui: Statham. L’attore pur nei limiti della sua recitazione, fa bene quel che fa, è convincente e raramente ha deluso i suoi fan. Ha un suo indubbio carisma e si è scavata una sua ben definita nicchia nel lucroso mercato di questo tipo di film. Anche lui è ormai divenuto un “genere di se stesso”, uno Statham Movie. Film con budget ragionevoli ma con redditività massimizzata. Per gli appassionati non si pone alcun problema. Basta che si rispettino tutti i codici dei film: azione, suspense, scontri fisici, sparatorie e successo finale del giustiziere solitario. A Working Man va infatti visto non pensando alla logicità o veridicità della vicenda ma apprezzando solo il susseguirsi di scazzottate, tensione, inseguimenti adrenalinici e combattimenti con tutte le armi possibili. Un film costruito su misura proprio per Statham.

Ayer si conferma abile realizzatore di film commerciali. Dirige con stile, buon ritmo e qualità delle inquadrature. Le sequenze dei combattimenti sono ben coreografate. Il suo A Working Man senza cercare di fare nulla di più del dovuto e di quanto atteso coglierà senz’altro le aspettative degli amanti del Genere e dell’attore.

data di pubblicazione:09/04/2025


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FERDINANDO di Annibale Ruccello, regia di Arturo Cirillo

FERDINANDO di Annibale Ruccello, regia di Arturo Cirillo

con Sabrina Scuccimarra, Anna Rita Vitolo, Arturo Cirillo e Riccardo Ciccarelli

(Teatro India – Roma, 1/6 aprile 2025)

Con Ferdinando si è chiusa la triade di spettacoli che il Teatro di Roma ha dedicato all’indimenticabile e compianto interprete del teatro napoletano Annibale Ruccello. Esempio luminoso di una drammaturgia legata alla tradizione e insieme nuova definita del ‘dopo Eduardo’, a cui parteciparono anche Santanelli e Moscato. Dopo Anna Cappelli con Valentina Picello diretta da Claudio Tolcachir e Le cinque rose di Jennifer con Geppy e Lorenzo Gleijeses, Arturo Cirillo firma la regia e l’interpretazione (nel ruolo che fu dello stesso Ruccello nella primissima edizione del 1984) del capolavoro premio IDI dell’autore stabiese.

Una certa attenzione a smascherare il marcio e l’ipocrisia che alberga nella società in cui siamo immersi, supportata da un linguaggio teatrale che pesca nella forma dialettale espressioni inequivocabili, è in qualche modo la cifra stilistica di Annibale Ruccello. Non è da meno Ferdinando in cui si prende gioco, attraverso la sottile ironia e l’immediatezza dei caratteri dei personaggi, di un certo bigotto conformismo che sopravvive ancora oggi nonostante siano passati quarant’anni dal debutto. Ed è un testo tuttora vivo e contemporaneo, sebbene anche l’ambientazione riporti la vicenda nel 1870, come da didascalia, nove anni dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie.

Ancora tra la fitta e dettagliata didascalia si dà indicazione un pesante tendaggio. Cirillo lo riprende nella regia come elemento scenico caratterizzante, protagonista. Un ponderoso tappeto damascato, sbiadito dal tempo e dall’usura, percorre infatti tutta la scena, fungendo da fondale e insieme da piano di recitazione. Fuori dal perimetro tracciato si concedono baci di lussuria e si dà sfogo a voglie carnali. Oltre al mobilio d’epoca, un’oscurità appena attenuata da deboli luci suggerisce a chi guarda la sensazione di essere di fronte a qualcosa di polveroso e trasandato.

Decadenti appaiono i personaggi. Su di loro pesano gli anni e i fatti recenti della storia di un’Italia da poco unita, che ha portato con sé il declino delle famiglie nobili. E soprattutto ha uniformato il linguaggio a discapito della ricchezza del dialetto. Per questo Donna Clotilde pretende che in casa si parli solo il napoletano. Nella parte della protagonista Sabrina Scuccimarra lo rimarca con forza. È come inacidita dalla novità, alla quale si oppone con protesta passiva dal suo letto di finta malata. Eppure ha ancora qualcosa di avvenente, di vivo che la infiamma e la tiene sveglia nonostante l’apparente depressione. La comicità del personaggio sta nel trasformare la proverbiale gaiezza della napoletanità in spigoloso e pungente sarcasmo, prodotto dal rancore e dalla delusione.

Di lei si prende cura Gesualda, una parente povera, accusata ingiustamente di aspettare la morte della cugina per rilevare le sue pur scarse ricchezze. A vestirne i panni è Anna Rita Vitolo che sa toccare nello spazio di coprotagonista esilaranti punte di comicità. È espressione di una umanità arresa, bloccata, delusa, costretta ad accontentarsi del poco che la vita le mette davanti nel claustrofobico spazio dell’appartamento in cui è a servizio. Non disdegna infatti la compagnia di Don Catello, l’ambiguo prete del paese che ogni giorno fa visita alla malata, interpretato dallo stesso Cirillo.

Quando arriva Ferdinando – un giovane parente di Donna Clotilde rimasto orfano – in casa si respira un’aria nuova. Tutti se ne innamorano, anche Don Catello, per il quale rappresenta la possibilità, il futuro, la fiducia nello sperato cambiamento. Per Donna Clotilde invece è l’occasione attesa per riprendere la vita in mano, ma per Gesualda, che inizialmente soffrirà la concorrenza per le attenzioni che Don Catello rivolgerà al ragazzo, sarà solo un mezzo utile per dare smacco a chi l’ha scansata.

Ma il genio di Ruccello è nel finale, in cui l’acquistata serenità verrà nuovamente ribaltata. Ma ormai è troppo tardi e non rimane altro da fare che prendere coscienza della propria piccolezza a cui, più che con religioso perdono, sarebbe opportuno guardare con una sana e umana comprensione.

data di pubblicazione:09/04/2025


Il nostro voto:

RITROVARSI A TOKYO (UNE PART MANQUANTE) di Guillaume Senez, 2025 – XV RENDEZ-VOUS

RITROVARSI A TOKYO (UNE PART MANQUANTE) di Guillaume Senez, 2025 – XV RENDEZ-VOUS

Ritrovarsi a Tokyo (Une part manquante) di Guillaume Senez, in uscita in Italia al cinema il 30 aprile e scelto come film di chiusura del Festival del Nuovo Cinema Francese a Roma domenica scorsa, è uno dei film meno “francesi” mai visti per contenuto, ma deliziosamente francese per stile. Se per “francese” intendiamo il movimento naturale della macchina da presa, che diventa quasi un microscopio sotto il quale si districa, in un crescendo, una complessa situazione psicologica e sociale.

Incontriamo il protagonista, Jay (Romain Duris), un tassista, mentre dà indicazioni a un’automobilista in mezzo alla strada. Già questo ci incuriosisce: siamo a Tokyo, e Jay non è giapponese, ma occidentale. Da subito veniamo risucchiati nel suo strano mondo: il lavoro notturno da taxista, le visite ai bagni pubblici, le videochiamate con il padre in Francia, e la collaborazione con un’avvocatessa giapponese che si occupa di affidamenti familiari — sia in coppie miste che in famiglie giapponesi.

Jay viene incaricato di occuparsi di Jessica (Judith Chemla), una madre francese approdata a Tokyo colma di rabbia e determinazione, decisa a riprendersi il figlio separato da lei e affidato al padre giapponese. Per la prima metà del film, queste situazioni, gli spezzoni di dialogo, i silenzi carichi di significato e i paesaggi di una Tokyo che potrebbe essere qualsiasi grande città, sembrano solo frammenti colorati di un mosaico ancora da comporre. Ma, una volta completato, ci lascia a bocca aperta.

Ci troviamo davanti a una realtà inimmaginabile per un europeo: in Giappone l’affidamento condiviso non è previsto dalla legge. Jay è a Tokyo da nove anni solo per ritrovare sua figlia, Lily, che non vede da quando lei aveva tre anni. La madre, con la legge dalla sua parte, aveva interrotto ogni contatto tra padre e figlia.

Ma proprio quando Jay sta per rinunciare definitivamente al ritrovamento con la figlia, sostituendo un collega, si ritrova inaspettatamente Lily (Mei Cirne-Masuki) sui sedili posteriori del suo taxi. Dovrà accompagnarla ogni giorno a scuola. È un momento carico di trepidazione. La delicatezza e il rischio impliciti in questo incontro sono ormai evidenti allo spettatore, e come in ogni buon giallo, ogni parola e ogni gesto — grazie anche alla bravura degli attori — alimentano la tensione.

Chi spera in un lieto fine per questo incontro tra padre e figlia non resterà del tutto deluso. Anche se la realtà, con la prospettiva di un’ulteriore lunga separazione, getta la sua ombra.

È un film denso, toccante, pieno di ironia e delicatezza. Racconta un amore profondo tra padre e figlia, senza mai cadere nello stereotipo o nella banalità o nel giudizio culturale. Guillaume Senez ci regala un’opera che ci farà riflettere più che sorridere — ma anche questo, in fondo, è il segno di un bellissimo film francese.

data di pubblicazione:08/04/2025


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BEYOND WORDS

BEYOND WORDS

Due eventi per la giornata mondiale della consapevolezza sull’Autismo

L’Assessorato Grandi Eventi, Turismo, Sport e Moda di Roma Capitale e l’Associazione Modelli si Nasce hanno ricordato la giornata mondiale della consapevolezza sull’Autismo con la manifestazione BEYOND WORDS un doppio appuntamento che ha previsto una sfilata che si è  tenuta a Roma il 1° Aprile 2025, presso Salone delle Fontane dell’EUR cui è seguita il giorno 2 Aprile l’apertura di una mostra di immagini fotografiche presso Palazzo Braschi in Piazza di S. Pantaleo.

Modelli si Nasce è e resta la prima e unica associazione in Italia dedicata alla formazione di giovani autistici da avviare alla professione di modelli nel settore della moda e della pubblicità.

Giunta alla seconda edizione, la manifestazione, che ha visto la direzione artistica di Rossano Giuppa ha voluto unire moda, arte e condivisione sociale, con un focus particolare sulla consapevolezza riguardo l’autismo, sensibilizzando il pubblico, sfidando pregiudizi e diffondendo una cultura di accoglienza e rispetto. Un aiuto fondamentale e una speranza per le tante famiglie di ragazzi autistici, che non trovano sostegno per l’integrazione nella vita sociale, creando un modello di ispirazione, per avvicinare la società a temi così delicati e complessi come l’autismo in un’ottica di valorizzazione delle straordinarie potenzialità dei ragazzi.

Hanno sfilato cinque giovani brand Leonardovalentini, Alchètipo by Andrea Alchieri, Migale Couture, Simon Creacker, Chronos Corps, unitamente al brand francese di accessori e scarpe Calla attentamente selezionati perché vicini ai temi dell’innovazione, della sostenibilità e dell’inclusione con collezioni appositamente disegnate per 20 giovani modelli dell’Associazione.

La manifestazione ha preso ispirazione dal libro “Fantasie e non solo…” scritto da Manuel Sirianni, giovane poeta-scrittore autistico non verbale, membro dell’associazione. Un testo composto da cinque storie di fantasia, che l’autore con tanti sogni in testa, ama raccontare e raccontarsi per donare benessere e speranza agli altri. Ogni racconto che ha una morale e è stato di ispirazione per ciascun designer.

La conduzione è stata anche quest’anno a cura della giornalista e conduttrice Eleonora Daniele ed ha previsto la partecipazione degli attori Paola Minaccioni, Margareth Madè, Giuseppe Zeno, Vittoria Schisano, Giulia Bevilacqua, Fabius De Vivo, Diane Fleri, Michele Ragno unitamente alla top model Simonetta Gianfelici ed alla giornalista Mariella Milani che hanno letto degli estratti tratti dal libro di Manuel Sirianni.

All’evento hanno assistito più di 600 invitati tra i quali molti esponenti della stampa e dello spettacolo.

BEYOND WORDS, è anche il titolo della mostra a cura di Federica Trotta Mureau, inaugurata a Palazzo Braschi il 2 aprile, Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo che racconta, attraverso le fotografie di Danilo Falà, l’essenza invisibile che solo l’arte sa rivelare.

Protagonisti sono i ragazzi dell’associazione Modelli si Nasce, primi modelli autistici in Italia formati per abitare la scena della moda non come eccezione, ma come autentica espressione di bellezza. Un percorso visivo e poetico, in cui immagine e silenzio diventano linguaggio universale, capace di parlare al cuore. La regia del film che accompagna le immagini è stata affidata a Federico Papagna, mentre la direzione grafica per la stampa è curata da Daria Reina e Andrea Ferolla. La mostra patrocinata da Roma Capitale – Assessorato ai Grandi Eventi, Turismo, Moda e Sport, resterà aperta fino al 21 aprile.

data di pubblicazione:08/04/2025

LE REPONDEUR di Fabienne Godet, 2025 – XV Rendez-Vous

LE REPONDEUR di Fabienne Godet, 2025 – XV Rendez-Vous

Baptiste (S.Cissé), giovane e spiantato imitatore di talento, viene assunto da Pierre (D. Podalydès), romanziere famoso e nevrotico. Assillato dalle telefonate ha bisogno di tranquillità per concentrarsi in solitudine sul suo nuovo romanzo. Baptiste dovrà fargli da “segretario telefonico” ma non riuscirà a limitarsi a rispondere e improvviserà…

Come è possibile in un’epoca di iperconnettività riuscire a restare interconnessi e nello stesso tempo essere soli con sé stessi in silenzio per riflettere, elaborare i propri pensieri e scrivere?

La Godet prende spunto da un’ipotesi a prima vista del tutto inverosimile. Dopo poche scene lo spettatore si troverà però in piena sospensione dell’incredulità come nelle migliori fiction. La giovane sceneggiatrice e regista ci regala infatti una commedia tanto assurda quanto comica che flirta con inventiva e furbizia con più sottogeneri, come i Buddy Movie e le RomCom. I confini fra realtà e finzione riescono a fondersi in modo naturale. Un approccio originale, intelligente e ironico a temi non banali e di attualità quali le interazioni umane, l’identità individuale, la capacità di cambiare, la dipendenza dagli altri e la comunicazione moderna. La regista utilizza gli spunti più che classici della falsa identità e del “doppio” per alimentare sia la tensione narrativa sia le situazioni comiche. La sceneggiatura ben scritta gioca sugli equivoci senza però abusarne. Il ritmo, all’inizio volutamente lento, assume presto la giusta dinamicità in coerenza con la girandola di false verità. La regia elegante crea atmosfere anticonformiste e dà un giusto tocco di sottile umorismo alla vicenda. Il cast è più che apprezzabile. Bella la chimica tra i due scoppiettanti protagonisti ai quali fanno da spalla i ruoli di supporto ben caratterizzati.  Le Répondeur è dunque una commedia garbata e spiritosa. Un feel good movie “alla francese” e una bella storia di amicizia. Un piccolo bijou di cinema che fa venir voglia di continuare a seguire i prossimi lavori della regista.

data di pubblicazione:06/04/2025


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UN GRANDE CINEASTA ALLA FIERA DI MILANO

UN GRANDE CINEASTA ALLA FIERA DI MILANO

Un progetto che porta la genialità e la creatività del Cinema d’Autore al Salone del Mobile, il cui claim quest’anno è Thought for Humans. Il regista Paolo Sorrentino infatti ha messo da parte la cinepresa per dedicarsi a una installazione temporanea che sarà presentata alla Fiera di Milano dall’8 al 13 aprile. L’anno scorso l’opera Interiors. A Thinking Room era stata ideata da David Lynch. Quella di quest’anno creata dal nostro regista e intitolata La Dolce Attesa offrirà ai visitatori l’opportunità di fermarsi ad ascoltare il proprio respiro per ritrovare la bellezza nel tempo che scorre lento, evocando il valore della pazienza. Nell’epoca del tutto e subito riscoprire il senso dell’attesa significa cogliere l’opportunità di osservarsi e ascoltarsi. Perché – come ha detto il regista – L’attesa è angoscia. La dolce attesa è un viaggio. Che stordisce e ipnotizza. Ingannare l’attesa che può essere anche fonte di incertezza e ansia diventa una sospensione della vita ed è proprio in questo stato di sospensione che consiste l’essenza dell’opera effimera: una riflessione poetica sul valore del tempo e sulla possibilità di trovare bellezza anche nell’attendere.

Lo spazio – allestito con il contributo della grande scenografa Margherita Palli – si presenta come un ponte invisibile tra presente e futuro, una terra di mezzo in cui il desiderio si intreccia con il timore di incontrare il destino. Se l’attesa è uno spazio sospeso il suono deve saperlo colmare mentre ne racconta il ritmo. Per questo il regista ha voluto Max Casacci – il fondatore dei Subsonica – per la composizione di una musica che ne disegna il fluire senza strumenti musicali ma solo con rumori del mare e della Natura. Un battito che accompagna l’esperienza immersiva dell’installazione senza imporsi.

data di pubblicazione:05/04/2025

LA PULCE NELL’ORECCHIO di Georges Feydeau, traduzione e adattamento di Carmelo Rifici e Tindaro Granata

LA PULCE NELL’ORECCHIO di Georges Feydeau, traduzione e adattamento di Carmelo Rifici e Tindaro Granata

regia di Carmelo Rifici

con (in ordine alfabetico), Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Carlotta Viscovo

(Teatro Vascello – Roma, 28 marzo/6 aprile 2025)

Una fabbrica di trovate comiche costruita sulle parole e le situazioni questa messa in scena del classico di Feydeau La pulce nell’orecchio firmata da Carmelo Rifici. È una fiera del riso e una girandola di follia, creata in collaborazione con Tindaro Granata per la traduzione e l’adattamento, e affidata a un eccezionale gruppo di attori. Una produzione impegnativa che vede collaborare LAC (Lugano Arte e Cultura), Piccolo Teatro di Milano e La Fabbrica dell’attore – Teatro Vascello di Roma.

 

Commedia degli equivoci, delle coincidenze e degli imbrogli. Chiaro esempio di quel genere chiamato vaudeville che Feydeau porta a perfezione seguendo le orme di grandi autori come Labiche. Un’occasione del tutto eccezionale per un regista come Rifici – solitamente alla prova con testi più impegnati – di dirigere un intreccio comico come La pulce nell’orecchio. Sceglie un impianto moderno, privando il contesto dei riferimenti borghesi insiti nella struttura del testo e lascia scoperto il meccanismo comico che invece lo caratterizza.

Il sospetto accende la bomba, mette la pulce nell’orecchio. Per colpa di uno scambio di bretelle una moglie crede che il marito la tradisca. Per avere prova della sua infedeltà gli fa scrivere una lettera da un’amica, invitandolo in un albergo di equivoca fama. È qui che gli eventi si moltiplicano, ingarbugliandosi in una matassa fitta che farà venire a galla intrighi piccanti, tresche segrete, piaceri libidinosi e inconfessabili voglie, fino allo scioglimento finale.

Capovolgimenti, immoralità, difetti e storpiature linguistiche. Rifici sfrutta il potere comico del testo, utilizzando qualsiasi espediente per fa ridere il pubblico. Il catalogo delle soluzioni comiche è completo. Dalle ripetizioni allo scambio di persona, dal degenerare delle situazioni fino all’imitazione dell’umano nei suoi lati grotteschi e animaleschi. E poi veri esercizi di clownerie e acrobazie sui blocchi di gommapiuma – a sostituzione del mobilio belle époque – che fungono da praticabili. La scena di Guido Buganza è una stanza dei giochi posizionata su un piano girevole che ruota come un carosello svelando inevitabilmente i nascondigli dove si consumano le segrete perversioni dei personaggi. È un giardino dell’infanzia in cui non ci si fa male. In fondo il teatro è il luogo della finzione, dove tutto accade per scherzo («Davvero potete credere che qui qualcuno possa morire veramente?»). Anche i colori sono gioiosi, un lavoro di riduzione a vibranti campiture che vanno a riempire spazi geometricamente definiti. Colori puri e cristallizzati che sono anche nel disegno dei costumi di Margherita Baldoni.

Il lavoro ermetico investe anche i personaggi. La realtà umana, dissezionata e come esplosa nel disordine del gioco, rimane tuttavia riconoscibile. Rifici la spoglia delle sovrastrutture sociali, dà pari dignità al genere e osserva con una lente i tratti di ognuno fino a esasperarne la ridicolezza. Agli attori è richiesta ogni tipo di attitudine e abilità, dall’elasticità alle doti vocali, da una grande memoria per gesti e intrichi verbali – alla bisogna sdoppiati in più ruoli – fino alla capacità di saper suonare uno strumento musicale. Ma soprattutto una dote: sapersi divertire in squadra. E la compagnia di attori messa in piedi da Rifici dimostra di essere un corpo unico, in cui gli elementi lavorano in sinergia e su cui (si immagina in prova e durante la tournée) sono state costruite le innumerevoli gag che vanno oltre la perfetta macchina di divertimento creata da Feydeau.

data di pubblicazione:05/04/2025


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