da Nadia Alese | Giu 3, 2025
Questo sesto capitolo di Karate Kid è sicuramente il sequel più riuscito finora. Abbraccia anche il mondo di Cobra Kai, strizzando continuamente l’occhio al 1984, sullo sfondo di una suggestiva New York in una perenne golden hour, che fa della fotografia uno degli elementi più riusciti della pellicola (anche se poi risulta che il film sia stato paradossalmente girato in prevalenza a Montreal).
Gli ingredienti sono sempre gli stessi, in particolare gli allenamenti, che rimandano in pieno al primo episodio, seppur senza il mitologico “metti la cera, togli la cera”, così come i combattimenti, resi spettacolari grazie ad un montaggio serrato e riuscito.
Ma il grande elemento di novità che regala il vero tocco magico al film è l’accoppiata Jackie Chan/ Ralph Macchio che esalterà il pubblico degli appassionati del genere.
Anche chi si approccia alla saga per la prima volta, però, non rimarrà deluso, perché il giovane protagonista Li Fong (Ben Wang), che da Pechino si trasferisce con la madre a New York, cattura per simpatia e capacità di riempire lo schermo, con tutti gli elementi che servono per fare funzionare la storia, dal senso di colpa, all’elaborazione del lutto, fino al riscatto personale.
Non mancano anche momenti comici, soprattutto affidati a Wyatt Oleff, nella parte del giovane preparatore di Li all’esame di ammissione scolastica, in un piccolo ruolo che però si fa notare.
Il personaggio meno riuscito è invece quello di Joshua Jackson, padre della giovane amica di Li, che, forse incastrato nel ruolo e nell’universo parallelo di Dawson Creek, mantiene lo stesso sguardo piacione dall’inizio alla fine, anche appena risvegliato da un codice blu che sembrava condannarlo a morte certa. Ma le pizze che vende fanno da fil rouge tra le varie scene ed il tutto rientra perfettamente nella formula fumettone che il regista sceglie per il suo prodotto.
Detto questo la sensazione è che, pur nel godimento istantaneo, il ricordo di Karate Kid: Legends non rimarrà a lungo, lasciando per l’ennesima volta lo scettro a quell’unico primo indimenticato episodio, che pur non essendo mai stato, a sua volta, un vero e proprio capolavoro, ha comunque il pregio di avere segnato l’immaginario di un’epoca.
data di pubblicazione:3/06/2025
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da Nadia Alese | Mag 31, 2025
Un’opera prima davvero ispirata questa di Christian Filippi, con un giovanissimo protagonista, Zackari Delmas, in un impagabile stato di grazia.
Riccardino, quasi diciottenne, minaccia di buttarsi dall’ultimo piano della casa famiglia in cui vive. Non un vero istinto suicida, ma il desiderio di attirare l’attenzione sulla sua necessità di vedere la madre, da cui è stato allontanato, e che è ricoverata in un ospedale psichiatrico per gravi problemi mentali.
Un formato in 4/3 che ricorda da subito Mommy di Javier Dolan, storia di un rapporto altrettanto difficile tra madre e figlio a parti invertite, ma che non si apre mai, al contrario dell’altro, al formato 16:9, preferendo, alla fine, un fermo immagine, che richiama invece più apertamente I 400 passi di Truffaut, con l’indimenticabile sguardo in camera del protagonista. Qui accompagnato dalla delicata dedica a tutti quelli che, come Riccardino, stanno cercando il loro posto nel mondo.
Una recitazione davvero naturale quella di Zackari Delmas, mai sopra le righe, nonostante passi attraverso tutta la gamma delle emozioni, dalla rabbia, alla delusione fino all’entusiasmo, nella ricerca ancestrale dell’amore materno, anche quando questo amore è reso impossibile dalle condizioni psichiche di lei. Anche quando è lei stessa, donna bambina, a rifiutarlo, ferendolo con parole che nessun figlio vorrebbe sentirsi dire, nella confusione mentale di chi, per cause di forza maggiore, non è in grado di gestire le proprie azioni ed i propri sentimenti.
Una regia molto interessante quella di Christian Filippi, che racconta una storia universale, che va oltre la periferia romana e gli stessi protagonisti raccontati. Con movimenti di camera mai banali che culminano nelle due scene di ballo, liberatorie e che preludono, in entrambi i casi, ad una fine imminente per ricominciare.
Un film indipendente, che però non cade mai negli stereotipi dei film indipendenti, assolutamente da recuperare se lo si è perso. Una boccata d’aria fresca che fa bene sperare per il futuro del nostro cinema.
data di pubblicazione:31/05/2025
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da Nadia Alese | Mag 28, 2025
Guido Chiesa chiude la lunga parentesi dedicata alla commedia con un film suggestivo e ispirato che non ci saremmo aspettati. Una storia dal respiro internazionale, tratta in parte dal romanzo The love of Judith di Meir Shalev, articolata su due piani e due epoche diverse, destinate a ricongiungersi nella risoluzione finale del mistero che si prospetta all’inizio.
Da una parte l’americana Esther Horowitz (Mili Avital), che, negli anni 70, riceve una lettera della madre appena deceduta, con una missione da compiere in Israele, sua terra d’origine, che la porterà a vestire i panni di detective in un lungo viaggio verso le proprie radici dimenticate. Dall’altra Yehudit (Ana Ularu), che nella Palestina degli anni 30 sfida le convenzioni patriarcali e culturali dell’epoca, imponendo il suo carisma e le sue scelte di libertà, mettendo al mondo un figlio con tre padri (di cui Alban Ukaj e Mare Rissmann particolarmente convincenti), perché tanto alla domanda di chi sia figlio è pronta a rispondere con risolutezza, semplicemente: “Mio”.
E fra le protagoniste anche quella madre silenziosa che non si vede mai ma che, dopo la morte, fa alla figlia il più grande dono d’amore, restituendole una verità che la porterà, per la prima volta, ad abbracciare la vita con empatia e speranza.
Una fotografia fredda e quasi asettica nel presente contrasta con quella più calda e vivida del passato, mentre la forza e l’indipendenza di entrambe le donne accomunano le due epoche.
Non si tratta di un film politico, come l’ambientazione in Israele potrebbe fare pensare, bensì una pellicola che ha per protagoniste esclusivamente le donne e l’amore, unica vera matrice che genera gli avvenimenti drammatici e non che tengono viva la storia fino all’ultimo.
Già vincitore al Bif&st Guido Chiesa, con l’aiuto della co-sceneggiatrice Nicoletta Micheli, ci regala un ritorno al drammatico godibile e coraggioso, con una regia asciutta ma con un paio di scene visivamente molto potenti, che non vuole fare rigare le guance ma che nella rivelazione finale non riesce a non emozionare.
data di pubblicazione:28/05/2025
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