da Daniele Poto | Ott 31, 2024
84 FILM IN PROGRAMMA DAL 7 NOVEMBRE
Appena il tempo di spedire in archivio gli echi della Festa del Cinema che nella capitale irrompe un nuovo grande evento che monopolizzerà l’attenzione dei cinefili per dieci giorni, precisamente dal 7 al 17 novembre prossimi. Ai nastri di partenza il Medfilm Festival 2024 che è la più collaudata rassegna cinefila ambientata a Roma. Ricorre infatti la trentesima edizione per l’iniziativa curata da Gisella Vocca, presentata al Maxxi e che avrà come sedi dedicate oltre al Museo sopra citato anche il Cinema Moderno, il Palladium e la Casa del Cinema. I numeri della manifestazione sono abbaglianti con 80 titoli in programma e un montepremi complessivo estremamente incoraggiante fissato a 20.500 euro. La cinematografia del Mediterraneo presenta qui i suoi gioielli tutti datati nel 2024 e quindi alla prima apparizione internazionale. Il Concorso ufficiale dispensa il Premio Psiche e vede in lizza otto opere con produzioni italiane, francesi, spagnole, iraniane, palestinesi, tunisine e marocchine a ben definire il bacino ricettivo di utenza Nel corso della rassegna sarà assegnato a Matteo Garrone il Premio Koinè per il messaggio contenuto nel film Io Capitano, invano candidato all’Oscar. Il suo gioiello sarà riproposto il 13 novembre con ingresso gratuito. I grandi numeri snocciolati nel Gala di apertura sono illuminanti: 35 paesi rappresentati, 84 film in cartellone tra lungometraggi, cortometraggi e documentari, 31 anteprime italiane, 18 anteprime internazionali, 8 giurie, 15 premi. In più come valore aggiunto, come testimoniato dalla presenza di numerosi giovani, estensione alle Scuole di Cinema e alle università in veste di partecipanti e di contributo alle giurie. Tutte le pellicole presentate saranno in lingua originale con i sottotitoli in italiano per un miglior apprezzamento e valutazione.
data di pubblicazione:31/10/2024
da Giovanni M. Ripoli | Ott 30, 2024
Una ragazza, Parthenope, che ha il nome della sua città, seguita in un percorso esistenziale che si confonde con la vita stessa di una Napoli di ieri e di oggi. Il tutto in “salsa” Sorrentino.
Dopo la prima in concorso al Festival di Cannes è sui nostri schermi l’ultimo parto cinematografico di Paolo Sorrentino, regista talentuoso ma divisivo: lo si ama o lo si detesta. Certamente il film non lascia indifferenti. Certamente non è lo stesso per chi è “napoletano” di nascita o di cuore e per chi è meno incline alla filosofia partenopea. Proverò dunque a esaminare la pellicola da una doppia angolazione, elencandone i motivi che possono indurre a considerarlo il miglior film del regista e le ragioni per considerarlo, invece, pretenzioso, autocompiaciuto e manierista, inutilmente “felliniano”.
Chi ha amato La Grande Bellezza non potrà che ritrovare in Parthenope la stilizzazione visiva, monologhi spiazzanti, personaggi originali quando non grotteschi, il mistero, lo stupore, alcune scene memorabili che non svelo. La musica in perfetta sintonia con le situazioni, tante battute e aforismi sull’amarezza della vita. Sorrentino ha dichiarato che È Stata la Mano di Dio rappresenta la sua giovinezza, Parthenope quella che non ha vissuto. In Parthenope, alla sua maniera, questo ha voluto rappresentare: una città che dagli anni ’50 in poi è stata una esperienza emotiva, sensoriale, intellettuale e visiva, ma al contempo goffa e tragica. Il regista sostituisce Jeff Gambardella con Parthenope (e questo già sarebbe un merito, vista l’espressività e la clamorosa bellezza di Celeste Dalla Porta) e ne fa la sirena che seduce i protagonisti della storia ma anche noi spettatori. Va detto che convincono altrimenti le altre interpretazioni seppure fortemente marcate quando non volutamente caricaturali affidate ad attori credibili. Il professore antropologo è Silvio Orlando. lo scrittore omosessuale, John Cheever il grande Gary Oldman, il vescovo Tesorone il vulcanico Peppe Lanzetta. E se la cavano anche un’imbruttita Luisa Ranieri e una seminascosta Isabella Ferrari, come nel finale ammiriamo una Stefania Sandrelli, quale Parthenope adulta..
Su tutti e tutte, però, come anticipavo, la totalizzante bellezza, freschezza e fascino di Celeste Dalla Porta probabile futura star del cinema italiano, perfetta nel ruolo di sirena e musa ispiratrice, nonché, per i detrattori del film la sola ragione che possa giustificare il prezzo del biglietto. Ma vediamo invece e in breve alcune delle ragioni di “ sconsiglio” per la pellicola in questione. Intanto diciamo che il film dura troppo in relazione alla storia, in fondo minima, che racconta. Quindi le decine di incisi di cui è infarcito il film possono risultare dei riempitivi a volte noiosi, improbabili e/o persino disturbanti. Si dice che il troppo storpia, bene, Sorrentino riempie la pellicola di tante, troppe, cose, dando la sensazione di film diversi tra loro. Quanto al livello intellettuale di alto profilo, siamo proprio sicuri che si tratta di arguti aforismi? Non è piuttosto il compitino di un buon liceale che vuole colpire con frasi solo apparentemente anticonformiste. E alcune scene, al di là, dell’uso sapiente della macchina da presa e di una fofografia impeccabile (ma il merito è di Napoli o di Capri) non sono inutilmente forzate?. E quanto c’è di un Fellini che non ce l’ha fatta in tanti personaggi caricaturali e grotteschi? In conclusione ci viene l’atroce dubbio che il film sia stato scritto magari per il mercato americano: ieri Roma, oggi Napoli, con la “speranzella” di un nuovo Oscar. Si tratterebbe allora di un film “furbo” studiato al tavolino, ma lascio agli spettatori il giudizio finale. Per quanto detto, un merito va comunque riconosciuto. Il film incuriosisce, porta gli spettatori a vederlo e farsene una propria insindacabile idea.
data di pubblicazione:30/10/2024
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da Salvatore Cusimano | Ott 30, 2024
(19a FESTA del CINEMA di ROMA 2024)
Presentato a Cannes, dove ha vinto il premio come miglior sceneggiatura, il film di Fargeat racconta di Elizabeth Sparkle (Demi Moore), una star ormai cinquantenne, la quale decide di assumere una droga misteriosa, “una sostanza” capace di replicare una versione migliore di sé stessa, di nuovo atletica, rivitalizzata, in altre parole più giovane. La trasformazione in Sue (Margaret Qualley), però, comporterà degli effetti tragici e irreversibili.
La sostanza di cui parla il titolo dura solo una settimana. La nuova versione di Elizabeth (Sue) dura quindi solo per 7 giorni, al termine dei quali dovrà riassumere la sostanza per far vivere la Elizabeth di prima, che tornerà a vivere per 7 giorni mentre la copia giovane (nascosta in bagno) si nutre e si ricarica, per poter fare altri 7 giorni e così via: una settimana ciascuna.
Corpi nudi e sangue a bizzeffe per riflettere sulla bellezza e su tanto altro. Le premesse ci sono tutte per affrontare quindi vari temi, quali la spietatezza dello showbiz (americano ma non solo), l’incapacità di accettare il tempo che passa, una società sempre più basata su canoni estetici che vanno molto oltre la normalità. Ecco, appunto, le premesse, ma per il resto non si avvertiva davvero la necessità di ridurre il tutto a un mega splatter, con salsa speziata di horror, con primi piani e battaglie vomitevoli ai più. Il film esagera volutamente spingendo fino all’estremo, con organi interni e liquidi fisici in perenne evidenza. L’impostazione al passare del tempo (che sembra non finire mai) diventa folle, esagerata e senza senso, un horror che è sì colorato, ma è retto solamente dalle performances di Demi Moore e Margaret Qualley che lottano senza effettivamente mai scontrarsi davvero. The Substance ci tiene a rammentare a tutti che il tempo è spietato e che dovremmo amare ciò che abbiamo senza fantasticare di tornare sempre indietro: a patto però che si vogliano accettarne gli effetti e i relativi risultati.
data di pubblicazione:30/10/2024
da Rossano Giuppa | Ott 30, 2024
(Roma Europa Festival 2024)
Dal 25 al 27 ottobre il Roma Europa Festival ha ospitato al Teatro Vascello di Roma in prima nazionale Roberto Zucco, un’opera tratta dall’omonimo testo di Bernard-Marie Koltès con regia, sceneggiatura e adattamento a cura di Giorgina Pi, ispirato alla vera storia di Roberto Succo, giovane originario di Mestre, che dopo aver barbaramente ucciso i genitori, evase dal carcere e, nonostante fosse inseguito dalla polizia di tre stati, riuscì a perpetrare una serie di altri crimini, prima di venire nuovamente catturato e suicidarsi in carcere (foto Greta de Lazzaris).
Dopo Kae Tempest, Caryl Churchill, Pasolini, Giorgina Pi si confronta con Bernard-Marie Koltès e con il suo Roberto Zucco, testo postumo che ha al suo centro il tema della ineluttabilità della spirale della violenza legata al disagio ed al male di vivere.
Giorgina Pi regista e attivista, fa parte del collettivo artistico Angelo Mai e con il gruppo Bluemotion realizza spettacoli che coniugano il lavoro sui testi teatrali alla riscrittura contemporanea, alla ricerca visuale ed alla musica dal vivo.
Il testo prende spunto da un fatto di cronaca: l’autore trasporta sulle scene le gesta violente dell’italiano Roberto Succo, mandato in prigione a diciotto anni per aver ucciso i suoi genitori, poi evaso, inseguito dalle polizie di tre stati, ma implacabile nella sua attività criminale. Bernard-Marie Koltès, unanimemente considerato un gigante della drammaturgia europea del Novecento, ne fa il racconto drammatico di una gioventù bruciata. Una storia di quasi quarant’anni fa profondamente attuale, un dramma attraverso gli occhi di un eroe negativo, un racconto che corre inesorabile verso la morte, in cui nessun personaggio ha possibilità di salvezza o redenzione.
La vicenda è ambientata nel Sud della Francia in una provincia che tanto ricorda una Parigi fosca e libertina, luogo di disperazione, violenza e carnalità. Luoghi reali e simbolici, dove gli uomini si sentono predatori e le donne vittime alla ricerca di una difesa o di una via di fuga. Un gioco al massacro dove non si ha più nulla da perdere.
Il linguaggio del dramma è essenziale e vivisezionato. I dialoghi e le scene si susseguono, quasi fotogrammi sfocati di un discorso a singhiozzo, raccontano di violenza in sequenza, in uno stile asciutto e senza enfasi che si espleta inesorabile nei confronti del prossimo, della famiglia, di se stessi.
Bravi gli attori, interessanti i costumi, straordinarie le luci e l’ambiente sonoro di un girone dantesco metropolitano, dove il male è sopravvivenza e condanna. Tutto si sgretola, forse è la morte la pace.
data di pubblicazione:30/10/2024
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 28, 2024
con Autilia Ranieri, Roberto Salafria, Rossella Gesini, Paola Del Peschio, Stefano Angelucci Marino, traduzione e regia di Stefano Angelucci Marino, scenografia di Tibò Gibert. Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo con la collaborazione del Teatro del Sangro
(Teatro Arcobaleno, Roma, 25/27 ottobre 2024)
Le maschere di Brat Teatro per uno slang che confonde l’italiano, il napoletano e il castigliano/argentino. Tre autentiche lingue in riuscita fusione. Uno spettacolo inconsueto che riporta a galla sulle nostre scene Armando Discepolo, un vero must del continente americano, versante Buenos Aires. La glossa finale dell’autore è quanto mai utile per inquadrare la figura di questo Pirandello argentino di chiare origini italiane, come milioni di connazionali dell’altro continente.
Una coraggiosa riscoperta di un classico del 1928, decisamente evergreen. Una famiglia da tutti contro tutti sull’abbrivio del fallimento del musicista, invano proteso verso la creazione di un’opera che dovrebbe dargli imperitura fama. Ma la pagina rimane bianca e, peggio del peggio, l’interessato verrà persino licenziato dall’orchestra che gli procura il fabbisogno per vivere perché ridotto alla musicalità di una capra. Dialoghi scabri, rotti, convulsi con in nuce un eterno conflitto tra i membri della famiglia. Rasserenanti solo attimi di musica con prove di ballo. Ed è tango, naturalmente. Il fallimento della famiglia in questione è la metafora del fallimento di una generazione di italiani venuti a cercare fortuna a migliaia di chilometri di distanza, sotto il cielo dell’Argentina. Le maschere servono a mettere distanza e alla fine rivelano visi inaspettati. Il sottotesto riguarda anche un’aspirazione frustrata all’arte che può portare delusione e infelicità. Bravi tutti gli interpreti con necessità ben assolta di seconda parte. Luci di taglio a espressionista e clima dolente. Il tournèe in Italia per far conoscere un autore trascurato ma che fa parte della storia del teatro del trascorso secolo. In gergo quello che ci viene mostrato è il grottesco criollo.
data di pubblicazione:28/10/2024
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 28, 2024
con Melania Giglio, Marco Imparato e Lorenzo Patella, regia di Daniele Salvo
(Teatro Manzoni, Roma, 22/27 ottobre 2024)
Melania Giglio si sta specializzato in biografie musicali. Il cambio di paradigma è sorprendente: da Edith Piaf, l’usignolo, alla voce stridente di Winehouse. Una parruccona bruna lunga rende la somiglianza impressionante nonostante la differenza anagrafica. Teatro ma contenuto da musical. Con toni forti, sopra le righe, molto alcool simulato e la lunga discesa verso l’abisso della fine invano contrastato dai soggetti maschili, bravi musicisti nell’occasione.
Cambia la platea del teatro di Prati. Si abbassa l’età media e cori entusiasti confortano l’esibizione di Giglio, puntuale one woman show. Non è una pedissequa imitazione ma un tentativo discreto di entrare nei panni e nell’ugola della originale folk singer americana, suicida prima dei trenta anni come da tradizione (Jim Morrison, Jimi Endrix, Janis Joplin). La solista si muove con disinvoltura tra affabulazioni, bevute e assoli trascinanti dove fa risaltare una voce che mette in dubbio la primazia tra le doti di attrice e quella di cantante. Indicata da Piera Degli Esposti come la più probabile erede, partendo da Ronconi, Giglio sta cercando di trovare una propria linea originale che prescinda da impegni rigidi di compagnia per affermare la propria personalità. Nello spettacolo una gabbia è la metafora della prigione di un auto-confinamento e di un’irrequietudine che le costerà la fine, complice anche il tormentato rapporto con un padre che cerca di spremere pubblicità e denari dalla parentela diretta. Se il teatro cerca pretesti e mozioni per rimanere in vita, il connubio con la musica è una chiave riuscita che apre molte porte. Da notare che la drammaturgia originale è totalmente opera della mai troppo valorizzata Giglio, insieme ingegnere e geometra della proposta.
data di pubblicazione:28/10/2024
Il nostro voto:
da Salvatore Cusimano | Ott 25, 2024
(19a FESTA del CINEMA di ROMA 2024)
Marco (Gianmarco Franchini), un ventenne che vive con il padre e che ha perso la madre da poco ha una grave dipendenza dall’alcol e dalle droghe. Ragazzo molto sensibile, scrive poesie ma questa sua “soggezione” lo ha staccato da tutti. L’unico che gli sta ancora vicino è suo padre (Luca Zingaretti), che sembra abbastanza impotente di fronte a questo viaggio che appare senza ritorno.
Tratto dal libro La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli, Luca Zingaretti si mette alla prova per la prima volta nella doppia veste di autore e regista. Lo fa in punta di piedi, senza strafare, perché ci pensa l’interpretazione di Franchini a rendere questa prima opera un bell’esordio. È quasi un one man show il suo, del cui talento si erano già visti i primi risultati in Adagio di Stefano Sollima.
Viene perlustrato il dolore non come un risultato, ma come una fase fondamentale verso la riscoperta della felicità e/o della gioia. Il tutto attraverso le cose semplici, soprattutto il lavoro e la sua dignità, anche se quando a Marco viene offerto un lavoro nella cooperativa di pulizie dell’ospedale Bambino Gesù lo accetta ma, perso nell’alcol e nelle droghe, all’inizio non ne riesce a cogliere l’importanza. La poesia inoltre, arte di cui è portatore sano Marco, rende il tutto ancora più commovente.
Superba anche la prova del suo capo, impersonato da Federico Tocci, simbolo di questa semplicità, oltre che portatore sano di umanità, che è ciò che ci vuole in scenari come questi.
In questo contesto, il rapporto tra Marco e suo padre diventa toccante, e il tema del rapporto tra genitori e figli diventa la sottile linea rossa che attraversa tutto il film.
data di pubblicazione:25/10/2024
da Giovanni M. Ripoli | Ott 25, 2024
(19a FESTA del CINEMA di ROMA 2024)
Il tour mondiale di Bruce Springsteen con la sua formazione storica, la E street Band seguito con affettuosa partecipazione dal regista- fan Zimny. Indimenticabili concerti, prove di registrazione, il back stage, ma anche momenti più privati, il ballo con la mamma ultra novantenne e persino una preghiera laica. Tutto racchiuso in un pregevole documentario sulla leggendaria rock star.
Già nel 2019 con Western Stars il fido Zimny aveva regalato a se stesso e alle moltitudini di appassionati, sparsi in tutto il globe terracqueo (Meloni copy) un ritratto musicale ma anche intimo di Bruce Sprinsteen, in accordo con l’omonimo microsolco appena pubblicato. Torna nel 2024 con un’altra chicca, ovvero, un documentario che segue il Boss e la sua strepitosa band (la E street Band), a sua volta arricchita dalla presenza di altri eccellenti solisti e coriste, nel tour mondiale 2023-24. Concerti in tutto il mondo che segnarono il suo ritorno sulla scena dopo sette anni e la parentesi dovuta al Covid. Premesso che lo spettacolo di ottima fattura è destinato preferibilmente ai fan d Springsteen, ma un vecchio maestro del rock ancora sulla scena dopo 55 anni, unico autentico concorrente per longevità del Nobel Dylan e di quei ragazzacci degli Stones, non può che affascinare comunque, almeno per il talento artistico e l’umanità espressa. Il taglio scelto dall’occhio fidato di Zimny è infatti duplice: sicuramente memorabili concerti e le fasi di preparazione con il divertito back stage, ma anche momenti decisamente più intimi, considrazioni e riflessioni, anche profonde sulla vita e sulla morte. Non è un caso che Road Diary si concluda con la voce fuori campo di Springsteen nella recita di An American Prayer di Jim Morrison, l’autodistruttivo leader dei Doors: “O grande creatore dell’Essere/ concedici un’altra ora/per farci mostrare la nostra arte/ e rendere perfette le nostre vite.” È il finale scelto dal Boss per chiudere idealmente un percorso iniziato ufficialmente con l’album, Greetings from Ashbury Park, quando la sua chitarra non era certo molto popolare a casa sua. Di strada il ragazzo di Long Branch, New Jersey, ne ha fatta e tanta, senza perdere mai il tocco magico del grande artista ma pure quelle caratteristiche di umanità, quel radicato concetto dell’amicizia, quella coerenza che ne hanno fatto un personaggio iconico nel mondo. Thom Zimny e lo stesso Springsteen (che ha curato personalmente la scaletta e ogni dettaglio) sono stati capaci di rendere in poco meno di due ore la complessità di una storia di rock’n roll fra le più significative di sempre.
Il documentario sarà visibile in streaming sulla piattaforma Disney plus dal 25 ottobre.
data di pubblicazione:25/10/2024
da Antonio Jacolina | Ott 25, 2024
(19a FESTA del CINEMA di ROMA 2024)
New York. Anora (Mikey Madison) lavora in uno strip club. Qui incontra Ivan giovane figlio di un oligarca russo. Il ragazzo la fa entrare nel suo universo di lusso e denaro facile. Dopo una settimana vissuta in esclusiva con lei a suon di dollari, se ne invaghisce. Anora accetta entusiasta un precipitoso matrimonio a Las Vegas. I ricchi genitori alla notizia volano con il loro jet dalla Russia a New York e nel frattempo mandano i loro scagnozzi a porre fine all’improbabile storia…
Contro tutti i pronostici e confermando il tradizionale disaccordo fra Giuria e Critica, lo sceneggiatore e regista americano Sean Baker ha vinto la Palma D’Oro a Cannes ’24 con il suo settimo lungometraggio Anora. Come già con Red Rocket, presentato a Cannes e a Roma nel 2021, il cineasta prosegue la sua personale ricerca. Lo sguardo cinematografico di Baker continua infatti a posarsi sugli esclusi dall’american dream. Il suo script si concentra irridente su un Paese ormai corrotto dal desiderio del denaro facile. La sua è una colorita esplorazione dell’America marginale ed una riflessione arguta sull’inconciliabile incontro fra chi vive sulla soglia del benessere e chi invece è straricco. La Società che descrive è un contesto in cui ormai le differenze di classe sono insormontabili ed i due universi sono lontani anni luce fra loro. La forza del denaro non trova più confini. In una notte si può arrivare dalla Russia in America per esercitarvi con indifferenza le proprie prepotenze con l’arroganza di chi avendo i soldi ne ha anche il Potere.
Per Baker non è più tempo di favole o di sogni. Non siamo ad Hollywood né negli anni ’90. La Pretty Woman e la Cenerentola del Nuovo Millennio sono molto lontane dal loro precedente romantico ed ottimista. Non c’è più un Richard Gere innamorato ma un ragazzo inetto, viziato menefreghista che passa il suo tempo a divertirsi.
Al centro del film, vero punto di svolta narrativo di accelerazione del ritmo e cambiamento dei toni, c’è uno splendido piano sequenza. L’incontro scontro comico e surreale fra Anora e gli inetti sgherri mandati dai genitori russi. Gli fa seguito una corsa notturna per le vie di New York alla ricerca di Ivan, splendido rimando a Tutto in una notte di J. Landis. Complice attento del regista è un cast perfetto sia nei primi che nei secondi ruoli. Su tutti brilla per simpatia, bravura e tempi comici la giovane Mikey Madison.
Anora è una commedia vivace con un ritmo serrato e frizzante in crescendo che fa ridere e anche riflettere. Ben scritto, ben diretto e ben interpretato è un film gradevole che mantiene ciò che promette ed intrattiene piacevolmente.
data di pubblicazione:25/10/2024
da Giovanni M. Ripoli | Ott 24, 2024
Nel Nevada, prima dello scoppio della guerra di secessione americana, una coppia di immigrati, in fuga da drammi personali, tenta di ricostruirsi una nuova vita. Il luogo non è un posto facile, corruzione e violenza dilagano e mettono a dura prova le nobili intenzioni dei protagonisti.
Il genere Western, unico e immarcescibile si confonde e vive da sempre col Cinema e probabilmente, fra alti e bassi, classici e rivisitazioni, contaminazioni e influenze, mantiene una sua continuità. Certamente non è più sorretto dal costante successo di pubblico, come dimostra il quasi-flop del bellissimo, Horizon I di Kevin Costner, ma pur nell’evoluzione (?) del gusto degli spettatori, conserva la sua vigoria e una sua ragion d’essere. Ce lo conferma, il notevole, The Dead don’t Hurt di Viggo Mortensen, attore e regista di pregevole tatto e sensibilità. Va subito chiarito come, Mortensen abbia realizzato non un western classico, come Costner, ma, pur nutrito da western di notevole levatura, abbia preferito una rappresentazione diversa, quasi minimalista, certo non tradizionale. Qualcuno ha parlato di un western femminista, ma, certo, al di là di frustre etichettature, il focus della pellicola non è centrato tanto sul protagonista maschile, Holger, coraggioso immigrato danese, quanto su Vivienne, la fioraia franco-canadese fiera e indipendente. La sua storia, il suo vissuto di donna che rifiuta un matrimonio borghese, preferendo vendere fiori, la sua dolcezza, la sua forza morale, la sua adesione a una vita apparentemente priva di certezze con un fuggiasco, in un piccolo sperduto ranch, ne fanno il personaggio principe dell’intera vicenda, Mortensen regista affida ad una superba attrice, la lussemburghese Vicky Kreps, già etichettata come nuova Meryl Streep, il ruolo di Vivienne ed è lei, solo con i suoi sguardi, ha dar vita al personaggio centrale con una formidabile interpretazione. Tornando al film si è detto di un western atipico, poche sparatorie, paesaggi suggestivi ma non “ classici”, una colonna sonora originale, anch’essa opera di Mortensen, uno sguardo romantico a un mondo destinato a “finire”. C’è comunque una storia, declinata attraverso un montaggio che contestualizza in momenti differenti l’evolversi degli avvenimenti, C’ è la guerra di secessione, la violenza e la corruzione, la vigliaccheria, tutti caratteri distintivi del genere, ma nella mano di Mortensen vengono sfumati, alleggeriti, diventando simboli quasi contemporanei. Diversamente da Costner ma anche dal subime, Gli Spietati di Eastwood lo schema di Mortensen non è quello di Ford, Hawks, Mann, meno incline alla violenza tout court o alla vendetta come fine ultimo dell’eroe, è incentrato invece sulla psicologia dei personaggi, più intimo, privilegia le tensioni emotive, si colloca all’interno del genere “crepuscolare” e con un occhio al passato allude al presente ( le guerre, le banche, il ruolo della donna). Perchè vederlo si è detto, perché potrebbe invece deludere? Naturalmente per le ragioni opposte: poca azione, pochi cavalli, inseguimenti, sparatorie. Resta alla fine del viaggio la consapevolezza di uno spettacolo che sovverte gli archetipi del genere e ne propone una nuova scrittura con al centro una donna nella sua nobile e drammatica intensità.
data di pubblicazione:24/10/2024
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