da Antonio Jacolina | Mar 22, 2025
New York metà Anni ’50. Frank Costello e Vito Genovese (entrambi R. De Niro) sono due boss mafiosi. Il primo è diplomatico e calcolatore, il secondo violento e accentratore. La loro amicizia di lunga data si deteriora per gelosie, ambizioni e vicende giudiziarie fino a sfociare in una rivalità distruttiva…
Ancora un film di gangster e di mafia? The Alto Knights non aggiunge né tanto meno pretende di aggiungere qualcosa di nuovo al Genere. Invece è un grande affresco del mondo della mafia di New York degli Anni ’50. Soprattutto è una splendida lettera d’addio ai film di gangster mafiosi da parte di una generazione leggendaria di Hollywood, un gruppo di giovani ultraottantenni: attore, sceneggiatore e regista. Al contempo è anche un grande colpo da maestro di De Niro e la sua definitiva incoronazione come attore emblematico di tutto un Genere.
…la Magia del Cinema, un po’ di trucco, qualche effetto speciale, la bravura di un grandissimo interprete… ed ecco due De Niro al prezzo di uno! La sua eccezionale performance gli consente di ricoprire i ruoli dei due protagonisti differenziandoli con sottili sfumature nelle posture, negli sguardi, nei caratteri. Un tour de force tecnico e attoriale.
Con una ricostruzione accurata dell’epoca il regista filma un dramma crepuscolare, fedele ai classici del Genere, che rivisita le rivalità al vertice della mafia italoamericana. Due personalità antitetiche, due facce della stessa cattiva moneta, da qui l’idea di De Niro di interpretarli entrambi.
La messa in scena si ispira ai modelli dei Grandi. Il tratto è elegante e immersivo con una cinepresa in costante movimento. Primi piani insistiti sottolineano la tensione psicologica e le qualità recitative negli scontri verbali. Dominano i toni del chiaroscuro ad evidenziare la dualità morale dei due protagonisti. Dopo un inizio vibrante, tutto azione, il ritmo diviene ineguale alternando momenti di alta intensità drammatica a passaggi più riflessivi che frenano la dinamica del racconto. Ne risulta più uno studio psicologico che un film d’azione. Levinson avrebbe forse potuto provare ad osare di più. Gli è mancata la vitalità e la genialità del tocco autoriale dei modelli cui si rifà. Si limita ad adagiarsi, pur con classe e mestiere, sui canoni del Genere.
The Alto Knights risulta quindi un buon succedaneo meno esplosivo ed impietoso dei suoi autorevoli precedenti ma pur sempre interessante. Con le sue atmosfere, la buona scrittura e la forza dell’interpretazione è in ogni caso un film che piacerà agli amanti del Genere e soprattutto ai fan di De Niro.
data di pubblicazione:22/03/2025
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da Antonio Jacolina | Mar 19, 2025
Marsiglia. Un’ondata di calore estivo obbliga tutti a restare a casa. Tre giovani amiche sul balcone del loro appartamento guardano il prestante dirimpettaio. Ognuna fantastica su di lui. Riescono a farsi invitare a casa sua per un drink serale. Si risveglieranno la mattina dopo con un cadavere. Una situazione delirante…
Rivelatasi come interprete di talento in Ritratto di una giovane in fiamme (2019) Noémie Merlant oltre ad essere attrice in sicura ascesa è passata anche a scrivere e dirigere. Le donne al balcone è la sua opera seconda presentata a Cannes ’24 e alla Festa di Roma. L’intento della regista era affrontare il tema della vulnerabilità femminile e delle violenze sessiste e sessuali contro le donne utilizzando come chiave narrativa la commedia e lo humour dell’assurdo. Un’idea coraggiosa, innovativa, audace e provocatoria che dà luogo ad un film che flirta con generi ed universi cinematografici estremamente vari e diversi fra loro. Il fantastico, il farsesco, l’horror, il thriller, la ghost story, i morti viventi, il gore e lo splatter.
Una combinazione esplosiva ed una scommessa non da poco. La sfida però non riesce a pieno nel senso che lungo il cammino il film si prende troppo sul serio per essere una commedia dell’assurdo e, nello stesso tempo, troppo poco sul serio per essere una dura denuncia della realtà. La narrazione si diluisce infatti in troppi rivoli, la vicenda perde in parte il filo ed il senso narrativo. I personaggi risultano un po’ abbozzati e la sequenzialità della vicenda frammentata. La logica di ciò che si sta osservando si riduce e lo spettatore si ritrova sconcertato in un magma vorticoso. Peccato! Eppure lo spunto era interessante e brillante e la regista ha, a tratti, anche un tocco intenso e lirico. L’incipit del film faceva sperare molto bene. Un misto di atmosfere e rimandi. Luminosità, situazioni e colori forti alla Almodovar, suspense e tensione alla Hitchcock, un tocco disturbante ed agghiacciante alla Dario Argento e infine splatter da horror orientale. Purtroppo la sceneggiatura non ben articolata rende un po’squilibrato e altalenante il lavoro. Si vanifica così parte dell’apprezzabile e coraggioso impegno della Merlant sia come regista sia come interprete ed anche quello delle altre due protagoniste.
Le donne al balcone è quindi senza dubbio un film degno di attenzione e intrigante. Alla regista va riconosciuto il merito dell’intuizione dell’horror al femminile e di un discreto risultato parziale. Per meglio valutarla come regista le andrà offerta una prova d’appello.
data di pubblicazione:19/03/2025
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da Daniela Palumbo | Mar 18, 2025
Una famiglia apparentemente tranquilla viene sconvolta da un evento traumatico: l’arresto del figlio appena tredicenne, Jamie, accusato di aver accoltellato a morte una compagna di scuola. “Non ho fatto nulla” – ripeterà il ragazzo. I genitori, dal canto loro, sono convinti che si tratti di un errore di persona. Sarà vero? O è vero il contrario?
Si ispira al genere true crime questa miniserie britannica girata in piano sequenza, senza tagli e senza interruzioni. Solo un cambio di prospettiva, seguendo il cammino spesso tortuoso dell’uno o dell’altro personaggio. Un filo che non si spezza né si recide, ma si avvolge e si dipana via via come una matassa. O si espande come una ragnatela. Un male che coinvolge in primo luogo il giovane Jamie Miller (Owen Cooper, ottimo interprete), protagonista della vicenda. Ma anche la sua famiglia, gli amici, la comunità tutta intera.
Chi è il vero colpevole? Chi ha ucciso chi, e come lo ha fatto. Poiché si può uccidere in tanti modi. E soprattutto, come può un bambino – poco più di questo, in realtà – essere all’origine di un tale crimine. E subirne le conseguenze, proprio come fosse un uomo, un adulto.
Tra le primissime scene, l’irruzione degli agenti di polizia dentro casa dei Miller. Per arrestare lui, il ragazzino. Prelevarlo, stanarlo da sotto le coperte, lì dove appare gracile e indifeso, e col pigiama irrorato di paura. Irrompono in egual misura l’incredulità, lo sgomento, e al tempo stesso il sospetto, terribile. Ma a risultare davvero straziante, nel corso di tutta la narrazione in “presa diretta”, non è il pianto di Jamie. Piuttosto, è quel baratro negli occhi smarriti del padre, Eddie Miller (interpretato da un intenso Stephen Graham), la smorfia atroce sul viso contratto di lui, man mano che gli eventi si susseguono e il “vero” si disvela. Sono le lacrime trattenute a fatica dalla psicologa (Erin Doherty) al termine dell’ultimo estenuante colloquio col ragazzo/detenuto. È lo sguardo attonito di Luke, l’ispettore incaricato del caso (Ashley Walters), di fronte a una realtà che egli stesso (a sua volta padre di un adolescente) ignorava. Mentre gli adulti armeggiano con logiche e tecniche ormai prive di senso (ricerca del movente, testimonianze di altri per “capire perché”), i giovanissimi si muovono sotterraneamente, con linguaggi cifrati, portatori di ambiguità e violenza (“Non lo sapevo! È difficile credere a tutto questo tramite due simboli…”).
Si cerca dunque una verità che nella “rete” virtuale dei rapporti fasulli semplicemente non esiste. Distorta, deformata, mutata in pensiero fallace nella mente dei figli (“Per me è importante quello che pensi, non quello che è vero”). E proprio in questa mancata corrispondenza tra intima percezione e dato di realtà risiede il dramma di questa “Adolescence”. Che non fa più rima con “Innocence”. In un mondo di piccoli che fa paura ai grandi.
data di pubblicazione:18/03/2025
da Antonio Jacolina | Mar 15, 2025
Lee Miller (K.Winslet) è una donna libera che vive in modo anticonformista. Modella di successo a New York si trasferisce a Parigi. Compagna e Musa di Man Ray diviene un’affermata fotografa. Allo scoppio della II Guerra Mondiale, spinta dal gusto per l’avventura e dal proprio codice etico dell’impegno, nonostante i pregiudizi, riesce a essere una delle prime corrispondenti di guerra…
La regista avrebbe dovuto avere tutto il coraggio, l’intraprendenza e la passione della vera Lee Miller per riuscire a raccontare in modo autentico e coinvolgente la sua storia. A maggior ragione avendo a disposizione anche un’attrice come la Winslet che con realismo, fisicità, somiglianza e bravura poteva incarnare il talento e la determinazione di una delle più coraggiose reporter di guerra e grande fotografa del XX secolo. In tal modo sì che avrebbe potuto dare la giusta profondità narrativa, la tensione emotiva e la passione per coinvolgere a fondo gli spettatori. Sarebbe riuscita a fare il giusto ritratto con luci e ombre di un’epoca e di una donna testimone volontaria, con i suoi scatti, della Storia. E avrebbe reso un omaggio vero e sentito al talento di una personalità complessa che con le sue foto iconiche ha cambiato il nostro modo di vedere il Mondo. Peccato!
La Kuras ha scelto invece di realizzare un biopic distaccato, formalmente molto classico, convenzionale e documentaristico, a metà strada fra un ritratto intimo e un affresco bellico.
Lee Miller infatti parte dallo spunto più che tradizionale di un’intervista in cui, in un’alternanza narrativa fra Passato e Presente, la protagonista racconta la sua vita in Europa prima e durante la guerra. Le sue “battaglie” per superare convenzioni e pregiudizi e riuscire a essere reporter dal Fronte. La sua testimonianza diretta dei combattimenti, della liberazione della Francia e di Parigi, dell’avanzata in Germania e delle atrocità e orrori dei campi di sterminio. Con un ruolo cucito su misura la Winslet porta il film sulle sue spalle e incarna con efficacia la rabbia e l’empatia del suo personaggio. La circonda uno stuolo di buoni secondi ruoli. Anche se la regista cerca di evitare i luoghi comuni, la messa in scena, il montaggio e il ritmo restano formali e dimostrativi, quasi distanti. Il film non esce quindi da una rappresentazione accademica e convenzionale che non innova il genere e nemmeno ci prova. Le emozioni, il soffio etico e le passioni sono troppo contenute. In sintesi, Lee Miller è un lavoro discreto, ben documentato e diretto in modo lineare ma nulla più di un compito ben eseguito anche se ben interpretato.
data di pubblicazione:15/03/2025
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da Paolo Talone | Mar 15, 2025
con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia di Riccardo Fazi
(Teatro Tor Bella Monaca – Roma, 6/8 marzo 2025)
Poggio Corbello è un luogo “senza intrusi” dove Nives vive ormai sola dopo la morte del marito Anteo. A farle compagnia nella grossa tenuta ci sono gli animali. In particolare Giacomina, una gallina azzoppata che la donna decide di mettersi in casa per curare la solitudine e l’insonnia. Una sera però la chioccia rimane paralizzata davanti alla TV. Non c’è modo di svegliarla. Così Nives chiama al telefono Loriano, il bravo veterinario del paese il cui unico difetto apparentemente sembra ridursi al troppo bere.
Tutti abbiamo scheletri nell’armadio. Storie del passato che giacciono silenziose in qualche luogo nascosto della mente. Può trattarsi di un avvenimento che ha determinato delle scelte o magari un rimpianto, in cui si incastra il pensiero di qualcosa che poteva essere e non è stato. A volte è il dolore di un amore non vissuto che ha lasciato strascichi indelebili. Come in Nives, il romanzo di Sasha Naspini (Edizioni e/o, tradotto in 25 lingue) che dà il titolo a questa trasposizione teatrale diretta da Giorgio Zorcù e che vede protagonisti l’attore comico – qui prestato a un ruolo drammatico – Sergio Sgrilli e Sara Donzelli, fondatrice di Accademia Mutamenti, che ha prodotto lo spettacolo insieme a Muta Imago (Riccardo Fazi ne ha curato anche la drammaturgia).
Un lungo tavolo percorre tutta la scena. Agli estremi ci sono Nives e Loriano che parlano ininterrottamente al telefono per tutta una notte. Sono molto distanti tra loro eppure proprio l’elemento del tavolo, quasi l’unico oggetto a caratterizzare la scena insieme a due sedie, fornisce l’indizio di un’unione, di un filo comune che percorre le due esistenze. Il pubblico ascolta la conversazione indossando delle cuffie wireless. Un espediente che crea una sensazione intima e avvolgente e che permette di cogliere le minime sfumature di emozione nella voce degli attori. Dopotutto si sta origliando una confessione piena di colpi di scena in cui è lei a distribuire le carte del gioco.
Tra i due protagonisti si scopre esserci stato un passato di amore e passione. Ma circostanze esterne e la mancanza di coraggio ne hanno decretato l’allontanamento. Da allora i loro corpi si sono solamente sfiorati, come fa capire bene la danza di movimenti curata insieme a Giulia Mureddu. L’elemento comico presente nel romanzo di una Nives schietta e sferzante è smorzato nell’interpretazione della Donzelli in cui risalta invece cinismo e disillusione, rammarico e vendetta. Il Loriano di Sgrilli, attenta e intonata spalla, risponde con rassegnata mestizia, si dimena impotente come un animale ingabbiato, nel crescendo di tensione che tiene lo spettatore inchiodato all’ascolto.
data di pubblicazione:15/03/2025
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da Paolo Talone | Mar 14, 2025
con Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio
(Teatro Lo Spazio – Roma, 7/9 marzo 2025)
Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio sono le protagoniste di InVIOLAta, lo spettacolo vincitore dell’edizione 2024 di Idee nello Spazio, il contest di corti teatrali ideato da Manuel Paruccini e Antonella Granata al Teatro Lo Spazio di Roma. Il lavoro, concepito e diretto da Teresa Cecere e David Marzi, è un meccanismo completo e funzionante di ritmo, gestualità, passione artistica, profondità di messaggio e intesa scenica.
Che la nostra cultura e la nostra educazione siano impregnate profondamente di atteggiamenti bigotti e risposte che favoriscono la tracotanza maschile ce lo dice quel tipo di frasi a commento di fatti di cronaca che raccontano abusi e violenze sulle donne, del tipo «se l’è cercata», «se non fosse andata in giro da sola», «se non vestiva a quel modo». È sempre la stessa storia. Ma la battaglia per la parità di genere, oggi più viva che mai, ha nel passato le radici. Esattamente cinquant’anni fa ad Alcamo, nel trapanese, quando una giovane Franca Viola, abusata dal suo aguzzino, decide di ribellarsi alla tremenda pratica del matrimonio riparatore.
La vicenda è nota. Il testo drammaturgico fa largo uso della cronaca del tempo ed è arricchito da importanti fonti letterarie (la “voce” del popolo è presa dal libro-inchiesta Le svergognate di Lieta Harrison che usciva proprio in quegli anni, mentre la deposizione di Franca Viola in tribunale prende a prestito i versi del cunto siciliano di Don Chisciotte). Franca inizia a frequentare Filippo Melodia ancora minorenne. Il padre di lei, Bernardo, non vede di buon occhio il ragazzo. È un poco di buono che sbarca il lunario commettendo furti ed estorcendo denaro che poi spende in prostitute. Dopo un periodo in cui migra in Germania torna in Sicilia per sposare Franca, ma lei rifiuta di netto la proposta. Filippo, furioso, decide quindi in accordo con altri dodici complici di rapire Franca. Nei giorni a seguire subirà maltrattamenti e verrà più volte violentata. Disonorata sarà allora costretta a sposare il suo carnefice, a lavare l’ignominia con una manciata di riso. Così vuole la prassi comune a cui tutti si adeguano recitando a menadito il decalogo della donna onorata. Ma Franca si oppone: «Io non sono proprietà di nessuno, l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce», dirà a processo dopo aver denunciato il Melodia. Un gesto rivoluzionario per l’epoca, che spaccherà l’Italia in due tra chi continua a credere che la donna sia come un oggetto da possedere e sottomettere e chi invece inizia a lottare per l’emancipazione e i diritti di genere.
L’allestimento scenico, curato da Lisa Serio, ci trasporta in un cortile domestico dove si vedono panni stesi al caldo sole dell’isola. Tra gli oggetti di una vita contadina, arcaica e profondamente italiana, si muovono le tre giovanissime attrici. A loro sono affidati indistintamente tutti i personaggi della vicenda, senza un ruolo fisso. Basta impugnare un determinato oggetto o vestire un semplice indumento per caratterizzare il personaggio e scambiarselo tra loro. Sono pura materia attoriale, un magma ribollente di energia e passione, con cui i due registi hanno lavorato modellando e indirizzandone il talento.
La storia si snoda con un ritmo incalzante e preciso di movimenti e complesse coreografie, a cui dànno supporto le musiche originali di Kemonia. A ribadire che l’arte e il teatro possono essere un potente strumento per sradicare una mentalità ipocrita e maschilista che ancora stagna nella nostra società.
data di pubblicazione:14/03/2025
Il nostro voto: 
da Giovanni M. Ripoli | Mar 14, 2025
Seconda stagione della serie con al centro Dwight Manfredi, mafioso leale che si fa 25 anni di galera e per “ricompenza” viene spedito dai capi e sodali newyorkesi a Tulsa in Oklaoma, località che non ha mai sentito parlare di crimine organizzato prima del suo arrivo. Troverà modo di organizzarsi e rendere la sua presenza in loco sufficientemente avventurosa, piacevole e redditizia. Non senza provocare problemi con la casa madre ed altri trafficanti delle aree circostanti, a causa dei suoi successi, per così dire, imprenditoriali.
Non si può parlare di Tulsa King, senza aprire una necessaria digressione sul suo autore, Taylor Sheridan, lo sceneggiatore statunitense autore di molti dei grandi successi dello streaming mondiale, vedi la saga di Yellowstone, con i prequel, 1883, e 1923 ma anche Landman, Lioness. Mayor of Kingstown, per citare i più riusciti. In buona sostanza, tutto quello che tocca Sheridan si trasforma in oro, ossia in prodotti di grande appeal e risonanza. Le sue storie, però, fanno storcere il naso a molti: non possono infatti definirsi propriamente politicamente corrette. Al centro c’è in genere un bianco alfa, wasp o similare, capo carismatico di una enclave, incline alla violenza, forte, generoso, anti- sistema, vagamente trumpiano, dunque.
Tornando alla serie, va dato atto che la sua riuscita è nel binomio Sheridan, autore e Sylvester Stallone, attore e produttore esecutivo. Confesso di non essere mai stato un grande estimatore di Rambo e suoi succedanei, ma, nell’occasione, Stallone del ruolo di Dwight Manfredi è, come non mai, nel personaggio e rende la serie particolarmente calzante, avvincente sempre, comunque, sul filo dell’ironia. Lui è davvero il re di Tulsa, e ne diventa il catalizzatore di tutte le attività lecite e illecite del luogo coinvolgendo nella storia ottimi comprimari (soci fidanzate ed ex mogli) in molteplici storie che nella seconda stagione ancor meglio si delineano. L’idea di partenza, occorre dirlo, non è nuova del tutto. Nel 2010, la serie USA-Norvegia, Lilyhammer, con un grande Steven Van Zand nel ruolo di un pentito di Cosa Nostra finito in Norvegia, nella città dei giochi olimpici, per sfuggire a ex complici ne anticipava lo schema: personaggio losco, ignorantello e disinvolto alle prese con un popolo estremamente ligio alle regole. Per associazione di idee era un po’ come si comportava il nostro Checco Zallone in, Quo Vado. A Tulsa, mutatis mutandis, il buon Manfredi fa lo stesso: trasforma una piccola, operosa cittadina, con piccoli vizi (la marijuana) in un centro dedito ad ogni fruttuosa attività illecita. Carismatico, ingombrante, sornione, persino seduttivo e simpatico, Stallone fornisce la sua migliore interpretazione di sempre e fa di, Tulsa King una delle migliori serie tv del periodo.
data di pubblicazione:14/03/2025
da Maria Letizia Panerai | Mar 14, 2025
Siamo nel 1940. Umberto Cassola (Paolo Pierobon) e la sua compagna Julia Szapolowska (Catherine Bertoni De Laet) si riuniscono su un treno che attraversa l’Europa Centrale in missione segreta per il Cominter: con loro c’è la figlia Olga (Angelica Kazankova). Condividono lo spazio con l’agente Molnàr, un personaggio ambiguo incaricato di interrogare (o forse di proteggere?) Cassola. Sullo stesso treno viaggiano il fascista Guido Clerici (Tommaso Ragno), amico d’infanzia di Cassola, e sua moglie Gerda Hermet (Matilde Vigna). Subito si crea una certa tensione tra chi deve portare a termine la propria missione.
Europa centrale, il film di esordio di Gianluca Minucci presentato in concorso alla 42ma edizione del TFF, ha avuto il suo battesimo con il grande pubblico in sala giovedì 13 marzo al cinema Farnese di Roma, per poi toccare le piazze di Bologna, Milano e Trieste.
Proveniente dal mondo dei videoclip e dalla pubblicità, Gianluca Minucci (nato a Trieste nel 1987, laureato alla facoltà di lettere e filosofia) ha descritto il suo lungometraggio come un kammerspiel metafisico, genere teatrale e cinematografico nato negli anni ’20 in Germania, ambientato in uno spazio ristretto (in questo caso nei vagoni di un treno), in cui pochi personaggi affrontano dialoghi di una certa intensità, esplorando temi profondi a livello filosofico su questioni universali, andando oltre quella che è la realtà concreta.
Come tutte le opere prime il regista ha fatto di Europa centrale un film “grande”, un contenitore di tutto ciò che con urgenza voleva trasporre. Un gioiello molto prezioso, pieno di pietre che irradiano luce diretta e riflessa, a tratti algido e inarrivabile, troppo dotto in alcuni passaggi. Tuttavia la pellicola emana vibrazioni come un quadro di espressionismo astratto, che arrivano al pubblico senza troppe spiegazioni razionali o conoscenze storico-filosofiche particolari. Inevitabili alcune influenze che fanno parte del bagaglio culturale del regista, che spaziano da Trintignant alla Cavani sino alla filmografia di Volontè (Todo modo, La classe operaia va in paradiso).
É il fluire delle storie individuali, che scaturiscono da confessioni private, sino ai dialoghi tra coniugi e nel confronto con l’opposto, a darci la pienezza delle innumerevoli contraddizioni che albergano dentro ognuno dei personaggi in scena, grazie ad una interpretazione attoriale di altissimo livello, in un tutt’uno di profonda attualità che travalica lo scenario spazio-temporale per arrivare sino ai nostri tempi. Tale contemporaneità la si coglie in particolare nello sviluppo dei due ruoli femminili principali. Le due interpreti hanno un peso nella narrazione non solo come consorti di Cassola e Clerici, ma soprattutto come rappresentanti di genere: sono madri, mogli, compagne, amanti ed in quanto tali vengono amate, usate, dominate, maltrattate, violentate, derise e abbandonate. Fa eccezione la piccola Olga, figlia-non figlia dei coniugi non-coniugi Cassola che rappresenta l’agghiacciante frutto dei nostri tempi confusi.
Il film non ha una trama precisa se non la narrazione di un periodo storico attraverso le storie incrociate di 4 individui, due uomini e due donne, che si scontrano per raccontare l’uomo inteso come individuo, mettendo a nudo dubbi e contraddizioni. Sicuramente Europa Centrale è un film complesso, non per tutti, a tratti criptico, ma l’energia che sprigiona aiuta ad entrare in sintonia con la rappresentazione, grazie anche ad una colonna sonora strepitosa, opera del compositore polacco Zbigniew Preisner (sono sue le musiche della trilogia di Kieslowski) e ad un girato seppiato che ci riporta agli anni 40. La tecnica è molto avanzata e l’atmosfera inevitabilmente claustrofobica per aver girato tutto nei vagoni angusti di un treno all’interno del Museo Ferroviario di Budapest, utilizzando carrozze originali degli anni ’20 e ’30, dove anche i reali limiti nell’aprire porte e finestrini hanno contribuito a conferire a tutta la storia un fascino ed una atmosfera unici e coinvolgenti. Una vera scommessa per questo giovane regista.
data di pubblicazione:14/03/2025
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da Antonio Iraci | Mar 12, 2025
Con la spedizione dei Mille, al comando di Giuseppe Garibaldi, si tenterà di rovesciare il governo borbonico per annettere la Sicilia al nascente Regno d’Italia, sotto la monarchia dei Savoia. Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, gode ancora dei privilegi di un’aristocrazia destinata però ad essere travolta dai nuovi moti rivoluzionari. Tancredi, nipote del principe, nonostante si sia arruolato nelle truppe garibaldine, riassicura lo zio con la celebre frase: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”…
Se si vuole tentare un approccio obiettivo e sincero a questa recente edizione cinematografica del famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa bisognerà dimenticare l’omonimo film diretto da Luchino Visconti. Non sarà impresa facile perché, anche se si deve tornare a ritroso di sessanta anni, nella memoria di noi tutti riappaiono le immagini patinate di interpreti quali Alain Delon, Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Rina Morelli e tanti altri ancora. Lo stesso regista inglese Tom Shankland, nel firmare questa mini serie per conto di Netflix, non ha perso l’occasione per ribadire che il suo lavoro non era uno scontato remake, quanto un approfondimento e una attualizzazione di eventi storici che a suo tempo avevano profondamente scosso la Sicilia. Le continue digressioni dal romanzo originale, sono da considerare delle licenze poetiche del tutto pertinenti e quindi accettabili nel contesto generale. Questa volta i personaggi assumono un carattere più umano, e lo stesso principe, con le sue naturali debolezze, incarna meglio la figura dello studioso, e meno quella dell’indiscusso padre padrone. Siamo già a conoscenza delle vicende storiche trattate, tra combattimenti e gli sfarzi di una nobiltà ancora non perfettamente consapevole dei cambiamenti che presto l’avrebbero travolta. Ciò nonostante si riesce a seguire con interesse le nuove vicende che si sovrappongono alle vecchie e che danno comunque una omogeneità coerente all’intera narrazione. Kim Rossi Stuart è un Gattopardo tutto sommato accettabile, istrione tanto quanto basta e più accessibile rispetto al precedente. Benedetta Porcaroli interpreta Concetta, la figlia primogenita, sulla quale sono concentrate in massima parte le scene più convincenti. Scelta poco felice invece per Tancredi Falconeri, ruolo affidato a Saul Nanni, astro nascente del cinema nostrano. Senza ricadere in odiosi paragoni, a lui manca proprio quella verve, quella spavalderia seducente e quel carattere fascinoso, concentrato in Alain Delon. Deva Cassel, figlia d’arte di una coppia super famosa, è sicuramente di una bellezza straordinaria, ma anche troppo maliziosa per rappresentare una giovane che tutto sommato aveva passato la sua vita nello sperduto paese di Donnafugata. Senza entrare nel merito degli altri personaggi, alcuni ben interpretati, e senza voler criticare le location e i costumi, super curati, questa attesa serie tv in effetti ha disatteso molto le aspettative. Un’operazione riuscita a metà e che vale comunque la pena di seguire, non foss’altro per entrare in quei palazzi sfarzosi, il cui accesso era riservato a pochi eletti.
data di pubblicazione:12/03/2025
da Antonio Jacolina | Mar 12, 2025
Pierre e Cléa (G. Canet e C. Gainsbourg) conducono una vita normale in una tranquilla cittadina. La loro esistenza è stravolta quando viene trovata strangolata nella sua stanza la loro giovane ospite Belle. I sospetti cadono su Pierre, unico presente in casa…
Lo sceneggiatore e regista Jacquot adatta liberamente La morte di Belle di Simenon trasportandone i fatti dagli anni Cinquanta ai giorni nostri e dalla provincia americana a quella francese. I lavori dello scrittore belga per la loro modernità e capacità di scandagliare gli ambienti sociali e l’accecamento degli animi umani sono stati sempre apprezzati dalla Settima Arte.
Con Il caso Belle Steiner Jacquot ci regala un buon film di genere, certamente anche commerciale ma convincente e di apprezzabile fattura. Siamo in una piccola comunità della Francia profonda con i suoi non detti, segreti, invidie e rancori. Un’atmosfera degna di un ritratto dei peccati occulti di provincia tipico del migliore Chabrol. Un film efficace che gioca non tanto sul mistero o sull’intrigo quanto piuttosto sulle atmosfere, sui luoghi e sugli sconvolgimenti del piccolo mondo cittadino. Una vita ristretta, una realtà borghese, la casa, la famiglia, motivi tutti per cui si può mentire o consumare delitti. In particolare il regista ci restituisce un ritratto umano denso di sfumature, capace di tenere alta la tensione facendo anche riflettere su interrogativi profondi. Il confine fra Bene e Male, Verità e Menzogna, sospetto e presunzione di innocenza, ostilità della stampa e della gente. Ci fa anche ragionare su come un evento straordinario possa stravolgere l’esistenza di persone normali e innocenti. Più che un thriller siamo in un noir avvincente, ambiguo e inquietante. Pur senza grandi innovazioni il regista conferma di avere una buona mano. La messa in scena elegante, la direzione fluida e un giusto ritmo narrativo fanno sembrare tutto naturale. La scrittura è efficace e i dialoghi sono veri e ben calibrati. Come nella migliore tradizione del cinema francese siamo in un film di attori. I primi piani prolungati sottolineano infatti la recitazione fatta di sguardi e di emozioni contenute. Un cast di secondi ruoli impeccabili fa da contorno ai due ottimi protagonisti. Canet in particolare restituisce con efficacia tutta l’ambiguità disturbante del suo personaggio compreso tra freddezza esteriore e tormento interno.
Il caso Belle Steiner è dunque un film apprezzabile, intelligente e coinvolgente. Senza pretendere di essere un capolavoro sa parlarci anche di temi drammatici con gusto e stile.
data di pubblicazione:13/03/2025
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