da Ludovica Fasciani | Lug 30, 2024
(Castel Sant’Angelo – Roma, 24 luglio 2024)
Per la rassegna Sotto l’angelo di Castello, Fabio Tinella porta in scena la leggenda del Pifferaio Magico. Una reinterpretazione pensata per le famiglie ma adatta a tutti, con un’ottima preparazione tecnica.
I ratti passano in secondo piano, in questa lettura della storia del Pifferaio Magico. Appena arrivati in prossimità della scena – in questo caso, il suggestivo cortile di Castel Sant’Angelo – agli spettatori viene consegnato un paio di cuffie: illuminate di blu per i bambini, di rosso per gli adulti. Si intuisce già che il pubblico sarà diviso e qualcuno certamente seguirà uno spettacolo leggermente diverso. Ancora a scena vuota, dalle cuffie parte una sigla: le vicende di Hamelin, borgo della Bassa Sassonia, vengono presentate come in un moderno programma televisivo, in stile Chi l’ha visto. Il mistero dei bambini di Hamelin, scomparsi improvvisamente in un periodo molto particolare per la storia del borgo, è al centro dello spettacolo. A reggere la trama, dopo la presentazione audio e per tutta la durata dello spettacolo, l’abilissimo Fabio Tinella, che avanza sulla scena trascinando con sé un carretto da attore girovago, un interessante dispositivo scenico che all’occorrenza si colora e si trasforma. Senza svelare nulla della trama per non rovinare il racconto del mistero, comunque sostanzialmente fedele alla leggenda originale, è da sottolineare però la bravura di Tinella, capace di passare dal teatro di marionette napoletano all’arte del mimo, fino alla narrazione più classica. In uno spettacolo sostanzialmente dedicato alle famiglie, tra interessanti richiami alla condizione dell’attore e del teatro nel mondo contemporaneo e momenti meno riusciti (e un po’ melensi) di piccoli sermoni rivolti ai genitori su come crescere dei bambini “liberi”, resta l’impressione di uno spettacolo ben pensato, ottimamente recitato e con una struttura tecnica invidiabile. Consigliato anche per il finale coinvolgente e spensierato, in cui si scopre che fine avessero fatto quei bambini scomparsi ad Hamelin.
data di pubblicazione:30/07/2024
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Lug 29, 2024
Detroit, Axel Foley (Eddie Murphy) come al suo solito per arrestare dei rapinatori in fuga distrugge mezza città inseguendoli con uno spazzaneve. Viene sospeso per l’ennesima volta. Approfitta della pausa forzata per recarsi nuovamente a Beverly Hills su richiesta di un vecchio collega. Incontrerà la figlia avvocato e la aiuterà contro una banda di poliziotti corrotti …
La più che discreta accoglienza di pubblico dell’operazione ritorno sugli schermi di vecchi eroi degli anni ’80 come Top Gun Maverick o anche Bad Boys, ha convinto Netflix ad investire ben 150 milioni di dollari per far rivivere il poliziotto portato al successo da E. Murphy. Un Piedipiatti a Beverly Hills nel 1984 ebbe un clamoroso riscontro mondiale di critica, di spettatori e soprattutto di botteghino. Altrettanti successi furono poi anche i due seguiti del 1987 e 1994.
M. Molloy che debutta con questo film dietro alla cinepresa non ha né pretende di avere la genialità o la malizia dei registi che lo hanno preceduto. Non cerca quindi di inventare nulla di nuovo, anzi si contenta di percorrere e riproporre i sentieri già battuti dagli altri negli anni ‘80. Si limita quindi a confezionare solo una discreta commedia poliziesca con molta azione.
Questa nuova avventura è stata infatti scientemente scritta e girata alla vecchia maniera. La messa in scena è lineare e coerente con lo spirito dei film precedenti, ricca di tensione, di citazioni e riferimenti ammiccanti. La assiste e sostiene una colonna sonora con le musiche e le risonanze acustiche di quegli anni. Il montaggio è classico, il ritmo incalzante e la lettura è facile. Tutto procede come ci si aspetta che debba procedere. Una piacevole sensazione di stare a rivedere uno dei vecchi film in TV o in un Cineclub. L’insieme presenta il meglio della trilogia iniziale: inseguimenti, sparatorie, humour, battute fulminanti, trovate garbate ed acrobazie… Al centro gli stessi attori, ovviamente invecchiati, ma tutti ripropongono le vecchie alchimie. E. Murphy è meno spassoso ma tiene ancora bene il ruolo, assistito o contrapposto alle new entry J. Gordon-Levit e K. Bacon. Nulla è quindi cambiato anche se nulla è più uguale. Questa è la vera sensazione piacevole di fondo.
Dunque un film all’antica che punta tutto sul divertimento diretto senza fioriture intellettuali o post moderne. Un buon vecchio Buddy Movie. I fan della saga saranno felici di ritrovare gli stessi personaggi e le stesse situazioni. Attenzione però! Un’operazione nostalgia che intelligentemente non scivola mai nella malinconia perché pur non avendo la freschezza di una volta punta solo a far rivivere un tipo di cinema dedicato al semplice divertimento e nulla più.| Il film ci riesce, fa divertire e non è affatto poco.
data di pubblicazione:29/07/2024
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da Ludovica Fasciani | Lug 24, 2024
Sound Design e musica dal vivo Davide Lotito
(Spazio Diamante – Roma, 22 luglio 2024)
Un intreccio evocativo di storie di donne che oltrepassano confini geografici e temporali. Il Roma Fringe Festival ospita le nuove voci del teatro indipendente italiano.
Comadre. Cantadora. Due parole poco comuni, che qualcuno potrebbe anche non aver mai sentito, ma abbastanza evocative da trasmettere al primo sguardo significato e contesto dello spettacolo cui danno il nome. Agata Marchi porta in scena una storia femminile in parte antica, in parte contemporanea. O meglio: un intreccio di storie femminili. Modulando con grande maestria la propria voce, declinata ora in ninne nanne e canti partigiani, ora in dialetto e narrazione, Marchi racconta storie di madri, di nonne, di donne del bosco e del deserto. In uno spettacolo retto dal dialogo tra le storie che racconta, unica attrice in scena, e la musica dal vivo di Davide Lotito, suggestiva e in grande armonia con i movimenti e le fasi della narrazione. L’unica pecca è nel legame sottile, appena accennato, tra le storie nostrane e quella di una militante delle Ypj (acronimo di Yekîneyên Parastina Jin, letteralmente Unità di Protezione delle Donne) kurde. Se la transizione fosse più fluida e la connessione più approfondita, il racconto dello spirito della militanza femminile ne uscirebbe rafforzato. Ma anche così, l’intensità della storia colpisce e incanta. Resta, alla fine, l’immagine sussurrata di una vecchia con il mondo sulle spalle.
data di pubblicazione:24/07/2024
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da Antonio Jacolina | Lug 24, 2024
Eccoci di nuovo nella testa della giovane Riley. Sta per iniziare il Liceo. Ha appena compiuto 13 anni e deve andare ad un campo estivo di hockey. Un’occasione importante per fare nuove conoscenze e per farsi apprezzare. Un momento decisivo per la sua carriera sportiva e scolastica. Nuove emozioni irrompono nel suo Inside e sconvolgono i precedenti equilibri. E’ l’adolescenza …
INSIDE OUT 1 di Pete Docter uscito nel 2015, apprezzato da critica e pubblico e premiato con l’OSCAR per il Miglior Film di Animazione è stato uno dei più grandi successi cinematografici di tutti i tempi. Allora avevamo scoperto le “emozioni primarie”: Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto. Oggi, 9 anni dopo, con INSIDE OUT 2 diretto da K. Mann, la Pixar è riuscita con intelligenza ed inventiva a dare uno sviluppo al suo primo capolavoro. Il risultato supera tutte le migliori aspettative per ricchezza di nuove idee e per capacità di animazione. Non si tratta affatto di un “seguito” per fare cassa! E’ una nuova storia. Un racconto iniziatico altrettanto ben riuscito e sofisticato del primo.
Nel cervello dell’appena adolescente Riley irrompono le “emozioni complesse”: Ansia, Imbarazzo, Invidia e Noia. Sono pronte a sovvertire e sconvolgere tutti i precedenti equilibri ed a generare il Caos. Al centro è il delicato momento della pubertà e del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. I temi profondi della stima di se stessi, le emozioni represse, la memoria, lo sviluppo e l’immaginazione adolescenziale e le paure degli insuccessi. Lo scombussolamento che porta alla progressiva formazione di una identità personale. Un mondo interiore sconvolto e rivoluzionato dal cambiamento fisico e psichico.
Pur con leggere modifiche formali il film riprende la struttura del precedente e gioca nell’alternarsi dei due piani narrativi: la vita reale di Riley e la sua vita interiore. Ancora una volta assistiamo a quel che succede nella Torre di Controllo (il cervello) della ragazza davanti all’irruzione delle nuove emozioni. Fin dai primi fotogrammi si coglie una qualità visuale stupefacente. La scrittura è intelligente ed efficace. La sceneggiatura è ben elaborata ed il ritmo è incalzante ed elettrizzante come può essere la tensione interiore di un adolescente. La messa in scena è del tutto innovativa. Visualmente tutto è magnifico e l’animazione è di alto livello sia come definizione dei personaggi sia come creazione ed immaginazione dei contesti. L’Universo creato dai maghi della Pixar è veramente di una incredibile ricchezza di suggestioni grafiche. Un film di animazione toccante come il primo ma con in più un pizzico di Humour. Un umorismo stravagante, sagace e moderno. Si passa naturalmente dalle risate alle lacrime di tenerezza, fra poesia e fantasia. Divertente, creativo, colorato, intelligente ed attuale cosa volere di più da un film d’animazione?
INSIDE OUT 2 è un piccolo gioiello. Una storia toccante in cui ognuno può ritrovarsi. Un bel film che parla di emozioni e che ne genera di nuove per lo spettatore di ogni età che uscirà con un bel sorriso sulle labbra ed una lacrima sulla guancia. Da non perdere!
data di pubblicazione:24/07/2024
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da Antonella Massaro | Lug 21, 2024
Il caso di Yara Gambirasio, tredicenne uccisa nel 2010 nel comune di Brembate di Sopra, torna a far discutere con una serie Netflix che mette in discussione le indagini e il processo conclusisi con la condanna alla pena dell’ergastolo di Massimo Bossetti.
Il pomeriggio del venerdì 26 novembre 2010 Yara Gambirasio, da pochi mesi tredicenne, esce dalla sua abitazione di Brembate di Sopra: deve recapitare uno stereo nella poco distante palestra, dove coltiva la sua passione per la ginnastica ritmica. Yara non farà più ritorno a casa. Il cadavere della ragazzina, ormai in avanzato stato di decomposizione, viene ritrovato casualmente il 26 febbraio 2011, tre mesi dopo la scomparsi e a soli dieci chilometri dalla palestra.
Le indagini, lunghe, complesse e all’apparenza farraginose, sono dirette dalla pubblico mistero Letizia Ruggeri, che mette in campo una tecnica investigativa inedita per l’esperienza italiana: migliaia di uomini bianchi si trovano sottoposti a prelievo del DNA, nella speranza di individuare un profilo compatibile con quello di “Ignoto 1”, le cui tracce sono state rinvenute sullo slip di Yara.
Si arriva, il 16 giugno 2014, all’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, 44 anni, muratore di Mapello, con un giallo che, rocambolescamente, si tinge di rosa: Massimo Bossetti non è il figlio biologico di quello che credeva essere suo padre, con sua madre che, prima nelle trasmissioni televisive e poi nel processo, nega qualsiasi relazione extraconiugale.
La serie ricostruisce la “narrazione” e la “contronarrazione” relative alla responsabilità di Bossetti, collocandosi chiaramente su posizioni scettiche. Il filmato nel quale compariva il furgone di Bossetti che ripeteva ossessivamente il giro della palestra era una simulazione realizzata dagli inquirenti e messa a disposizione degli organi di stampa; alcuni kit utilizzati per i prelievi erano scaduti; la stessa pubblico ministero Letizia Ruggeri archivia per suicidio il caso di una ragazza ritrovata morta qualche mese prima di Yara, in circostanze assai simili a quelle della tredicenne di Brembate; il custode e una delle insegnati di Yara, forse, non hanno detto tutto quello che sapevano. La soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio, imposta dal nostro ordinamento giuridico (art. 533 c.p.p.), può ritenersi davvero superata?
Il racconto non è affidato a voci fuori campo, ma ai protagonisti della vicenda, compreso Massimo Bossetti, che, dal carcere in cui sta scontando la condanna alla pena dell’ergastolo, continua a ribadire la sua innocenza.
Il caso di Yara Gambirasio condensa mirabilmente i tratti di quel “processo mediatico” che assume i contorni di un vero e proprio format televisivo: una vittima chiaramente “innocente”, un quadro investigativo incerto, gli organi di informazione che documentano minuziosamente ogni dettaglio dell’inchiesta, gli studi televisivi che si trasformano in un chiassoso e pretenzioso tribunale del popolo. Il pubblico è chiamato a giudicare, prendendo posizione nella distorta dialettica tra innocentisti e colpevolisti, perennemente in bilico tra il diritto-dovere di informare ed essere informati e la curiosità morbosa nei confronti di un crimine violento.
All’accezione negativa del processo mediatico, tuttavia, fa da pendant il ruolo della stampa nel mantenere vigile l’attenzione su possibili errori giudiziari, magari alimentati dalla necessità, sotto il peso della pressione del “pubblico”, di trovare un colpevole ad ogni costo.
Un “dilemma” che, a distanza di anni, la serie Netflix sembra aver riacceso con la stessa veemenza di un decennio fa.
data di pubblicazione: 21/07/2024
da Antonio Jacolina | Lug 19, 2024
Irlanda inizi anni’70. Anni di conflitto civile. Finbar (Liam Neeson) ex sicario desideroso di lasciarsi alle spalle il suo passato e la violenza si è ritirato in un isolato villaggio costiero del Donegal. Conduce una vita tranquilla e riservata. Nonostante i suoi propositi dovrà però affrontare un gruppo di terroristi dell’IRA rifugiatisi nel paesino dopo un sanguinoso attentato a Belfast. L’occasione per redimersi… ma nessuno è un santo …
A dirigere L’Ultima Vendetta presentato nella Sezione Orizzonti di Venezia ’23 è R. Lorenz. Per quasi 20 anni assistente alla regia di Clint Eastwood ha imparato da lui il mestiere. Ha il suo stesso tipo di approccio alle Storie ed i Temi e le Atmosfere sono proprio quelle del buon vecchio Clint. Al centro c’è infatti il tipico eroe eastwoodiano: un anziano ex uomo d’azione, taciturno, ruvido e dal passato burrascoso ma intenzionato a fare sempre e comunque la cosa giusta!
Con questo film siamo alla sua seconda collaborazione con L. Neeson. Non si cambia una ricetta che funziona! Il nostro Liam interpreta quindi, ancora una volta il solito uomo perseguitato dal suo passato oscuro che aspira ad un presente di tranquillità ma suo malgrado si trova sempre coinvolto in torbide vicende. Dalla trilogia di Taken in poi l’attore irlandese fa ormai solo…Liam Neeson. E’ divenuto infatti un “genere di se stesso”, un Neeson movie, ed un sottogenere degli action movie, dei thriller e dei revenge movie. Nulla di nuovo sotto i cieli del cinema di serie B. Per gli appassionati non si pone però nessun problema. Film come L’Ultima Vendetta sono prodotti d’azione e suspense più o meno dignitosi che vanno goduti solo per il susseguirsi di eventi, di scontri e di tensione. Sono, di fatto, i “western d’oggigiorno” in cui, comunque sia, alla fine i buoni, o meglio, i meno cattivi trionfano sui cattivissimi.
Lorenz filma e riprende scientemente proprio come un “neo western”. Si attarda sui superbi paesaggi, sulle scogliere e le verdi praterie, sui volti segnati. Il villaggio in cui spadroneggiano i banditi. Il buon poliziotto senza grande autorevolezza. Il pub al posto del saloon. Il vecchio pistolero costretto a riprendere le armi… Tutto già visto un migliaio di volte, ma proprio per questo gradevole a rivedersi. Un thriller che ripropone quindi tutti i codici dei film neesoniani ma filmato con le atmosfere e le situazioni di un western vecchio stampo. Al centro del plot ovviamente c’è Neeson che recuperando parte del suo talento e carisma, dà più profondità del solito al suo personaggio. Attorno a lui un gruppo di talentuosi attori e caratteristi irlandesi fra cui spicca la brava K. Condon già apprezzata ne Gli Spiriti dell’Isola. Suggestiva poi la colonna sonora che ripropone i temi e le sonorità della tradizione popolare celtica/irlandese.
In conclusione L’Ultima Vendetta è un lavoro che punta essenzialmente a creare e restituire atmosfere. Un film discreto con qualche piccola ambizione che muove sentimenti ed emozioni senza però mai essere palpitante né per ritmo né per tensione. Non è certo un caso che pur presentato a Venezia il film esca sugli schermi solo ora, in attesa di una molto più giusta collocazione sulle piattaforme televisive.
data di pubblicazione:19/07/2024
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da Daniele Poto | Lug 17, 2024
Vivisezione di un amore scansionato lungo tre età della vita. Tra banchi di scuola, disavventure professionali, lutti e incidenti di percorso. Sullo sfondo una Verona ben conosciuta dal regista con i suoi iconici luoghi simbolo. Un difficile e problematico ritrovamento prima del sé e poi dell’altro.
Un film che ha contemporaneamente il punto di forza e di debolezza nella struttura che per mano di quattro sceneggiatori affonda a piene mani nel romanzo di Matteo Bussola (appunto uno dei quattro), qualcosa di difficilmente e immediatamente traducibile in visivo. Dunque la pregnanza del testo, le citazioni non sgorgano pienamente naturali messe in bocca agli attori, condizionati dalla cappa del sottotesto che potrebbe funzionare anche a teatro. Il regista è umile nell’utilizzare la base di partenza ed è bravo a non far sembrare banale lo stratagemma con cui il protagonista Milo (da Miles Davis, un Guanciale nella mimesi dal volto perennemente triste e spento) fingendosi altro cerca di ritrovare l’amore perduto. Scrittura nella scrittura in un film che si esprime tanto per mail e per lettera, alla faccia della modernità ma che può far breccia nel pubblico sentimentale, non necessariamente femminile. Giravolte sentimentali un po’ complicate a cui il dono dell’emozione può regalare fiducia. C’è un Paolo Rossi utilizzato nel ruolo drammatico che non ti aspetti. C’è la seduzione della musica con un Rino Gaetano che da forza e prende forza nel plot. Molto convincente Francesco Montanari nella parte del fratello dissacrante, l’antitesi del protagonista, immediato e intuitivo di fronte a tante troppo strane parabole intellettuali. I personaggi cercano un centro nella vita. L’architetto fa il cuoco, la scrittrice passa dall’agenzia di pubblicità alla cura dei necrologi cercando l’editore giusto. Lo scatenamento dei sensi produce anche febbrili scene di sesso, quando l’amore ancora regna sovrano. Anteprima al 70° Festival di Taormina, dal 18 luglio nelle sale.
data di pubblicazione:17/07/2024
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da Daniele Poto | Lug 15, 2024
Un collaboratore della polizia si trova sbalzato in un gioco più grande di lui. Tratto da una storia, vera. Il Johnson reale fu capace di far arrestare settanta potenziali assassini fintamente accettando l’incarico di killer. I problemi arrivano quando una seducente fanciulla gli propone di far fuori il marito.
Linklater ha la mano ferma nel girare e nell’assecondare la valida sceneggiatura tratta da un libro di successo. Ma non è un biopic perché la seconda parte del film è di pura fantasia. Difatti il protagonista si fa prendere la mano e si trova invischiato in un legame sentimentale con la fidanzata palesemente rea confessa dell’omicidio che inizialmente gli aveva proposto a contratto. Divagazione libera ma divertente nell’intreccio. Perché il protagonista cerca di salvare capra e cavoli ma si trova ricattato da un collega. La sua eliminazione è un colpo di fantasia che esce dalla biografia reale ma cinematograficamente aggiunge azione e incertezza. Powell ha il volto del bravo ragazzo americano. E la Ajrona trabocca sesso dallo sguardo acuminato e malizioso. Il primo lo vedi una volta ma te lo dimentichi subito, la seconda no. Coppia ideale per un film del genere. Dialoghi veloce e intelligenti, nessun velleitarismo estetico. Diremo mood molto americano perché in Italia non si è arrivato ancora a questa specializzazione. Tanto meno con la rischiosa collaborazione con i corpi di polizia. Un film estivo garbato e intelligente, di non eccelse pretese. Ma la storia si fa seguire con attenzione fino all’ultima sorpresa. Per la cronaca il coraggioso disvelatore di tentati omicidi si è spento in serenità a 75 anni, senza ulteriori complicazioni i intraprendendo una brillante carriera secondaria, affiancata a quella di facondo insegnante di vita.
data di pubblicazione:15/07/2024
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da Antonio Iraci | Lug 12, 2024
Ma Zhe è a capo della polizia della piccola cittadina fluviale di Banpo. A seguito del ritrovamento del cadavere di una donna, viene incaricato di seguire il caso e di risolverlo al più presto. Siamo nella Cina rurale degli anni ‘90 e anche se il periodo maoista è oramai dimenticato, tuttavia il clima che si respira sembra rimasto saldamente ancorato ai tempi andati. Gli indizi a disposizione sono pochi e irrilevanti e non sarà facile trovare il vero assassino e capire il perché di quel gesto efferato…
Presentato l’anno scorso a Cannes, nella Sezione Un Certain Regard, questo film del regista cinese Wei Shujun ci riporta all’atmosfera pesante di una Cina che non riesce ancora a liberarsi del suo scomodo passato. La vita in genere rimane ancora difficile anche per la presenza di una ingombrante e persistente macchina burocratica. Di fatto è quindi molto complicato per il giovane ispettore di polizia Ma Zhe venir a capo di tre misteriosi omicidi. Prima l’assassinio di una vecchia, poi il ritrovamento di altri due cadaveri, ogni delitto sembra collegato agli altri ma senza un chiaro movente e tra la reticenza della piccola comunità del luogo. Personaggi strani ed ermetici che fanno da sfondo a questa vera e propria detective story, dove tutto quello che c’è da risolvere di fatto rimane senza soluzione. I protagonisti, direttamente o indirettamente coinvolti, sembrano recitare un ruolo ben assegnato, dove tutto è innaturale anche nei minimi gesti. Lo stesso Ma Zhe deve affrontare le proprie ossessioni personali, con una moglie che sta per partorire un figlio con molte probabilità affetto da gravi disabilità. Interessante come il regista ponga questo personaggio al centro del racconto, proprio per evidenziare la sua complessa personalità, onirica e immaginaria, che si rispecchia non solo nel privato ma anche anche nello svolgere il suo lavoro investigativo. Lui è un vero e proprio enigma umano, anche nelle minime cose e nei rapporti con i superiori rimane sempre indecifrabile, inseguito da una perenne incertezza. Ci saranno i sospettati, le confessioni, la convinzione di essere arrivati alla soluzione, quando invece non vi è nulla di certo né di risolto. Uno sguardo alla Cina di una volta che però in qualche modo riflette la Cina di oggi che, sia pur diventata la terza potenza economica del mondo, fa fatica a liberarsi di molti cliché oramai anacronistici. Bravo il regista, decisamente originale nel descrivere l’atmosfera cupa e opprimente del romanzo di Yu Hua, da cui è tratta la sceneggiatura, giovane e apprezzato scrittore cinese. Bravi tutti gli attori che rendono bene il clima noir che il film vuole descrivere, emotivamente coinvolgente anche se a tratti con effetti leggermente soporiferi.
data di pubblicazione:12/07/2024
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da Daniela Palumbo | Lug 12, 2024
Ellie e Iddo (Rotem Sela e Yehuda Levi) sono una coppia apparentemente stabile e affiatata. Vogliono un figlio, un sogno che inseguono da anni. Dopo l’ennesimo aborto spontaneo, e l’ennesima delusione, decidono di fare ricorso ad una madre surrogata. Incontrano una giovane donna (Gal Malka), già madre di un bambino e quasi del tutto priva di mezzi di sostentamento. Sarà questa donna a portare in grembo quell’embrione, quel figlio tanto desiderato dai due sposi. Le conseguenze, impreviste anche se forse prevedibili, comporteranno turbolenze improvvise e repentini dirottamenti. Da seguire col fiato sospeso, e su cui riflettere.
A body that works, un corpo che funziona. È il titolo di una serie israeliana, attualmente distribuita a livello internazionale. Nella versione inglese sarebbe anche – letteralmente – un corpo che lavora. Nella storia che ci viene raccontata, il lavoro da portare a compimento è mettere al mondo un figlio. E lo strumento è il corpo della donna.
Meccanismo rodato da secoli, quello della riproduzione. Che può incepparsi, talvolta. Come se vi fosse un difetto di fabbrica o mancasse l’anello di una catena. Come se venisse meno un tratto di un binario ferroviario. Nella traduzione francese si direbbe un corps qui marche, dove funzionare e camminare, nel senso di avanzare o procedere, appartengono ad uno stesso nucleo semantico. Una unica cellula. Così viene mostrato nel corso degli otto episodi che compongono la serie: il corpo di una donna altra – madre surrogata – di mese in mese cresce nella gestazione, e nella consapevolezza di sé. Inversamente, la madre biologica, da cui gli ovuli sono stati prelevati, subisce uno stop. Si arresta, regredisce persino, quindi si perde in giri tortuosi, di fatti e di parole. Il suo corpo non funziona come dovrebbe, e la mente si cristallizza. Nei banali riti scaramantici (vietato rivelare il nome scelto per il nascituro). Nella negazione di una intimità sessuale con il partner. Nel controllo quasi morboso del corpo dell’altra (via il cellulare dalla tasca dei pantaloni, niente sigarette, prescrizioni mediche rigorose). Delirio e parossismo, che si riflettono anche sul proprio lavoro di curatrice editoriale, alle prese con uno scrittore egocentrico (Tomer/Lior Raz). Le parole, messe a nudo, e ostinatamente sviscerate, si trasformano in enigmi irrisolvibili, benché rivelatori di crude verità. Emblematico il duello tra lei e l’autore sull’inserimento di una frase, altrettanto emblematica: quel momento seminò una crepa.
I personaggi maschili, dal canto loro, che siano mariti o amanti, padri o nonni, appaiono tanto impotenti quanto pretenziosi. Più che garantire reale sostegno questi sembrano contribuire a un’opera di demolizione dell’io, forse preludio inconsapevole di una successiva ricostruzione. Così Chen, madre in affitto, viene accusata dagli uomini della sua vita – il proprio padre e il padre di suo figlio, redivivo – di vendere il proprio corpo per soldi, di non fare nulla di buono. E soprattutto, Ellie – tanto inflessibile nell’esercizio della professione quanto insicura e fragile nel proprio intimo – diventa bersaglio del marito. Iddo il buono, Iddo il bello, quello che tutti adorano, quello che sarà all’altezza, un ottimo padre. Al suo cospetto lei è la donna senza utero, o dall’utero danneggiato. Inospitale, incapace di trattenere la vita e di proteggerla. E da cui la vita stessa fugge, sottraendosi alla sua presa, e alla sua tutela. Da qui, la scelta quasi obbligata dell’evasione – o della diserzione – che la porterà lontano da lui, dalla propria casa, dal proprio Paese. E poi il rifiuto di quel ruolo di madre incompleta o fittizia. Fino alla totale disumanizzazione, di se stessa e dell’altra, suo alter ego: Siamo ciò che siamo. Tu incubatrice, io bancomat.
Ma alla fine di questo lunghissimo e duplice travaglio, c’è qualcosa di nuovo che nasce, o rinasce. A dispetto di qualsiasi imperfezione o mancanza, di qualsiasi accusa o sbaglio precedente. Sbagli, mancanze e imperfezioni – e accuse – rimangono lì, infine, esclusi dalla sala dove si produce la vita. Tagliati fuori, e fuori della porta ad aspettare, cercando di captare segni.
L’epilogo, tra il drammatico e il poetico, è tutto da scoprire. In contrasto con le aspettative suscitate dai primissimi episodi, certamente. Un epilogo imprevisto. Anche se forse prevedibile.
data di pubblicazione:12/07/2024
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