da Daniela Palumbo | Giu 13, 2025
presentazione della stagione estiva del Teatro Biondo 2025
(Palazzo Ziino – Palermo, 12 giugno 2025)
Richiamandosi alla presentazione della stagione teatrale 2025/2026 del mese scorso, questo incontro nella sede dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo mira a rinnovare l’invito a teatro rivolto alla città tutta intera, nel cuore pulsante della stessa. Il teatro non chiude le porte, il teatro non va in vacanza.
In linea con il fine che si propone il Teatro sotto la guida di Valerio Santoro, la rassegna appena presentata, forte della felice intuizione del nuovo direttore artistico, esce fuori dalle mura del palazzo (il Teatro Biondo Stabile), eleggendo come “residenza estiva” la splendida cornice della Galleria d’Arte Moderna. Qui lo spettacolo, all’ombra del chiostro interno alla GAM, “sotto il cielo di Palermo”, si presta a nuove interpretazioni, offrendo diverse chiavi di lettura per svelare l’anima della città. Il centro storico, non soltanto luogo di svago e di “degustazione” a vantaggio quasi esclusivo dei tanti turisti, tende a recuperare – grazie ad iniziative come questa – una sua dimensione culturale, fortemente connessa all’identità profonda del capoluogo siciliano, e dei suoi abitanti.
In programmazione, otto spettacoli (dal 19 giugno al 23 luglio) che – come precisa lo stesso Santoro – rappresentano una “sintesi di generi diversi”. Così come i grandi artisti in cartellone si alternano alle nuove voci del teatro, in un’ottica di apertura a tuttotondo (ben sei, gli appuntamenti previsti per scoprire e premiare la nuova drammaturgia under 40).
Non mancano i temi di denuncia (La caja de concreto – La scatola di cemento di Alessandro Ienzi, drammaturgo e avvocato per i diritti umani), di invettiva (La grande menzogna di Claudio Fava, dialogo immaginario di un Paolo Borsellino redivivo con un pubblico troppo distratto), di rivolta contro la mercificazione della donna (Ragazze all’ingrosso, di Rossella Pugliese). Terroni, adattamento di un saggio di Pino Aprile per la regia di Roberto D’Alessandro, chiude il ciclo di rappresentazioni (22-23 luglio), con la volontà di consegnare agli uditori una sorta di ribaltamento della storia ufficiale dell’Unità d’Italia.
Risalta, infine, nello spazio ideale di questa “estate a teatro”, un viaggio attraverso i sentimenti, di ieri e di oggi: così va in scena Like Alcestis, saggio sull’amore di Rosario Palazzolo, regista e autore del testo. Immaginato e scritto – come lui stesso orgogliosamente spiega – “su misura per ciascuno degli allievi della Scuola di recitazione del Teatro Biondo di Palermo”.
Biondo d’estate, accattivante nell’ambientazione come nel nome stesso, annuncia dunque un teatro personificato, solare, variegato. E ancora una volta, aperto a tutti, sempre.
data di pubblicazione:13/06/2025
da Daniela Palumbo | Giu 12, 2025
Per la nuova edizione di Cinema in festa, il Rouge et Noir di Palermo ripropone il musical Dancer in the Dark, proiezione in lingua originale di una versione restaurata del film, già vincitore a Cannes nell’anno 2000. È la storia di Selma, immigrata cecoslovacca negli Stati Uniti, condannata alla cecità per una malattia degenerativa, la stessa che è stata trasmessa geneticamente al figlio Gene. Unica via d’uscita, per salvare almeno lui dal “buio”, un’operazione molto costosa, per la quale la donna risparmia lavorando “a tentoni” e senza sosta in fabbrica. Quando la somma racimolata – lasciapassare per la luce – le viene sottratta dal padrone di casa senza scrupoli, la situazione precipita. Così lei, accusata di omicidio e sottoposta a giudizio, sarà condannata al braccio della morte e ad una prolungata agonia.
I temi affrontati in questo film, l’emarginazione e l’handicap – tanto quello fisico, del singolo, quanto quello dell’intero sistema – sono tra i più dolorosi, e tra i più duri da trattare. È il sogno americano tramutato in incubo. Dove la povertà, la disabilità (Selma immigrata ceca quasi cieca) e la colpa o colpevolezza vanno di pari passo, ma in una contrapposizione ideologica connotata anche geograficamente (Selma donna dell’est nel paese dei colonizzatori).
La sceneggiatura, tuttavia, si colora di interpretazioni candidamente poetiche (quella di Björk nelle vesti della protagonista, innanzitutto, ma Catherine Deneuve in versione teneramente materna, o Peter Stormare nel ruolo di Jeff, l’innamorato fedelissimo, non sono da meno). Così come di canti e danze tra l’ironico e il visionario (di punto in bianco tutti si mettono a ballare e a cantare!), concentrati di inquietudini escapiste che diluiscono il pathos nei momenti cruciali.
Ciascun rumore o ticchettio, gli stessi suoni dei macchinari nella fabbrica diventano musica. Ciascuna mossa un passo di danza. Lo stesso ricorrere dei numeri, nel corso della narrazione, sembra “dare il tempo”, come seguendo una partitura (citati più volte i 2056 dollari e 10 centesimi messi insieme a fatica; scanditi da più voci, nel finale, i 107 passi verso il patibolo).
Per di più, da quell’unica macchina da presa a mano dei momenti più cupi o iperrealistici si passa a una moltitudine di videocamere in grado di dilatare lo spazio, proprio quando il musical prende campo. Punti di vista molteplici che sono altrettanti occhi dati in prestito a chi non può più vedere. Ma cosa c’è da vedere? canterà Selma, di fronte ad un Jeff improvvisamente turbato e incredulo, nella scena del binario (“tu non vedi!”). Ed è come se lo chiedesse a ciascuno di noi, noi spettatori. Cosa c’è da vedere? Non le cascate del Niagara, non la Tour Eiffel né la Grande Muraglia cinese. Non le sette meraviglie del mondo, niente di tutto questo. Se volete vedere l’innocenza mortificata e punita, se volete guardare in faccia la giustizia mentre si prostituisce per denaro, drogata di pregiudizio. Se volete vedere la pietà, anche, qui nell’amica Kathy/Cvalda e persino nella carceriera compassionevole. Se volete vedere l’amore di un uomo, pronto al sacrificio per lei, la donna amata, per non lasciarla sola nel momento estremo. Questo è il film da guardare, con cuore e coraggio. E senza troppa paura.
data di pubblicazione:12/06/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Antonio Iraci | Giu 11, 2025
Eve Macarro da piccola è miracolosamente sopravvissuta all’uccisione del padre. Rimasta sola al mondo, viene educata alla danza classica sotto la supervisione del Direttore. Questi è una donna che è anche a capo della Ruska Roma, un’organizzazione criminale legata alla mafia russa. Oltre al ballo, Eve viene addestrata alla lotta e da grande diventerà una spietata killer. Oramai adulta, completato il suo addestramento, deciderà di vendicarsi della morte del padre e si metterà sulle tracce dell’uomo che lo aveva ucciso…
Diretto da Len Wiseman e basato sui personaggi ideati da Derek Kolstad, che ne ha creato un vero e proprio franchise. Il film si può considerare uno spin-off che si inserisce tra il terzo e il quarto capitolo della famosa saga di John Wick. Il personaggio principale della serie è sempre interpretato da Keanu Reeves che anche questa volta entra in azione ma non da vero e proprio protagonista. La sua presenza ha solo una funzione di supporto alla parte da sicario imbattibile ora affidata a Eve (Ana de Armas). La giovane, motivata dal regolamento di conti per l’esecuzione del padre, affronta con convinzione il mondo del crimine. Nel film tutti gli ingredienti, di cui ci siamo oramai abituati, con scene mozzafiato che hanno dato da fare a un nutrito staff di stuntman. La regia ovviamente non ha risparmiato le scene acrobatiche e gli effetti letali di ogni arma disponibile per creare quel mood adrenalinico che tanto piace. Eve non necessita di essere supportata da una storia complicata, bastano le azioni per esprimere la sua determinazione a terminare il suo spietato compito. Per i fan di Wick le aspettative non verranno deluse e tutto il cast, con Anjelica Huston nei panni del Direttore, è all’altezza delle situazioni. Essendo ora Eve la protagonista, si sono dovuti creare stili di combattimento diversi. Mentre Wick è un veterano, un assassino già collaudato, lei è da principiante che affronta il crimine e tutta una serie di pericolosi killer. Se Eve nasce come costola di Wick, pian piano le riconosciamo una certa autonomia con un intreccio narrativo assolutamente indipendente tanto da presagire un sequel. In Ballerina la vendetta è qualcosa di inevitabile, un dovere morale che deve seguire il suo corso per approdare a quel senso di totale libertà. Un revenge action thriller movie quindi carico d’azione e di tanta violenza con tutte le carte in regola per diventare il prossimo blockbuster. Farà concorrenza al già affermato Mission: Impossible, visto che i due soggetti marciano in simbiosi. Punto di forza del film rimane comunque il personaggio di Eve. Una donna sola, tormentata da un passato che la perseguita e che la spingerà a lottare contro un mondo brutale e senza scrupoli.
data di pubblicazione:11/06/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Antonio Jacolina | Giu 10, 2025
Sono stato svezzato e sono cresciuto con pagnottelle e western, ho finito le scuole con i film di Peckinpah. Sono quindi irrimediabilmente traviato fin dal mio primo imprinting cinematografico. Non posso non essere un appassionato dei Western. Nessuno è perfetto!
Che si amino o no i film Western, che si sia letto o meno André Bazin, non c’è patito di Cinema che non sappia quale sia il significato profondo di questo specifico genere. È, in estrema sintesi, la forma visiva nata con il Cinema stesso, nella quale gli americani hanno rappresentato e nobilitato gli sforzi e gli ideali di conquista degli spazi sconfinati e di affermazione di sé dei pionieri, dell’individuo e delle piccole comunità. Una trasfigurazione poetizzata dei fatti diventata nel tempo così radicata e pervasiva che, alla fine, nell’immaginario collettivo americano e non, la leggenda è divenuta realtà fino a essere mito fondativo del Grande Paese. Senza addentrarci ulteriormente nell’analisi, il successo del Genere Western è senz’altro riconducibile al fatto che rappresenta archetipi e valori universalmente riconoscibili. La sua ricchezza di temi e la varietà delle forme gli hanno consentito di superare tutte le frontiere e le barriere, anche quella del Tempo e del mutare della visione storica e delle nuove diverse sensibilità. Dato ogni volta per superato e per morto, ogni volta è risorto, si è trasformato, modernizzato, è caduto e si è rialzato ancora.
L’ultimo volo di questa eterna Fenice che aveva riempito di nuova gioia i tanti appassionati era stato nel 2024 l’annuncio della Quadrilogia di Kevin Costner: Horizon, an American Saga. Che fine ha fatto l’ambizioso progetto? È morto, è vivo? Vedremo mai al cinema i capitoli della Saga?
Si sa, tutto è già leggenda. L’attore americano aveva deciso di riproporre sui grandi schermi l’epopea del West, un’epopea corale articolata in quattro capitoli (di tre ore ciascuno). Far rivivere e recuperare i valori insiti nel Mito. Accompagnarli da una corretta revisione della rappresentazione storica di quanto realmente avvenuto negli anni cruciali della ripresa della corsa verso l’Ovest dopo il massacro della Guerra di Secessione. Un progetto che implicava un impegno economico non indifferente, fondato sulla speranza di un ritorno con incassi soddisfacenti. Per quasi tutti però, un sogno fuori tempo massimo, una follia che non teneva conto dei mutati interessi e gusti delle nuove generazioni e degli ormai acquisiti diversi modi di fruizione dei film. Determinato nelle sue idee, impegnando anche le sue proprietà Costner ha finanziato e realizzato i primi due capitoli che sarebbero dovuti uscire a tamburo battente, uno dietro l’altro, nell’Estate/Autunno 2024. Purtroppo la realtà è stata diversa, lo sappiamo, le speranze sono andate deluse. Il Primo Capitolo presentato a Cannes ’24 e uscito nei cinema il 4 Luglio non è stato accolto da recensioni calorose. Si sa i critici sono spesso supponenti e valgono quel che valgono, ma quel che è peggio è che gli incassi diretti ed indiretti sono stati molto inferiori alle aspettative. Horizon, 2° Capitolo è stato poi presentato a Venezia ’24 e anche al Santa Barbara International Festival a Febbraio ’25, ma se ne è saputo molto poco. Al momento non è uscito né si sa ancora se mai uscirà in sala o se, come e quando, verrà commercializzato in altri modi. Nel frattempo, superato anche l’ostacolo degli scioperi ad Hollywood, Costner pervicacemente convinto delle sue idee ha appena riavviato le riprese di Horizon, 3° Capitolo. Che sta succedendo? Il progetto va avanti? Quale è la verità dei fatti? Quale sarà la soluzione di compromesso? Si potrà evitare che tutto confluisca su qualche piattaforma nel gran mare dell’intrattenimento domestico?
Sia quel che sia, riusciremo mai noi appassionati a vedere sul grande schermo e nel buio spaesante della sala un film che restituisca al nostro immaginario la resa spettacolare degli spazi ed il respiro dell’epica del West? Pensare di dover ricondurre questa immersione/identificazione totale dal grande schermo allo spazio limitato di un televisore può sembrare inconcepibile ai più fanatici di noi.
Temo però che dovremo prendere atto realisticamente che la “civiltà avanza”, siamo rimasti in pochi, non ci sono più gli spazi sconfinati e non si può finire come L’ultimo Buscadero ad ostinarsi a fare il
cowboy quando fuori tutto è ormai cambiato. La marcia sul Lungo Sentiero è iniziata e bisognerà accettare una “riserva”, uno spazio, una terra di confine limitata e circoscritta ove i pochi patiti potranno coltivare la propria passione grazie allo streaming televisivo. Giusta Nemesi per un genere responsabile di tanti falsi storici a danno dei nativi americani.
È molto probabile che i capitoli restanti di Horizon verranno commercializzati essenzialmente sulle Piattaforme Tv previo, si spera almeno, un brevissimo sfruttamento/lancio/evento a prezzi iper maggiorati in qualche grande cinema. Un compromesso non dei peggiori e ce ne dovremo fare una ragione.
Il Western è morto, Viva il Western!
data di pubblicazione:10/06/2025
da Rossano Giuppa | Giu 7, 2025
(Teatro Argentina – Roma, 5/15 giugno 2025)
Torna a Roma, al Teatro Argentina Lazarus, l’opera rock di David Bowie e Enda Walsh che Ert/Teatro Nazionale ha presentato in esclusiva per l’Italia nella Stagione 2022/23. Uno spettacolo di Valter Malosti, con protagonista Manuel Agnelli nel ruolo di Newton e con la cantautrice Casadilego. Regalo d’addio di David Bowie, Lazarus è un complesso e straordinario pezzo di “testamento musicale”, scritto con un commovente sforzo creativo dall’artista insieme al magnifico album Blackstar, uscito due giorni prima della morte.
A dieci anni dal debutto a New York, torna in scena al Teatro Argentina di Roma dopo la prima italiana di marzo 2023 Lazarus, con la regia di Valter Malosti, che ha curato la versione italiana avvalendosi anche dei consigli del drammaturgo Enda Walsh. Un allestimento complesso e articolato che vede nel ruolo del protagonista Newton Manuel Agnelli, cantautore e storico frontman degli Afterhours. Al suo fianco, la cantautrice e polistrumentista vincitrice della XIV edizione di X-Factor Casadilego che veste i panni di una ragazza che gli appare in sogno, Michela Lucenti che è l’assistente di Newton, Elly e Dario Battaglia che dà vita alla figura ambigua di Valentine. Con loro sul palco sette performer e cantanti ed otto bravissimi musicisti che eseguono live i 17 pezzi dell’opera.
A più di 50 anni dal romanzo originale The Man Who Fell to Earth di Walter Tevis, e a 40 dall’omonimo film di Nicholas Roeg, che vedeva Bowie nei panni del protagonista, l’artista britannico negli ultimi mesi di vita di riprendere con Lazarus le fila dell’infelice storia del migrante interstellare Newton, sceso sulla Terra alla ricerca di acqua per il suo popolo.
Lazarus è sostanzialmente un’opera senza una vera e propria trama se non quella interiore di una mente in frantumi. L’alieno è sempre più isolato nel suo appartamento, in preda alla depressione e vittima dei suoi fantasmi e della dipendenza dal gin. In questa situazione disperata Newton riceve segnali dal passato attraverso la TV, capta visioni del futuro generate dalla sua mente, mescola realtà e sogni ad occhi aperti.
La scena, curata da Nicolas Bovey, porta lo spettatore nell’appartamento del protagonista a New York, in un interno dove regnano installazioni video mentre su una pedana rotante si muovono una poltrona, uno scrittoio-pianola e un tavolo sormontato da un teschio. Agnelli-Newton, in vestaglia rossa, guarda i video, beve del gin e affronta a viso aperto i suoi fantasmi: l’alienazione, il doppio, i misteri della morte e della rinascita. L’estrema solitudine di Newton è mitigata solo da una ragazza-sogno (Casadilego) e dall’arte, compagna fedele. Ma su tutto si staglia il profondo senso di solitudine dell’uomo-alieno che alla fine della propria esistenza, anela ad un ritorno impossibile verso le stelle, una utopica speranza che non arriva, perché impossibilitata dai limiti del mondo e da quelli interiori dell’uomo stesso.
data di pubblicazione: 07/06/2025
Il nostro voto: 
da Antonio Jacolina | Giu 6, 2025
Francia, anni’80. Due adolescenti: Jackie di buona famiglia studia, Clotaire è un teppistello che finisce in un brutto giro. Si incrociano ed è subito Amore. La vita ed una condanna a dodici anni di galera, pur se innocente, li separano. Scontata la pena Clotaire cerca vendetta. I due si ricercano ed è di nuovo Amore…
Presentato a Cannes ’24, un successo strepitoso in Francia (4,9 milioni di spettatori). Ecco finalmente sui nostri schermi il quarto film del talentuoso Lellouche.
Come valutare L’Amour Ouf? Un film passionale? Un affresco visivo generoso, debordante, sincero e seducente? Una commedia romantica? Un Polar? Oppure solo un lungo guazzabuglio chiassoso ed eccessivo in tutto? Secondo il regista: “ci sono mille modi per realizzare un film e mille modi per raccontarlo. Si può puntare sull’estetica, sulla concretezza, sull’astrattezza … e anche sulla passione!”
Lellouche sfida tutte le convenzioni cinematografiche e apre il suo cuore. Fa una grande dichiarazione d’amore per il Cinema e si prende il rischio di un’eccessiva generosità. Filma evidentemente tutto quello che ama ed ama tutto quello che filma. Una passione febbrile pari solo alla passione amorosa dei suoi giovani innamorati. Un lavoro che gioca con il Cinema: Scorsese ed i suoi gangster, P.T. Anderson e la psiche umana, John Woo ed i combattimenti e – perché no? – anche qualche sequenza musicale. Tanti riferimenti, un mélange di generi: romanzo epico, dramma sociale, film di rapine, polar, mélo e commedia romantica, il tutto con piccoli tocchi di humour ben collocati. Forse un po’ troppa roba, troppi cliché e troppo ambizioso.
Si resta perplessi. Ciò non di meno, e questa è la vera magia, L’Amour Ouf e il suo affresco romantico e violento che si spalma per decenni seducono lo spettatore che si lascia trascinare nel vortice di passioni. Un film che al di là degli eccessi realizzativi è comunque visualmente ricco di contenuti e di belle idee, di una buona messa in scena ed è ben ritmato ed equilibrato. La ricostruzione dell’epoca è precisa in ogni dettaglio. Da un punto di vista tecnico poi Lellouche sa fare il suo mestiere: inquadrature con movimenti di camera originali, effetti ottici e cromatici singolari, montaggio incalzante e buona gestione delle scene d’azione. La colonna sonora pop è buona complice. Apprezzabile infine il lavoro del regista sugli attori e con gli attori che interpretano i due protagonisti nelle loro diverse età e fasi della vita, capaci tutti di recitare con intensità e credibilità sui vari diversi registri.
L’Amour Ouf è un affresco veloce di quasi tre ore. Un film di grande generosità che vibra di passione. Un lavoro ricco e debordante, lungo e non certo perfetto, con qualche problema di scrittura e di coerenza narrativa ma stravagante, romantico e coinvolgente, con istanti di grazia che compensano le mancanze. Passione ed entusiasmo dominano su tutto e possono respingere o sedurre il pubblico perché, si sa, gli stessi difetti possono affascinare e trascinare in un amour ouf.
data di pubblicazione: 6/06/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Nadia Alese | Giu 3, 2025
Questo sesto capitolo di Karate Kid è sicuramente il sequel più riuscito finora. Abbraccia anche il mondo di Cobra Kai, strizzando continuamente l’occhio al 1984, sullo sfondo di una suggestiva New York in una perenne golden hour, che fa della fotografia uno degli elementi più riusciti della pellicola (anche se poi risulta che il film sia stato paradossalmente girato in prevalenza a Montreal).
Gli ingredienti sono sempre gli stessi, in particolare gli allenamenti, che rimandano in pieno al primo episodio, seppur senza il mitologico “metti la cera, togli la cera”, così come i combattimenti, resi spettacolari grazie ad un montaggio serrato e riuscito.
Ma il grande elemento di novità che regala il vero tocco magico al film è l’accoppiata Jackie Chan/ Ralph Macchio che esalterà il pubblico degli appassionati del genere.
Anche chi si approccia alla saga per la prima volta, però, non rimarrà deluso, perché il giovane protagonista Li Fong (Ben Wang), che da Pechino si trasferisce con la madre a New York, cattura per simpatia e capacità di riempire lo schermo, con tutti gli elementi che servono per fare funzionare la storia, dal senso di colpa, all’elaborazione del lutto, fino al riscatto personale.
Non mancano anche momenti comici, soprattutto affidati a Wyatt Oleff, nella parte del giovane preparatore di Li all’esame di ammissione scolastica, in un piccolo ruolo che però si fa notare.
Il personaggio meno riuscito è invece quello di Joshua Jackson, padre della giovane amica di Li, che, forse incastrato nel ruolo e nell’universo parallelo di Dawson Creek, mantiene lo stesso sguardo piacione dall’inizio alla fine, anche appena risvegliato da un codice blu che sembrava condannarlo a morte certa. Ma le pizze che vende fanno da fil rouge tra le varie scene ed il tutto rientra perfettamente nella formula fumettone che il regista sceglie per il suo prodotto.
Detto questo la sensazione è che, pur nel godimento istantaneo, il ricordo di Karate Kid: Legends non rimarrà a lungo, lasciando per l’ennesima volta lo scettro a quell’unico primo indimenticato episodio, che pur non essendo mai stato, a sua volta, un vero e proprio capolavoro, ha comunque il pregio di avere segnato l’immaginario di un’epoca.
data di pubblicazione:3/06/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Nadia Alese | Mag 31, 2025
Un’opera prima davvero ispirata questa di Christian Filippi, con un giovanissimo protagonista, Zackari Delmas, in un impagabile stato di grazia.
Riccardino, quasi diciottenne, minaccia di buttarsi dall’ultimo piano della casa famiglia in cui vive. Non un vero istinto suicida, ma il desiderio di attirare l’attenzione sulla sua necessità di vedere la madre, da cui è stato allontanato, e che è ricoverata in un ospedale psichiatrico per gravi problemi mentali.
Un formato in 4/3 che ricorda da subito Mommy di Javier Dolan, storia di un rapporto altrettanto difficile tra madre e figlio a parti invertite, ma che non si apre mai, al contrario dell’altro, al formato 16:9, preferendo, alla fine, un fermo immagine, che richiama invece più apertamente I 400 passi di Truffaut, con l’indimenticabile sguardo in camera del protagonista. Qui accompagnato dalla delicata dedica a tutti quelli che, come Riccardino, stanno cercando il loro posto nel mondo.
Una recitazione davvero naturale quella di Zackari Delmas, mai sopra le righe, nonostante passi attraverso tutta la gamma delle emozioni, dalla rabbia, alla delusione fino all’entusiasmo, nella ricerca ancestrale dell’amore materno, anche quando questo amore è reso impossibile dalle condizioni psichiche di lei. Anche quando è lei stessa, donna bambina, a rifiutarlo, ferendolo con parole che nessun figlio vorrebbe sentirsi dire, nella confusione mentale di chi, per cause di forza maggiore, non è in grado di gestire le proprie azioni ed i propri sentimenti.
Una regia molto interessante quella di Christian Filippi, che racconta una storia universale, che va oltre la periferia romana e gli stessi protagonisti raccontati. Con movimenti di camera mai banali che culminano nelle due scene di ballo, liberatorie e che preludono, in entrambi i casi, ad una fine imminente per ricominciare.
Un film indipendente, che però non cade mai negli stereotipi dei film indipendenti, assolutamente da recuperare se lo si è perso. Una boccata d’aria fresca che fa bene sperare per il futuro del nostro cinema.
data di pubblicazione:31/05/2025
Scopri con un click il nostro voto: 
da Paolo Talone | Mag 30, 2025
Musiche composte e eseguite da Giulio Barocchieri
(Teatro India – Roma, 20 maggio/1 giugno 2025)
Un controcanto di giustizia e umanità alla ferocia delle stragi di mafia. La testimonianza vera e cruda di un periodo doloroso e difficile. Con il patrocinio della Fondazione Falcone, è in scena all’India l’ultimo spettacolo di Davide Enia, prodotto dal CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli-Venezia Giulia, insieme al Piccolo di Milano, Accademia Perduta Romagna Teatri e al Festival dei Due Mondi.
Questa è una storia di voci. Di testimonianze. La prima e più significativa quella di Davide Enia, nato a Palermo nel 1974. L’anno è importante. Ci dice implicitamente che l’infanzia e l’adolescenza le ha vissute in un periodo bollente per la storia della città e della Sicilia. Gli anni ’80 e ’90 sono stati segnati dalle stragi di mafia, quelle condotte con le bombe. Delle guerre tra clan, che lasciavano cadaveri per strada. Anni di violenza definiti dal braccio armato di Cosa nostra, i Corleonesi: il modo più atroce e violento di essere un mafioso. Il Capo dei Capi era Totò Riina, “uno abituato a scannare i maiali” e che sul sangue ha fondato il suo regno. Un periodo segnato da una carneficina continua: «Il primo morto ammazzato lo vedo a otto anni, tornando a casa da scuola, facendo il medesimo percorso concordato con i miei genitori». Così inizia il suo racconto, che si può anche felicemente leggere nel volumetto stampato da Sellerio nell’anno in corso. Il sottotitolo recita “istruzioni per sopravvivere a Palermo”, ed è rivolto a chi cerca un’arma culturale per cambiare una mentalità sbagliata sulla quale si fonda il pregiudizio per un’intera popolazione.
Davide Enia è il testimone di una lotta continua, estenuante ma necessaria. Dipinge il ritratto di una generazione di uomini e donne ponendo al centro della narrazione i suoi ricordi personali rispetto agli omicidi più efferati condotti da Cosa nostra. Nei sanguinosi fatti ricordati c’è il sequestro e la morte del piccolo Giuseppe Di Matteo; l’omicidio di don Pino Puglisi; le stragi che hanno coinvolto i giudici Falcone e Borsellino con gli agenti delle scorte. E dove la memoria si fa debole, sopperiscono altre testimonianze. Come le interviste fatte ai componenti della DIA (la Direzione investigativa antimafia). La ricostruzione delle storie non è attinta dalle pagine dei giornali o dal web. Si avvale invece dei racconti di chi in quel momento era in prossimità dell’evento. Di chi ha guardato da vicino il male, per trasmetterne con verità la ferocia e l’efferatezza dei gesti. Andare vicino come fa Enia è fare memoria, non vuota liturgia. Lo spettatore rivive nella carne la paura e la nevrosi di quei momenti.
Nel teatro di narrazione di Enia, a vocazione pedagogica, la forma è significativa quanto il contenuto. Gli strumenti di trasmissione sono principalmente la voce – anche nella sua manifestazione più criptica del canto dialettale – e il corpo, che si muove a scatti e a urti come di chi è legato e cerca disperatamente di liberarsi. E soprattutto la musica, come amplificatore di emozioni, ma anche come impalcatura sulla quale posa la costruzione delle immagini. I movimenti melodici disegnano una terra, una cultura. Nel contrappunto, nel controcanto e nelle armonizzazioni di Giulio Barocchieri – compagno immancabile nelle avventure teatrali dell’autore siciliano – si basa la tecnica che dà il verso anche alla narrazione. Così un’armonizzazione in terza più alta o bassa fa emergere ribellione o descrivere arresa o sottomissione a un sistema la cui caratteristica inconfutabile è la ferocia. Il controcanto crea l’alternativa a un sistema illogico e bestiale. Singolare è il racconto dell’amicizia con il compagno di scuola Peppe Malato: un legame sano, puro, di fiducia che si contrappone all’infamia e alla corruzione mafiose. Le stesse voci di Falcone, Borsellino e don Puglisi sono state un controcanto.
Palermo ha saputo ascoltarle e farne tesoro. Sono passati tanti anni da allora e un testo come Autoritratto diventa necessario per tenere vivo il nuovo sentimento di rabbia che nacque in città dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il volto della mafia è cambiato, “non spara più” si dice. Ma il grido di giustizia e resistenza deve continuare a tenere sveglio il bisogno di denuncia.
data di pubblicazione:30/05/2025
Il nostro voto: 
da Salvatore Cusimano | Mag 30, 2025
Maschi Veri è il remake italiano della serie spagnola Machos Alpha, otto episodi da 25-35 minuti, prodotta da Groenlandia. Mattia (Maurizio Lastrico), Massimo (Matteo Martari), Luigi (Pietro Sermonti) e Riccardo (Francesco Montanari) sono amici dai tempi dell’università, oggi quarantenni in equilibrio precario tra vite sentimentali più o meno problematiche.
La serie si inserisce nel filone post-#MeToo, con quattro protagonisti, molto diversi fra loro, ma accomunati da un’amicizia di vecchia data fondata ai tempi dell’Università, dopo la quale ha preso forma in una chat di gruppo.
Maschi Veri affronta uno dei grandi temi del contemporaneo, la crisi d’identità del maschio, con le diverse sfaccettature dei vari protagonisti: c’è Massimo (Matteo Martari), dirigente televisivo, Luigi (Pietro Sermonti), il padre di famiglia che guida gli autobus, Mattia (Maurizio Lastrico), divorziato con figlia adolescente, e poi c’è Riccardo (Francesco Montanari), barista testosteronico.
Tutti e quattro sono entrati perfettamente nella parte e hanno creato una bella sinergia. Un cast che risulta ben azzeccato, la serie è brillante e ben scritta, e punta tutto sull’umorismo per affrontare un tema complesso, quella della mascolinità più o meno tossica, con una serie di cliché, molte volte portati all’estremo, ma che fanno davvero ridere di gusto, anche perché i protagonisti non sono cattivi. Unico neo, forse, potrebbe essere che alla fine risulta abbastanza scontata.
Abbiamo già citato i quattro protagonisti maschili, tutti bravi ad andare dritti al punto, ma anche le donne non sono da meno e anche loro dentro dei cliché che non le fanno proprio ‘uscire’ bene dalla serie: Thony, Nicole Grimaudo, Sarah Felberbaum e Laura Adriani mettono in scena quattro compagne/mogli che condividono, aumentano e diminuiscono a loro piacere le frustrazioni delle loro controparti maschili, creando un gioco di relazioni che aumenta il divertimento.
Il format, come detto, ha origine spagnola, ma risulterebbe già pronta la seconda serie in questa versione italiana, e si può già dire, visto il successo nei primi giorni di programmazione, che in Italia avrà sicuramente più senso rispetto all’edizione francese, dove è stata subito chiusa dopo la prima.
data di pubblicazione:29/05/2025
Pagina 2 di 304«12345...102030...»Ultima »
Gli ultimi commenti…