Il caso di Yara Gambirasio, tredicenne uccisa nel 2010 nel comune di Brembate di Sopra, torna a far discutere con una serie Netflix che mette in discussione le indagini e il processo conclusisi con la condanna alla pena dell’ergastolo di Massimo Bossetti.
Il pomeriggio del venerdì 26 novembre 2010 Yara Gambirasio, da pochi mesi tredicenne, esce dalla sua abitazione di Brembate di Sopra: deve recapitare uno stereo nella poco distante palestra, dove coltiva la sua passione per la ginnastica ritmica. Yara non farà più ritorno a casa. Il cadavere della ragazzina, ormai in avanzato stato di decomposizione, viene ritrovato casualmente il 26 febbraio 2011, tre mesi dopo la scomparsi e a soli dieci chilometri dalla palestra.
Le indagini, lunghe, complesse e all’apparenza farraginose, sono dirette dalla pubblico mistero Letizia Ruggeri, che mette in campo una tecnica investigativa inedita per l’esperienza italiana: migliaia di uomini bianchi si trovano sottoposti a prelievo del DNA, nella speranza di individuare un profilo compatibile con quello di “Ignoto 1”, le cui tracce sono state rinvenute sullo slip di Yara.
Si arriva, il 16 giugno 2014, all’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, 44 anni, muratore di Mapello, con un giallo che, rocambolescamente, si tinge di rosa: Massimo Bossetti non è il figlio biologico di quello che credeva essere suo padre, con sua madre che, prima nelle trasmissioni televisive e poi nel processo, nega qualsiasi relazione extraconiugale.
La serie ricostruisce la “narrazione” e la “contronarrazione” relative alla responsabilità di Bossetti, collocandosi chiaramente su posizioni scettiche. Il filmato nel quale compariva il furgone di Bossetti che ripeteva ossessivamente il giro della palestra era una simulazione realizzata dagli inquirenti e messa a disposizione degli organi di stampa; alcuni kit utilizzati per i prelievi erano scaduti; la stessa pubblico ministero Letizia Ruggeri archivia per suicidio il caso di una ragazza ritrovata morta qualche mese prima di Yara, in circostanze assai simili a quelle della tredicenne di Brembate; il custode e una delle insegnati di Yara, forse, non hanno detto tutto quello che sapevano. La soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio, imposta dal nostro ordinamento giuridico (art. 533 c.p.p.), può ritenersi davvero superata?
Il racconto non è affidato a voci fuori campo, ma ai protagonisti della vicenda, compreso Massimo Bossetti, che, dal carcere in cui sta scontando la condanna alla pena dell’ergastolo, continua a ribadire la sua innocenza.
Il caso di Yara Gambirasio condensa mirabilmente i tratti di quel “processo mediatico” che assume i contorni di un vero e proprio format televisivo: una vittima chiaramente “innocente”, un quadro investigativo incerto, gli organi di informazione che documentano minuziosamente ogni dettaglio dell’inchiesta, gli studi televisivi che si trasformano in un chiassoso e pretenzioso tribunale del popolo. Il pubblico è chiamato a giudicare, prendendo posizione nella distorta dialettica tra innocentisti e colpevolisti, perennemente in bilico tra il diritto-dovere di informare ed essere informati e la curiosità morbosa nei confronti di un crimine violento.
All’accezione negativa del processo mediatico, tuttavia, fa da pendant il ruolo della stampa nel mantenere vigile l’attenzione su possibili errori giudiziari, magari alimentati dalla necessità, sotto il peso della pressione del “pubblico”, di trovare un colpevole ad ogni costo.
Un “dilemma” che, a distanza di anni, la serie Netflix sembra aver riacceso con la stessa veemenza di un decennio fa.
data di pubblicazione: 21/07/2024
0 commenti