FORSE HO SOGNATO TROPPO di Michel Bussi – Edizioni e/o 2019

FORSE HO SOGNATO TROPPO di Michel Bussi – Edizioni e/o 2019

Michel Bussì è autore di Polar (mix di polizieschi e noir) dal successo ormai planetario e dai molteplici adattamenti televisivi che è esploso anche in Italia a partire dal 2011 con l’uscita di Ninfee Nere. Con questo suo ultimo romanzo, il 12°, lo scrittore ci porta in un intrigo un po’ diverso dal solito, in un contesto meno poliziesco ed un po’ più romantico.

Una sequenza incredibile di coincidenze riportano la ancor bella cinquantenne Nathalie, hostess dell’Air France, sui luoghi ove vent’anni prima, già felicemente sposata e madre di una figlia, aveva incontrato la passione della sua vita. Chi sta creando tutte queste nuove coincidenze? Il Destino o qualche sconosciuto? E poi … per quale motivo far riaffiorare questi dolci ricordi e rimpianti? Presente e Passato si incrociano e si alternano in un gioco continuo in cui l’Amore diviene centrale rispetto al plot poliziesco.

Una scelta voluta da parte di Bussì, uno sconfinamento in altri territori letterari per dimostrare probabilmente di saper andare anche oltre i propri registri. Lo scrittore, lo sappiamo, sa raccontare le storie ed è bravo a creare le situazioni, pur non sapendo però gestire bene i finali, ma questa volta l’accumulo ed il mix dei fatti narrati è eccessivo. Dopo un buon inizio il racconto stenta a decollare fino a perdersi poi del tutto, il gioco infatti si allunga troppo, diviene ripetitivo e la storia ed i personaggi mancano di solidità e di spessore psicologico. L’ispirazione sembra essere un po’ affaticata e la suspense ed i colpi di scena latitano o non sono ben calibrati. Il risultato è che dal romantico si scivola subito nel melenso e dal thriller si scade subito nell’assurdo. Un insieme di clichè si susseguono senza che scatti mai la vera scintilla. Se l’intenzione di Bussì era di scrivere un romanzo sentimentale, purtroppo per lui e, soprattutto per il malcapitato lettore, è scaduto nel sentimentalismo da “romanzetti rosa”. E’ evidente che le storie d’amore non sono nelle sue corde ed abbiamo molta nostalgia del primo Bussì poliziesco. Una lunga pausa di riflessione gli gioverebbe senz’altro.

data di pubblicazione:11/02/2020

NOTE SEGRETE ovvero Eroi, spie e banditi della musica italiana di Michele Bovi, prefazione di Maurizio Costanzo – Iacobelli editore 2020

NOTE SEGRETE ovvero Eroi, spie e banditi della musica italiana di Michele Bovi, prefazione di Maurizio Costanzo – Iacobelli editore 2020

Michele Bovi, estrazione Rai, è un meraviglioso cultore dei segreti della musica. E quando presenta un libro si appoggia a interviste mirate, a una documentazione ineccepibile. Dunque non stupisca di trovare sulla copertina di un libro di musica la foto di Joe Adonis, pluri-assassino di chiaro marchio Doc mafioso italico, che, estradato in Italia, trovò il modo di tessere fitte trame manageriali con gran parte del jet set canoro nostrano. I legami tra Italia e Stati Uniti cuciono un filo rosso che va da Frank Sinatra a Tony Renis. Ma Bovi va più in profondità ricordando il ruolo fondamentale esercitato da Lucky Luciano come mallevadore della pacifica penetrazione degli invasori americani in Sicilia, esercitando i buoni uffici di collegamento con Cosa Nostra all’altezza della seconda guerra mondiale. Inoltre i servizi segreti, spesso patteggiando con personaggi criminali o borderline hanno provato a esercitare un controllo sui complessi beat, preoccupati del cattivo esempio nel consumo di spinelli o nell’esercizio di libero sesso. Naturalmente nel corso degli anni questa pretesa si è moto attenuata, sia per la virtuale liberalizzazione delle droghe leggere, sia pur spinte più alte di libertà che hanno attenuato la portata di scandali ormai solo presunti, pure se il recente festival di Sanremo qualche colpo alla morale corrente l’ha pure portato. Adonis era coccolato da alcuni dei maggiori cantanti italiani, era un ospite assiduo di Sanremo. In questo andirivieni Italia-America (con i mafiosi a gestire contratti ed appalti) si è consumato anche un possibile suicidio: Rossano, cantante di precario successo, venne trovato impiccato nella propria camera di albergo negli States. Era diventato una sorta di corriere della droga per conto mafioso dagli Stati Uniti al Canada e chissà se gli sia costata la vita uno sgarbo ai propri datori di lavoro: il mistero rimane. Anche Mina e Celentano vennero contattati per trasferta gestite da questi pericolosi interlocutori. La prima fiutò l’aria e dopo un primo ingaggio rinunciò ad un impegno giudicato compromettente mentre il secondo fu frenato dalla cronica desuetudine ai viaggi aerei.

data di pubblicazione:11/02/2020

IL DIRITTO DI OPPORSI di Daniel Cretton, 2020

IL DIRITTO DI OPPORSI di Daniel Cretton, 2020

La storia vera di Bryan Stevenson, giovane avvocato, laureato ad Harvard, che divenne famoso per aver difeso i detenuti di colore del braccio della morte di un carcere dell’Alabama privi dei più elementari diritti in un sistema giudiziario ostile e razzista.

 

Se questa fosse una pellicola degli anni ’50, ma che dico, ’60 potremmo anche non sorprenderci più di tanto delle ingiustizie, dei pregiudizi, del razzismo tout court di cui sono vittime gli afro americani. Il dato sconfortante è invece che i fatti narrati dal regista Destin Daniel Cretton nel suo sodalizio artistico con Brie Larson (qui anche come attrice nel ruolo di un’avvocatessa locale che si batte per la gente di colore), si sono svolti di recente e sono stati raccontati prima che nel film, nel libro di Stevenson Just Mercy, Storia di Giustizia e Redenzione del 2014, dunque in piena epoca Obama. Del resto, la cronaca e di conseguenza la filmografia statunitense non hanno mai mancato di raccontare le continue umiliazioni patite dai neri d’America. Dai tempi di Il Buio Oltre la Siepe ai film di Spike Lee, alle innumerevoli e spesso notevoli pellicole sui comuni abusi da parte di poliziotti spesso in odore di razzismo (ne cito solo alcune del 2018: Skin, Il Coraggio della Verità, Che Fare Quando il Mondo è in Fiamme, Se La Strada Potesse Parlare ……), tutte pellicole che spesso iniziano con l’arresto di un ignaro afro americano fermato in auto dalla polizia in cerca di colpevoli a prescindere… Anche nella storia narrata da Cretton l’incipit è il medesimo: Walter MacMillan, che nel film ha il volto di Jamie Foxx, lavoratore nero, viene fermato e in seguito accusato del delitto di una giovane bianca. La più becera provincia dell’Alabama all’unisono (polizia, magistratura, governatore) si accontenta di prove e testimonianze superficiali e “condanna” Mac Millan (“..basta guardarlo in faccia!”). Ed è a questo punto della storia che entra in campo il brillante avvocato Stevenson, interpretato da Michael B. Jordan (Black Panter, Creed),il quale non crede alla colpevolezza di Mac Millan e decide di difenderlo nonostante il suo stesso assistito, oramai già nel braccio della morte e in attesa dell’esecuzione della sentenza, e con lui la locale comunità nera abbia perso ogni speranza. Ovviamente il regista è totalmente in sintonia con il giovane “eroe” e lo segue nella sua drammatica lotta contro pregiudizi e ingiustizie riuscendo infine a rendere giustizia all’innocente. Come dicevo in premessa non è il primo e temo non sarà l’ultimo film sul razzismo e più in generale, sulla paura del diverso, ma la pellicola ha efficaci frecce al suo arco: è asciutta, mantiene un buon ritmo, è ottimamente recitato e, purtroppo, riesce a fotografare ancora una volta in modo impietoso il volto di un’America che tollera a tutt’oggi inique disparità sociali e razziali.

data di pubblicazione:11/02/2020


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OSCAR 2020

OSCAR 2020

Gli Oscar 2020 sono stati segnati da previsioni della vigilia fin troppo agevoli da confermare e da sorprese che, in qualche modo, sono destinate a restare nella storia.

La previsione tanto scontata ma troppo difficile da smentire era quella del premio a Joaquin Phoenix come miglior attore protagonista per la sua magnetica interpretazione in Joker: fin dalla prima proiezione del film alla Mostra di Venezia, era chiaro che sarebbe stato difficile, se non impossibile, superare una simile prova da attore.

La sorpresa “storica” è stata quella di Parasite del sudcoreano Bong Joon-ho, che si aggiudica le statuette più ambite di miglior film e miglior regia, cui si aggiungono i premi per miglior film straniero e miglior sceneggiatura originale. È la prima volta che un film in lingua inglese conquista la vetta del miglior film agli Oscar, dopo aver vinto già la Palma d’oro a Cannes.

La miglior attrice protagonista è Renèe Zellweger che, per il ruolo di Judy, torna a stringere l’Oscar tra le mani dopo Ritorno a Cold Mountain.

Quanto agli attori non protagonisti, gli Oscar sono andati al (prevedibile) Brad Pitt per C’era una volta…a Hollywood e a (una forse meno scontata) Laura Dern per Storia di un matrimonio.

La miglior canzone è miglior canzone è (I’m Gonna) Love Me Again in Rocketman, con Sir Elton John che riceve il suo secondo Oscar dopo quello conquistato nel 1995 con Il Re Leone.

Come tutte le notti degli Oscar, è inevitabile fare anche il conto dei “non premiati”. L’assenza più assordante è probabilmente quella di The Irishman di Martin Scorsese che, malgrado dieci candidature e tante citazioni durante le premiazioni, torna a casa senza statuette. Anche 1917 di Sam Mendes, indubbiamente tra i favoriti, deve “accontentarsi” di fotografia, effetti speciali e montaggio sonoro. C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino porta a casa, oltre al premio a Brad Pitt, la statuetta per la miglior scenografia.

Qui di seguito tutti i premi vinti per ciascuna categoria in concorso!

Miglior film
Parasite

Miglior regia
Bon Joon Ho Parasite

Attrice protagonista
Renée Zellweger Judy

Attore protagonista
Joaquin Phoenix Joker

Attrice non protagonista
Laura Dern Storia di un matrimonio

Attore non protagonista
Brad Pitt C’era una volta… a Hollywood

Film d’animazione
Toy Story 4

Film internazionale (ex straniero)
Parasite (Corea del Sud)

Sceneggiatura originale
Parasite

Sceneggiatura non originale
Jojo Rabbit

Cortometraggio animato
Hair Love

Documentario
American Factory

Cortometraggio documentario
Learning to skateboard in a warzone

Cortometraggio
The Neighbor’s Widow

Colonna sonora
Joker

Canzone originale
(I’m Gonna) Love Me Again – Rocketman

Fotografia
1917

Effetti speciali
1917

Trucco e acconciature
Bombshell

Scenografia
C’era una volta… a Hollywood

Costumi
Piccole donne

Montaggio
Le Mans ’66 – La grande sfida

Sonoro
Le Mans ’66 – La grande sfida

Montaggio sonoro
1917

LA CATTIVA STELLA di Georges Simenon – Gli Adelphi 2020

LA CATTIVA STELLA di Georges Simenon – Gli Adelphi 2020

Georges Simenon scrittore dalla compulsiva prolificità scrisse oltre 200 romanzi ed innumerevoli racconti. Circa 75 sono quelli dedicati all’ispettore Maigret, mentre ca.120 sono i Romanzi Duri, come li definì lo scrittore stesso.

Per gli appassionati questi e solo questi sono i soli e veri Simenon! In estrema sintesi potremmo ripartire i Romanzi Duri in tre gruppi: quelli scritti in Francia fino al 1944; quelli dell’”esilio” americano, ed infine quelli del rientro in Europa fino alla decisione di smettere di scrivere nel 1972. I migliori, salvo alcune eccezioni, sono indubbiamente quelli del primo periodo. Quelli in cui Simenon definisce il suo universo. un universo in cui ogni lettore poteva e può identificarsi. Una galleria di uomini e donne, autentici ed universali. Poco importa che siano parigini, cittadini o paesani, notabili o professionisti, su tutti l’ineluttabile Destino è in attesa di far scattare la sua trappola.

La Cattiva Stella uscito a fine 2019, appartiene al primo gruppo, anche se più che un romanzo è una raccolta di racconti pubblicati su Paris Soir quali reportages del lungo giro del mondo e dei tropici che Simenon fece fra il ‘35 ed il ’37. Articoli poi rivisti e raccolti dall’autore in un volume con questo titolo dato alle stampe nel 1938.

Pur nella loro contenuta dimensione il lettore ritrova nel libro tutti i temi tipici della visione e delle atmosfere letterarie di Simenon: il passato, il presente e l’avvenire che si legano in una dimensione su cui pesa ed opera il Destino che fa agire i personaggi nati sotto una cattiva stella e non concede loro nessuna opportunità. Il libro va letto come fosse un unico romanzo dai tanti capitoli con diversi protagonisti in diverse situazioni. Avventurieri, turisti da banane e quelli che credono che “il meglio” sia sempre in un altrove, un altrove esotico o nelle colonie, ove si possa vivere solo di aria e Natura. Una Natura che invece, con pochi e brevi tocchi Simenon ci descrive come soffocante e così inclemente da rendere ancora più pesante il fallimento delle illusioni

La Cattiva Stella non è certo uno dei migliori lavori dello scrittore, né questa era la pretesa, lo stile è un po’ più asciutto del solito, il taglio è in effetti ancora giornalistico, ma resta pur sempre esaustivo, nitido ed efficace con descrizioni e ritratti incisivi di un mondo coloniale ed esotico sconcertante, e di vicende umane drammatiche anche quando ironiche o buffe.

data di pubblicazione:08/02/2020

VETRI ROTTI di Arthur Miller, con Elena Sofia Ricci, regia di Armando Pugliese

VETRI ROTTI di Arthur Miller, con Elena Sofia Ricci, regia di Armando Pugliese

(Teatro Eliseo – Roma, 4 -16 febbraio 2020)

In scena al Teatro Eliseo di Roma dal 4 al 16 febbraio 2020 Vetri rotti di Arthur Miller, per la regia di Armando Pugliese e interpretato da Elena Sofia Ricci, vincitrice del Premio Flaiano 2018 per la sua interpretazione. Con lei sul palco anche Maurizio Donadoni e David Coco, oltre a Elisabetta Arosio, Alessandro Cremona e Serena Amalia Mazzone.

 

 

Psicanalisi, drammi storici sociali e personali attraverso gli occhi e le reazioni di una donna ebrea americana sconvolta, nel novembre del 1938, dalle notizie della Notte dei Cristalli che arrivano da Berlino, dove la esaltazione antisemita aveva portato squadre di nazisti a distruggere le vetrine dei negozi di proprietà di ebrei.

Sylvia Gellburg viene improvvisamente colpita da un’inspiegabile paralisi agli arti inferiori. Il medico, Herry Hyman, suo coetaneo e conoscente, è convinto della natura psicosomatica del male e, al tempo stesso, è sentimentalmente attratto dalla donna, mentre il marito di Sylvia, Phillip, non riesce ad accettare quanto sta accadendo. Ben presto emerge quanto Sylvia sia ossessionata dalle notizie delle persecuzioni contro gli ebrei in Germania.

Ad andare in frantumi, contemporaneamente, è anche la sua salute, il suo corpo, la sua mente che somatizza l’evento provocandole la paralisi delle gambe. I due uomini tentano due cure opposte: il primo minimizza le notizie sempre più preoccupanti che arrivano dalla Germania, il secondo le trasmette forza ed energia per reagire. Sylvia non sa darsi pace: continua a leggere la notizia sui giornali, continua a guardare l’immagine di due ebrei anziani costretti a pulire un marciapiedi con uno spazzolino da denti, mentre la folla intorno, guarda e ride.

Philip e Harry sono due uomini completamente diversi l’uno dall’altro. Philip è un agente immobiliare irascibile e irruento, un uomo dall’io spiccato e dominante che nel corso della vita matrimoniale ha ottenuto sempre da Sylvia ciò che desiderava. È riuscito a far sì che lei smettesse di lavorare nonostante stesse percorrendo una brillante carriera nel campo finanziario, e a convincerlo a mettersi a fare la casalinga e a dargli un figlio. Scheletri nell’armadio enormi, incomprensioni sepolte. Il dottor Hyman, sa come prendere i due coniugi per ottenere da loro ciò che intende ascoltare ma Sylvia non riesce più a condurre in casa le normali faccende perché non è in grado di stare in piedi. È costretta su una sedia a rotelle o a letto, e di conseguenza si sente nel morale fiaccare completamente, si sente sepolta e incapace di guarire. È fiaccata nell’animo, stanca, demoralizzata. L’angoscia per quanto accade oltreoceano si somma ad altre fonti di frustrazione e inquietudine. L’infarto e l’agonia del marito, uniti alla richiesta di perdono di lui, porteranno la donna alla improvvisa guarigione.

Vetri rotti è un testo intenso e spietato, una coinvolgente analisi delle crepe nascoste o inaspettate che possono sconvolgere le vite degli uomini. Lo spettacolo è sostenuto dalle capacità degli attori e da una straordinaria Elena Sofia Ricci, mentre appare piatta la regia e poco incisivo l’allestimento.

data di pubblicazione:08/02/2020


Il nostro voto:

LIOLÀ di Luigi Pirandello, regia di Francesco Bellomo

LIOLÀ di Luigi Pirandello, regia di Francesco Bellomo

(Teatro Quirino – Roma, 4/16 febbraio 2020)

La commedia a carattere popolare di Liolà, il contadino che tra intrighi e pettegolezzi, arrivismo e gelosie, fa valere la sua bontà e la sua morale spensierata.

 

Il sole è una palla infuocata in un cielo blu terso che splende appena sopra la barriera di scogli oltre la quale si vede il mare. Il frinire assordante delle cicale, come le onde che battono sulla battigia si mischiano ai canti popolari trasportandoci nei colori e nei suoni in Sicilia. Il gruppo di case bianche – con l’uscio sempre aperto a dire fiducia e comunicazione tra le persone – si affaccia su uno spazio comune, una piazzola alla fine di ripide scalinate, bianche anche loro, centro gravitazionale della scena. È il luogo di aggregazione della piccola società contadina del borgo marinaro di Porto Empedocle, dove il regista ha scelto di ambientare la pièce trasportandola nei primi anni ’40. È qui che la commedia campestre, tra le prime scritte da Pirandello, prende vita. Luogo di solidarietà, pettegolezzi e condivisione del lavoro per una società tutta al femminile, strutturalmente organizzata in una complicata e rigida gerarchia, ma al cui vertice ci sono sempre e solo uomini.

Liolà è un contadino allegro e spensierato che ama tutte le donne ma non ne vuole sposare nessuna, un dongiovanni dai buoni sentimenti. Ha già tre figli, frutto di fuggevoli amori, che sua madre si dà la briga di crescere. Ne aspetta un altro da Tuzza, che vorrebbe per questo motivo chiedere in sposa, ma la proposta è rifiutata nonostante il peso della vergogna di una gravidanza illecita. Liolà si inserisce nella società in cui vive come una voce fuori dal coro. La sua filosofia del vivere senza morale ma con virtù – perché chi non ha virtù non sa regnare – è contagiosa e abbindolatrice. L’interpretazione di Giulio Corso, con le sue capacità vocali e mimiche da bravo cuntatore di storie, aggiungono al personaggio una notevole dose di simpatia e vitalità.

La roba appartiene invece tutta a Zio Simone, comico e goffo nella versione di Enrico Guarneri. È il ricco del villaggio ossessionato dal problema di non avere figli e quindi eredi a cui lasciare i suoi beni. La sua sterilità darà occasione a Zia Croce e a sua nipote Tuzza di ordire un intrigo per accaparrarsi una posizione economicamente più favorevole, nascondendo insieme il disonore della ragazza. Ma l’intervento di Liolà cambierà i piani. Metterà incinta anche Mita, la giovane sposa legittima di Zio Simone – umiliata e derisa da Tuzza in faccia a tutto il paese – dando così alla ragazza la possibilità di riscattarsi. Il figlio che nascerà da Tuzza si unirà al numero di quelli che Liolà già ha sulle spalle – “tre più uno fa quattro” dirà– a sottolineare la bontà della sua onestà di eroe positivo.

L’uso marcato del dialetto siciliano rende difficile la comprensione all’inizio, ma l’orecchio fa presto ad abituarsi. Allora ecco che emergono sfumature di senso che vanno ad arricchire la drammaturgia, aggiungendo al testo una sorta di leggerezza e realtà che altrimenti non sarebbe godibile. Anche il punto più tragico, il momento del capovolgimento del dramma operato da Liolà, diventa leggero. Merito anche di una recitazione che in più punti si avvale della soluzione comica di scimmiottare e gesticolare per mettere in ridicolo alcuni personaggi, sottolineandone l’esagerazione. Ma è la notevole partecipazione di Anna Malvica ad aumentare il valore di questo adattamento. La sua Zia Croce si distingue per verità e forza e perché porta sulla scena una conoscenza e una saggezza popolare che di questa storia ne sono l’anima.

data di pubblicazione:07/02/2020


Il nostro voto:

ALICE E IL SINDACO di Nicolas Pariser, 2020

ALICE E IL SINDACO di Nicolas Pariser, 2020

Il sindaco progressista di Lione (Fabrice Luchinì) dopo una vita dedicata alla politica procede ormai solo per inerzia, ha bisogno di rigenerarsi con nuove idee, in vista forse di un destino presidenziale. Per porre rimedio a questa crisi personale ed esistenziale si fa affiancare da una giovane e brillante “filosofa” (Anaïs Demoustier) che deve rigenerare le sue capacità di pensare … Un confronto fra il pensare e l’agire. Quale è la scelta giusta?

 

Come sopravvivere all’ottundimento della settimana di Sanremo? Fuggire al cinema! E … meglio ancora, scegliere un film intelligente! Alice e il Sindaco ci offre questa doppia opportunità perché è un film, un racconto di rara intelligenza, reso piacevole ed accettabile dalla precisione dei dialoghi, dalla fluidità della narrazione e dalla grazia degli interpreti. Un film che crede nell’intelligenza sia dei propri personaggi che degli stessi spettatori e della storia narrata che ci porta ad una acuta riflessione sul confronto fra pensiero ed azione.

Autore di questa opportunità è Nicolas Pariser, cineasta francese che, dopo il suo esordio nel 2015, con questa sua “opera seconda” di cui è regista e sceneggiatore prosegue il suo studio sul Potere ed utilizza lo sguardo della giovane ed idealista Alice (non a caso questo nome) per scoprire la realtà del mondo della Politica fra cinismo ed abitudine all’esercizio del potere stesso. Uno sguardo sulla vanità del Potere, lo scontro fra impegno e ideali e gli equilibrismi fra etica ed ideologia.

Fin dal titolo stesso il film rimanda al “cinema erudito” di Rohmer (di cui Pariser è stato allievo ed assistente), ad un “racconto filosofico” in cui il dialogo e le parole hanno un ruolo centrale. Ed in effetti il film è girato in modo classico ove ritmo ed accumulo di dialoghi hanno una funzione essenziale, ma, in realtà, si tratta di un film “apparentemente saggio” perché il regista ha l’intelligenza e la bravura di evitare le verbosità eccessive e di non affliggere lo spettatore con considerazioni psicologiche superflue, riuscendo a mantenere il racconto fluido e ritmato. L’autore sa infatti distillare progressivamente il discorso sul Potere, che da “racconto Rohmeriano” diviene ben presto una cronaca pungente della mediocrità ed una denuncia ironica di un sistema i cui vezzi e difetti ci sa dipingere con piccoli sarcastici tocchi, risparmiandoci saggiamente un idillio fra il maturo sindaco e la giovane “filosofa”.

Ciò che sta veramente a cuore al regista è la domanda se si possa o meno coniugare pensiero ideale con la pratica della vita politica. In una parola, quali sono le vere finalità del Potere? Per far tutto ci’ il regista gioca sulle elissi, suggerisce senza approfondire esplicitamente.

Vista la mancanza di azione od intrighi poteva uscirne un film barboso, logorroico e prolisso o troppo intellettuale ed invece, al contrario, il risultato è un film riuscito, comprensibile ed insaporito da uno humour corrosivo e sottile, con dialoghi perfettamente scritti, sempre pertinenti e stimolanti.

Una favola politica sostenuta e resa viva da una coppia di attori eccezionali. Luchinì, si sa, è un mostro sacro che ha un fiuto incredibile per scegliere film che esaltino il suo carisma, quel mix di fragilità ed arroganza che è il suo marchio di fabbrica. Lo si potrà apprezzare o detestare, ma stile e bravura sono inimitabili e quando è sullo schermo è in grado di magnetizzare cinepresa e pubblico. Questa volta poi, sa dosare gli effetti e recita in modo sobrio e contenuto, quasi in sordina, guadagnandone in profondità. La Demoustier, bella e talentuosa è una giusta partner, anche i secondi ruoli sono tutti convincenti e diretti con cura.

Alice e il Sindaco è dunque un film dalle molte qualità, un film intelligente che, anche se non perfetto e con qualche inverosimiglianza, merita di essere visto ed anche rivisto perché fa molto riflettere in tempi di populismo esacerbato o … di insipienza ed incompetenza al potere.

Un film che i politici dovrebbero obbligatoriamente vedere e … dimostrare di averlo anche capito!

data di pubblicazione:07/02/2020


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SEGNALE D’ALLARME, LA MIA BATTAGLIA VR , diretto e interpretato da Elio Germano con la co-regia di Omar Rashid

SEGNALE D’ALLARME, LA MIA BATTAGLIA VR , diretto e interpretato da Elio Germano con la co-regia di Omar Rashid

(Teatro Argot Studio – Roma, 4/16 febbraio 2020)

Un esperimento che esce fuori dai confini del teatro e entra quelli del cinema. Spettacolo dal vivo? Solo in parte ma estremamente inquietante. Nel resto nel XXI secolo le Muse sono estremamente flessibili…

La forma fa il contenuto. Sembra di salire su un aereo. Istruzioni per l’uso: indossare i visori, al momento giusto munirsi di cuffie e guardare un puntino fino a che non scompare. Poi una scena differita, quella performata da Elio Germano, tradizionalmente più attore di cinema che di teatro, in uno spazio scenico del 2019 a Riccione. Qui riprodotto come fosse un 3 D, con pubblico finto di attori. Il visore ti mette in prima fila, con una visione a 360 gradi e completamente isolato dalla reazioni (dai trasalimenti degli altri spettatori), isolati come te. L’inizio sembra quello di one man show, un po’ cabaret, un po’ chiacchierata di amici e ti chiedi: solo queste banalità? Ma il discorso monta progressivamente. Sulle ingiustizie comminate dalla maggioranza, sul valore delle competenze, disseminando a pioggia profezie di destra sul mondo contemporaneo. E precipiti sempre più in un abisso di pregiudizi, di razzismo, di incompatibilità, in un coacervo di pensieri politicamente scorretti. Alla fine Germano non passeggia più tra il pubblico ma monta sul palcoscenico e si produce in una focosa arringa, sempre più stringente ed oltranzista. Fino a svelarti che la seconda parte dell’apologo è ripresa pari pari dal Mein Kampf di Heil Hitler. Dunque si produce in una sorta di esorcizzazione di coscienze che ritiene in gran parte atrofizzate. La tecnologia dell’evento è una sorta di psicodramma e una metafora dei tempi visto che un italiano su tre sembra positivamente orientato verso queste ideologie. Germano era presente poi alla prima nel piccolo ma efficiente teatrino capitolino per una sorta di confronto con il pubblico a cui sfuggirà nelle altre serate. Del resto la differita è diventata un obbligo perché le recensioni e il passaparola hanno svelato in anticipo il piccolo trucco ideologico dell’operazione (amplificato dagli applausi dei realmente presenti) e dunque vanificato l’effetto sorpresa con una maieutica che perdeva inevitabilmente di valore.

data di pubblicazione.05/02/2020


Il nostro voto:

70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

logo(Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

È stata presentata ufficialmente la giuria internazionale che affiancherà Jeremy Irons, già presidente, nella valutazione dei film in concorso per l’Orso d’Oro:

Bérénice Bejo, attrice argentina naturalizzata francese diventata famosa per The Artist, accanto all’attore Jean Dujardin. Il film fu presentato nel 2011 al Festival di Cannes ed ottenne ben 5 premi Oscar. In questa occasione la Bejo aveva ottenuto una nomination mentre nel 2013 a Cannes ricevette il premio come miglior attrice per la sua interpretazione nel film Il passato di Asghar Farhadi.

Bettina Brokemper, produttrice tedesca dal 2003 a capo della società di produzione Heimatfilm da lei stessa fondata. Ha prodotto diversi film di successo come La sposa siriana di Riklis nonché diversi lungometraggi dei due registi danesi Lars von Trier e Thomas Vinterberg, entrambi fondatori della corrente cinematografica Dogma 95.

Annemarie Jacir, regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica palestinese. Dopo essersi formata presso la Columbia University di New York ritornò in Palestina dove presentò il suo primo film Il sale di questo mare che le procurò l’espulsione dal suo paese da parte delle autorità israeliane. Con il suo secondo lavoro Quando ti ho visto, fu riabilitata ed ora risiede stabilmente nella città di Haifa.

Kenneth Lonergan, sceneggiatore, drammaturgo e regista statunitense che nel 2017 vinse l’Oscar per migliore sceneggiatura originale con il film Manchester by the Sea. Precedentemente, nel 2002, aveva ottenuto una nomination agli Oscar, sempre per la sceneggiatura, in quanto co-autore insieme a Jay Cocks e Steven Zaillian per Gangs of New York di Martin Scorsese.

Luca Marinelli, attore italiano che non ha bisogno di grandi presentazioni. Ricordiamo solo che esordì nel 2010 con La solitudine dei numeri primi, diretto da Saverio Costanzo mentre nel 2015 vinse il David di Donatello per il film Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. Nell’ultima Biennale del Cinema di Venezia ha vinto la Coppa Volpi come miglior attore nel film Martin Eden, regia di Pietro Marcello.

Kleber Mendonca Filho, regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico brasiliano. Firmò nel 2012 il suo primo film Il suono intorno, mentre nel 2016 presentò a Cannes Aquarius con protagonista Sonia Braga. Nel 2017 era presidente della giuria della Settimana Internazionale della Critica del Festival di Cannes.

Dopo queste ultime informazioni non rimane che attendere con noi di Accreditati il giorno 20 Febbraio per la presentazione del film di apertura, My Salinger Year del regista canadese Philippe Falardeau, di questa attesissima edizione della Berlinale.

data di pubblicazione:05/02/2020