VOLEVO NASCONDERMI di Giorgio Diritti – BERLINALE 2020

VOLEVO NASCONDERMI di Giorgio Diritti – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

La storia di Antonio Ligabue sin dai tempi dell’infanzia in Svizzera dove, figlio di un’emigrante italiana, era stato adottato, sino all’espulsione che lo porta in Emilia dove inizia a vivere come un vagabondo in una capanna sul fiume Po, maltrattato e deriso da tutti per la sua disabilità fisica e psichica. Un emarginato che ha fatto della propria arte un motivo di vanto personale e di riscatto sociale per arrivare ad essere quello che desiderava profondamente e che sentiva di essere: un artista.

 

 

Giorgio Diritti, bolognese doc, è un regista che produce poco ma quello che fa è sempre di grande livello come è dimostrato dai suoi precedenti film e documentari, tutti super premiati in vari festival internazionali. Volevo nascondermi, presentato alla Berlinale in anteprima mondiale ed in concorso, non è un lavoro comune ma rientra nella categoria di quei film che lasciano sicuramente un’impronta nella storia della cinematografia internazionale. Il merito del regista è sicuramente quello di presentarci un artista nella sua dimensione più arcaica, quasi primordiale, inquadrandolo in quella parte d’Italia della Bassa Padana, al sud del fiume Po, in un contesto geografico e storico particolare (siamo in pieno periodo fascista) che rimanda a Novecento di Bernardo Bertolucci. Ligabue vive emarginato in una capanna lungo il fiume nutrendosi di ciò che trova, ma proprio lì inizierà anche la sua formazione artistica, dal contatto con la natura e dall’osservazione degli animali, e non certamente dalla storia più nobile ed alta delle Accademie. Dopo essere stato espulso dalla Svizzera, questo uomo si trova in un posto dove non viene capito né inizialmente accolto, e dove ha persino difficoltà ad inserirsi in un ambiente sia pur contadino e pressoché analfabeta come era quello emiliano di quegli anni. Per Ligabue l’unica possibilità di espressione è rappresentata dai sui quadri, dai colori forti ed aggressivi, una forma di pittura che rappresenta forse l’unico modo per tirarsi fuori dal buio in cui è sempre vissuto e dove non c’è stato mai spazio per un gesto di affetto né per una semplice carezza: “volevo nascondermi…ero un uomo emarginato, un bambino solo, un matto da manicomio, ma volevo essere amato”.

Elio Germano è Ligabue, e lo è non solo nella somiglianza fisica ma soprattutto nell’animo che l’attore riesce ad esprimere sin dalla prima scena, con un bagaglio di sofferenza mista ad una struggente tenerezza, innata ma mai nutrita dall’amore di nessuno. All’attore va il merito indiscusso di essere riuscito ad entrare nel personaggio in un modo talmente stupefacente da trasmettercene l’autenticità, senza costruzioni né forzature, ma con una naturalezza da grande interprete riuscendo nell’ardua impresa di farci cogliere la personalità ed il carattere decisamente complessi di questo grande pittore. Volevo nascondermi è un film che coinvolge sin dal primo momento, sino a portare lo spettatore ad una commozione profonda.

Ci auguriamo che proprio a partire da questa Berlinale questo splendido lungometraggio di Giorgio Diritti faccia molto parlare di sé.

data di pubblicazione:22/02/2020








AH L’AMORE L’AMORE di Antonio Manzini- Sellerio Editore, 2020

AH L’AMORE L’AMORE di Antonio Manzini- Sellerio Editore, 2020

Premiato dalle classifiche per un classico sposalizio meritato tra qualità e quantità il volumetto irrompe piacevole come un’abitudine di lettura consolidata. Chi si vuol togliere la soddisfazione di leggere una nuova puntata della saga di Rocco Schiavone prima che deflagri in televisione può immergersi in questo piacevole best seller (e long seller, sono oltre trecento pagine!) di un ex attore che dopo la parola recitata (e doppiata) in quella scritta ha trovato la propria esatta dimensione, coltivando la passione per pubblicazioni che si susseguono semestralmente, incalzato dal successo ma anche dalla propria ispirazione. Qui ritroviamo Schiavone alias Giallini (ormai siamo abituati a pensarlo con quella faccia) convalescente in ospedale dove si dipana un caso che è trippa per i suoi gatti (i suoi assistenti). Grande caratterizzazione d’assieme con il tormentone della vicenda extra personal/professionale borderline che vive un’altra puntata dentro una storia esauriente. La bravura narrativa, la capacità di tenere alta la tensione nel plot come una particolare e istintiva capacità di domare i dialoghi, sono i punti di forza del giallo che non riserva particolari sorprese investigative riservando grande spazio per un’azione già forse pensata cinematograficamente. Rocco Schiavone è solo ma non isolato anche se Aosta gli sta stretta. Le apparizioni della moglie scomparsa sono un omaggio alla malinconia e al vissuto del personaggio, gli regalano spessore. Il vice-questore è sempre lui. Con le sue umane debolezze, con i suoi spinelli, con la voglia di evitare rotture di scatole, con l’ubbia per i propri dipendenti e il contrastato rapporto con i superiori. Umano molto umano ma non troppo umano, parafrasando Nietsche. Inutile dire che un ennesimo caso sarà risolto ma senza la retorica dell’happy end con un fondo di simpatia per le umane cose e la loro piccolezza. Un senso di relatività per una storia da cui ci si può anche distaccare, risucchiati dalla simpatia inevitabile per Schiavone.

data di pubblicazione:21/02/2020

IL SIGNOR CARDINAUD di Georges Simenon – Biblioteca ADELPHI  2020

IL SIGNOR CARDINAUD di Georges Simenon – Biblioteca ADELPHI 2020

Ancora un Simenon, (un “Romans-Romans”, come li definiva l’autore stesso, scritto tra il 1941 ed il 1942 anno in cui è stato dato alle stampe) appena uscito in libreria per i tipi di Adelphi che meritoriamente sta procedendo alla traduzione e pubblicazione di gran parte delle opere dello scrittore belga. Uno di quei “Romanzi Duri” in cui Simenon, quasi fosse un entomologo, passa sotto la sua lente di attento osservatore la vicenda umana che, di volta in volta, viene da lui rappresentata in tutta la durezza della realtà, quale che essa sia, per raccontare a noi lettori cosa sia avvenuto, perché sia avvenuto e, soprattutto, cosa ciò che è avvenuto abbia poi causato e determinato nell’esistenza delle persone osservate.

Il libro in esame è un piccolo-grande Simenon, la storia è così semplice da apparire banale, e lo sarebbe se fosse raccontata da chissà chi, ma, raccontata dal nostro Simenon essa diviene subito ben altro. Ciò che rende difatti fascinoso il suo narrare, pur sempre nel suo solito stile asciutto ed essenziale, non è infatti l’originalità della storia ma l’acutezza psicologica con cui sono disegnati in tutta la loro commovente umanità i personaggi. Personaggi che sono così veri da essere simili alla realtà quotidiana che i lettori possono incontrare o, temere di incontrare nella Vita.

Il Signor Cardinaud è un marito, un padre, un professionista di provincia convinto di avercela fatta ad emergere, è pago della sua realtà piccolo borghese: la casa, la moglie, i saluti in piazza la domenica dopo la Messa, i dolci prima del pranzo festivo e poi la passeggiata pomeridiana… Ma Marta, moglie e madre all’apparenza irreprensibile, quella domenica non è in casa, è fuggita con un vecchio amico d’infanzia, un poco di buono. Il velo delle illusioni si squarcia e Cardinaud, mentre tutti sanno, tutti lo deridono, resiste alle umiliazioni, alla vergogna e forte del suo amore, ricerca la moglie, scoprendo così un mondo volgare e violento da cui la sua condizione sociale l’aveva tenuto lontano. Può sembrare tutto molto patetico, ma non lo è affatto, al contrario è una consapevole discesa agli inferi di un uomo che forse è un debole ma che scientemente segue il suo destino di innamorato e le sue convinzioni fino all’insolito ma amaro happy-end.

Un eccellente romanzo di atmosfere scritto con incisività incalzante, che fu molto apprezzato all’epoca e da cui fu tratto nel 1956 un film di particolare successo Sangue alla testa con addirittura il grande Jean Gabin nei panni del signor Cardinaud.

data di pubblicazione:21/02/2020

MY SALINGER YEAR di Philippe Falardeau – BERLINALE 2020

MY SALINGER YEAR di Philippe Falardeau – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

Joanna sbarca a New York con la grande aspirazione di diventare un giorno una scrittrice. Siamo a metà degli anni novanta e non è certamente facile per una giovane donna trovarsi da sola ad affrontare tutta una serie di difficoltà pur di realizzare il proprio sogno. Il lavoro come assistente di Margaret, a capo di un’importante agenzia letteraria, sarà per Joanna una buona opportunità per entrare in un mondo a lei sino ad allora sconosciuto…

 

My Salinger Year, del regista e sceneggiatore canadese Philippe Falardeau, apre questa settantesima edizione della Berlinale. Un film leggero, una tipica commedia american style divertente, niente affatto superficiale, che ci porta in una New York degli anni novanta ancora tradizionalmente legata ai propri principi sociali, ma già pronta per accogliere quella rivoluzione socio-culturale che sarebbe presto scaturita con l’avvento e la diffusione di Internet. Joanna lavora in una prestigiosa agenzia che cura gli interessi di scrittori di grosso calibro quali F. Scott Fitzgerald, Agatha Christie e Dylan Thomas, ma il suo compito è quello di raccogliere accuratamente le decine di lettere che ogni giorno arrivano per J. D. Salinger da parte dei suoi numerosi fan, leggerle per poi cestinarle, con il divieto categorico di rispondere. La ragazza trova una realtà dove non tutto procede con regolare razionalità e senza volerlo entrerà nel mondo del giovane Holden, protagonista appunto del romanzo di Salinger che agli inizi degli anni cinquanta, appena pubblicato, diventò un best seller in tutto il mondo. Il film ci vuole ricordare come i giovani di quella generazione non si sottrassero al fascino di un giovane, appena sedicenne, che con il suo spiccato senso critico, ma psicologicamente emotivo e fragile, si sarebbe comunque ribellato a un establishment deviato, tipico della società americana di quel tempo. Margaret Qualley, appena reduce dal successo per la sua partecipazione nel film C’era una volta a…Hollywood di Quentin Tarantino, nel film interpreta una intensa e spontanea Joanna, riuscendo ad esprimere al meglio le emozioni di questa giovane ambiziosa e sognatrice, che si trova catapultata in un mondo nuovo ma ancora decisamente condizionato dal passato. Sigourney Weaver interpreta invece Margaret, capo dell’agenzia, ed è perfetta nel ruolo della donna in carriera, rigida verso qualsiasi iniziativa che non nasca direttamente da se stessa. My Salinger Year ha tempi e ritmi giusti, senza lungaggini e inutili divagazioni, mirando alla vera essenza delle cose e dei sentimenti.

Un buon inizio per questa attesa edizione della Berlinale che, come già annunciato nel nostro articolo di apertura, sarà piena di interessanti novità per la presenza del nuovo direttore artistico Carlo Chatrian.

data di pubblicazione:20/02/2020








NEANCHE IL TEMPO DI PIACERSI di Marco Falagusta, Tiziana Foschi e Alessandro Mancini, con Marco Falagusta, regia di Tiziana Foschi

NEANCHE IL TEMPO DI PIACERSI di Marco Falagusta, Tiziana Foschi e Alessandro Mancini, con Marco Falagusta, regia di Tiziana Foschi

(Teatro della Cometa- Roma, 19/29 febbraio 2020)

Comicità romana su temi nazionali espressa con finezza e senza grevità. Dal personale al politico, con levità e acutezza. Battute che vanno a segno grazie a tempi comici azzeccati.

One man show per una comfort zone da cabaret. E il valore aggiunto di funzionali musiche e di uno scenario da stazione del treno. Dove i vagoni e le soste sono altrettanti argomenti. Falaguasta tiene la scena con padronanza ruotando attorno al fil rouge del rapporto con la figlia, cartina di tornasole per interpretare la cosiddetta modernità o, meglio, l’abisso generazionale che separa un cinquantenne come lui da pargoli che pretendono di essere prelevati in discoteca attorno alle 3 di notte o essere scortati in feste misteriose sulla Giustiniana. Il fondale di Roma con la sua burocrazia immobile, il suo cinismo e le sue mollezze, è lo scenario ideale dello storytelling che prende corpo, vigore e concretezza quando accenna al rapporto del cittadino con le banche. Luoghi in cui sei un numero fino al momento in cui minacci di chiudere il conto. Ed è il momento che il direttore si dirige verso di te con fare affettuoso deciso a tutti i costi a recuperarti alla causa. Risate fragorose a scena aperta alla prima per uno spettacolo già rodato, definito nella sua organicità. Che contiene alla fine una nota estremamente malinconica. Per farci capire che non è solo cabaret ma anche teatro. La figlia silente ascolta le tristi considerazioni del padre la cui vita è ruotata tutta attorno alla parola, scritta o recitata e si vede replicare la risposta con messaggi vocali, la fine degli iperconnessi. La crisi dei padri è quella di chi non ha vissuto né il ’68 né il ’77 ed è scesa in piazza al massimo per festeggiare la vittoria dell’Italia nei mondiali di calcio del 1982. Carenze che diventano penuria e mancanza di trasmissione educativa ai figli. Con un palese e amaro senso di vuoto.

data di pubblicazione:20/02/2020


Il nostro voto:

CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, ideazione e drammaturgia di Fabrizio Gifuni

CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, ideazione e drammaturgia di Fabrizio Gifuni

(Teatro Vascello – Roma,18/23 febbraio 2020)

Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro veniva ritrovato nel portabagagli di una Renault 4 in via Caetani, a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e da quella del Partito Comunista Italiano. La fine più amara di un rapimento e di una prigionia durata 55 giorni durante i quali lo statista decise di comunicare con il mondo, avviando un dialogo con familiari, amici, colleghi di partito, rappresentanti delle istituzioni. Lettere e memoriali redatti con passione e lucidità, di denuncia e di affetto che, a distanza di quarant’anni, Fabrizio Gifuni evoca con una lettura intima e forte, riconducendoci in quello spazio denso e doloroso, in quella storia che tutti conoscono e che molti hanno provato a cancellare.

 

Con il vostro irridente silenzio è una delle espressioni che Moro usa in una sua lettera per distaccarsi, in punto di morte annunciata, da quelli che sono stati i suoi colleghi di partito, quella classe politica a cui aveva dedicato la propria esistenza.

Il 16 marzo 1978, giorno in cui le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, si votava la fiducia al quarto Governo presieduto da Giulio Andreotti. Per la prima volta il Partito Comunista partecipava alla maggioranza parlamentare che avrebbe sostenuto l’esecutivo. Ed era stato Moro a gestire l’accordo. In quei lunghi giorni di prigionia il presidente della Democrazia Cristiana ha il tempo ma anche la necessità di redigere un memoriale che lo accompagnerà inesorabilmente, assieme agli interrogatori da parte del brigatista Mario Moretti. Documenti scritti di suo pugno e resi noti alcuni durante il sequestro, altri ritrovati in via successiva in un covo delle Brigate Rosse, mentre la stampa metteva in discussione e cercava di screditare quelle stesse parole. Pensieri e minuziose descrizioni che rappresentano un testamento politico e spirituale dello statista e dell’uomo, i suoi principi e le sue angosce, i suoi affetti e le sue condanne. Un fiume in piena che si cercò subito di arginare, ridimensionare, irridere. Ferendo ancora di più il suo credo. A distanza di quarant’anni ancora tanto oblio e superficialità intorno a quegli scritti.

La voce ed il minuzioso lavoro drammaturgico di Gifuni va nella direzione di chi ha scelto di non dimenticare.

Straordinaria la sua capacità di proiettarci in quell’atmosfera sospesa, tra quelle mura, a stretto contatto con l’uomo, con i suoi gesti, il suo incedere, la sua voce, il suo dolore. Fabrizio Gifuni riporta in maniera delicata e decisa il bisogno di quell’uomo di mettere a posto tutti i tasselli, di rispondere a chi è al di là di quella prigione, di confessare e accusare, di definire le sue volontà, sia nel versante politico che in quello familiare. Un dramma diffuso senza gradi di separazione, grazie alla forza di un teatro essenziale che scuote e racconta, insegnando a riflettere e a ricordare.

data di pubblicazione:20/02/2020


Il nostro voto:

CASE DI VETRO di Louise Penny – Einaudi Stile Libero 2020

CASE DI VETRO di Louise Penny – Einaudi Stile Libero 2020

Parafrasando il titolo di un buon film ancora nei cinema, potremmo iniziare con Il Mistero Louise Penny. Come nel film, stiamo forse assistendo a giochi di marketing? Alla nascita indotta di un successo editoriale? … Un mistero! Un mistero di un’autrice 62enne molto conosciuta ed apprezzata in Canada e nei paesi anglofoni ma quasi sconosciuta in Italia. Una quasi sconosciuta da 6 milioni di copie di libri sulle inchieste di Armand Gamache, Ispettore Capo della Sureté del Quebec, dall’esordio nel 2005 ad oggi: 14 volumi dopo! Quasi sconosciuta perché, in realtà, della scrittrice erano già usciti per i tipi PIEMME due suoi romanzi nel 2013 e nel 2017, senza però suscitare interesse nel grande pubblico. Con la pubblicazione nella primavera scorsa da parte di EINAUDI di Case di Vetro (il 13° della serie) sembrerebbe invece essersi messo in movimento qualcosa che porta a prevedere, a breve, l’uscita di altri libri dell’autrice in una rincorsa, partendo dalla fine, a recuperare il tempo perduto.

La Penny lavora con mano lieve, il suo stile è scorrevole ed è capace, pur in un mix in cui le emozioni e le riflessioni prevalgono sull’azione, di mantenere la tensione narrativa fino alla fine. E’ sobria, misurata e meticolosa nello scrivere ed i suoi personaggi sono pieni di umanità, colorati e reali. L’Ispettore Gamache è un uomo non più giovanissimo, vecchio stampo anche se moderno, colto, attento ed attuale. E’ una forza tranquilla la cui bonomia è segnata da ben nascoste linee di tenebre che ne fanno un personaggio scettico ma sensibile al tempo stesso, che, più che l’azione, segue la logica deduttiva e, che più che le armi, preferisce usare la mente. Un mix di reminiscenze inglesi con Hercule Poirot, Sherlock Holmes e francesi con Maigret (non a caso siamo nel Quebec anglofrancese). Se ci si lascia andare alle atmosfere sospese nel tempo, del tutto desuete nei gialli attuali che sono invece ritmati dal succedersi incessante di azione e colpi di scena, se ci si lascia affascinare da come un’inchiesta possa svolgersi quasi con discrezione, senza grandi brividi e con storie un po’ fuori del comune ma sempre puntellate da buoni dialoghi e bei personaggi … si potrà anche finire con l’affezionarsi all’Ispettore Gamache.

Lo spunto di Case di Vetro è interessantissimo e stimolante: subito dopo la festa di Halloween una figura mascherata, nerovestita mette a disagio ed impaurisce gli abitanti, con la sua sola incombente e muta presenza nella piazza del piccolo idilliaco villaggio di Tre Pini, non lontano da Montreal. Lo spunto, al di là dell’incrociarsi di omicidi, di processi ed inchieste, ed alternarsi di presente e passato, serve a svelare fatti in cui la coscienza di tutti, Gamache compreso, sarà messa a nudo. Una riflessione sulla Legge, sulla Coscienza come valore supremo, sugli abusi e manipolazioni della Legge stessa, “Si può infrangere la Legge per una giusta causa?”. Tutt’attorno un microcosmo di personaggi che fanno da “coro” e da contraltare all’evolversi lento ma progressivo della suspense. Un buon polar con il gusto di una volta. Difficile però, dopo soli tre libri, e con 13 libri di ritardo, dire se la ricetta sia fresca oppure ripetitiva, ma gli ingredienti per il successo, sia pure a “ritmo di valzer lento”, ci sono tutti. Vedremo a breve.

data di pubblicazione:18/02/2020

LA NOTTE PIU’ LUNGA di Michael Connelly – ed. PIEMME 2020

LA NOTTE PIU’ LUNGA di Michael Connelly – ed. PIEMME 2020

Michael Connelly è uno dei maggiori scrittori di crime stories, un vero narratore naturale. Nessuna necessità di presentare oltre un autore i cui romanzi polizieschi si susseguono ormai da decenni senza che mai la qualità e l’interesse vengano meno. Come è possibile tutto ciò? Cosa fa la differenza con gli altri autori di cui abbiamo parlato recentemente? Basta arrivare appena alla terza/quarta pagina del libro ed ecco davanti a noi la risposta: il lettore è già catturato, una storia ben costruita, ritmo serrato ed avvincente fin dalle prime righe, atmosfere realistiche dettagliate e dinamiche in cui si viene condotti con mano sicura passo dopo passo, le situazioni, le ansie sono vere e si succedono tenendo sempre col fiato sospeso. Si entra subito nell’universo di Connelly e si è presi dal desiderio di sapere come vanno a finire le inchieste. Inchieste che sono sempre ben descritte senza superficialità, tutte le storie funzionano, sia quella principale che le digressioni parallele. L’immersione è totale, sempre!

In quest’ultimo romanzo il personaggio feticcio, il leggendario detective Harry Bosch è ormai in pensione, incomincia ad essere ed anche a sentirsi anziano ed a dubitare di sé, incontra fortuitamente la giovane detective Renée Ballard, (appena apparsa nei due ultimi romanzi) ed intorno ad un cold case nasce pian piano una fiducia reciproca ed una possibile futura partnership. Dall’incontro non si perdono né le qualità consolidate di Bosch, né si annacquano quelle in via di definizione della nuova eroina ai cui contorni lo scrittore riesce già a dare personalità ed umanità. Sono entrambi due solitari, indipendenti, testardi e ribelli alle gerarchie. Lei è solo più giovane e più sportiva. In breve, Connelly fa invecchiare Bosch che ha ormai quasi 70 anni, e procede così ad una attualizzazione dei contesti, ma fa del “nuovo” usando e mantenendo però il “vecchio”. La nuova eroina è solo il pendant femminile e giovanile di Harry.

Definiti i nuovi contorni resta lo stesso piacere di sempre nel seguire un’inchiesta che prende sempre più ritmo e diviene mozzafiato, non ci si annoia un secondo nell’avanzare millimetrico verso la conclusione con una tensione che regge fino alle ultime pagine senza mai ricorrere ad artifici, in un perfetto dosaggio fra l’intrigo e la vita privata dei protagonisti. Un romanzo ben confezionato, credibile ed efficace. Anche questa volta la qualità è eccellente. Un ottimo poliziesco.

data di pubblicazione:16/02/2020

IL RE MUORE di Eugène Ionesco, adattamento e regia di Adriana Trapanese

IL RE MUORE di Eugène Ionesco, adattamento e regia di Adriana Trapanese

(Teatro San Genesio – Roma, 12/16 febbraio 2020)

Una fluente riduzione di un classico poco rappresentato. Con ricche e accurate scenografie e un pregevole lavoro di asciugatura del testo, frutto del lavoro di un anno..

Il Re Muore è il leit motiv di un testo estremamente attuale che, non modificato rispetto all’originale, appare come una veridica metafora della società contemporanea e della condizione umana. Il re muore attimo per attimo, in presa diretta con il countdown dei secondi scanditi in diretta dal maestro rumeno. Opera matura del commediografo che qui stabilisce un perfetto equilibrio tra forma e contenuto, con frequenti divagazioni ironiche e rimandi al pubblico in platea. Ensemble teatrale funzionale con livelli di recitazione omogenei e non dissonanti. Il tragico è in equilibrio con il sublime, con uno spegnimento fisiologico che è anche politico, morale, vortice di dissoluzione in un contrasto di atteggiamenti di tutti quelli che gli stanno vicini: la prima moglie, la seconda moglie, la serva, il medico, la guardia. Caduta progressiva di un sovrano, specchio dell’umanità nel suo lento digradare verso la morte. Una favola gotica e polisemantica di sorprendente attualità, vista l’aria del tempo. Il linguaggio punta all’essenziale. Ionesco appare quasi preveggente nel prefigurare la penuria esistenziale oggi molto rappresentata nell’era del coronavirus e del Grande Dubbio climatico: evidenze che certo non si potevano immaginare e concepire circa sessanta anni fa. Teatro nel teatro, efficace esplorazione nei meandri della nostra psiche, insinuando il dubbio che la realtà sia sogno e/o viceversa. Il Re che tutto ha fatto e tutto poteva è diventato un piccolo fuscello che la storia si appresta a spazzare via. Crolla spesso in scena ma senza forzare la recitazione a grossolane caricatura di un declino. Rimandando a forti dubbi sul significato ultima dell’esistenza e della testimonianza che possiamo lasciare con parole ed opere della nostra vita.

data di pubblicazione:15/02/2020


Il nostro voto:

L’ISTANTE PRESENTE di Guillaume Musso – La Nave di Teseo 2020

L’ISTANTE PRESENTE di Guillaume Musso – La Nave di Teseo 2020

Mussò da quando ha esordito in Francia nel 2004/05 è uno scrittore, con oltre 35 milioni di copie vendute nel mondo, che ha inanellato da allora ad oggi mediamente un libro l’anno, quasi tutti best seller più volte adattati per TV e Cinema. Il suo è uno stile letterario accattivante e moderno capace di dare ritmo a storie ove in genere si mescolano, con molta scaltrezza, suspense ed emozioni, fantastico e realtà con atmosfere poliziesche da noir. L’autore è entrato nelle classifiche delle vendite italiane solo da alcuni anni e la casa editrice, cavalcando l’opportunità, ha tradotto e dato alle stampe per Natale anche quest’ultimo libro, che, in realtà, era già uscito in Francia nel 2015.

L’Istante Presente non è né un thriller né tantomeno un noir, semmai è un insolito fantasy. Ambientato a New York narra le suggestive vicende di un giovane medico che colpito da “una sorta di maledizione” è costretto per 24 volte, dal 1991 al 2015, a salti temporali senza poter, di conseguenza, vivere in continuità una vita di affetti normali, e così via fino al suo ultimo viaggio nel tempo oltre il quale non si sa cosa accadrà.

Lo spunto, pur se non originalissimo, non è banale ed il lettore viene inizialmente catturato dall’intrigo e da un clima di sospensione onirica, ma, la mancanza di solidità e spessore dei personaggi appena abbozzati e la ripetitività delle situazioni fanno cadere il mordente già a metà percorso, generando una sensazione di vuoto. Manca l’azione, manca l’empatia con la storia, fino ad arrivare poi ad una conclusione sconcertante che più finta non può essere. Quel che può apparire un colpo di scena geniale è, al contrario, un finale banale che apre ad un risvolto psicoanalitico e metaforico sull’egoismo dello scrittore troppo impegnato per riuscire a vivere la sua vita, i suoi dolori e le sue gioie. Uno scrittore che scrive di uno scrittore come già in La ragazza di carta e in Central Park. Far terminare così i propri libri non è un elemento distintivo autoriale, ma piuttosto una caduta di qualità narrativa, una delusione, in totale incoerenza con la storia raccontata cui viene quasi appiccicata quale messaggio moralistico. Alla fine sembra sempre lo stesso libro: … una storia fantastica, un amore difficile, un colpo di scena con poco mordente. Mussò ha sì un certo qual talento, ma un romanzo l’anno è troppo per tutti, anche lui dovrebbe avere il coraggio di scrivere di meno e scrivere meglio e di osare di uscire da sentieri ormai battuti e ribattuti.

data di pubblicazione:14/02/2020