BERLINALE [4] – SYSTEMSPRENGER di Nora Fingscheidt, 2019

BERLINALE [4] – SYSTEMSPRENGER di Nora Fingscheidt, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Bernadette, o Benni come lei preferisce farsi chiamare, è una bambina di nove anni dall’aspetto delicato ma dotata di una terribile energia distruttiva verso tutto ciò che la circonda. La si può definire una “system crasher” termine che viene usato per descrivere quei soggetti che rifiutano qualsiasi tipo di regola e che pertanto sono destinati a essere rinchiusi in centri sociali speciali. Ma in famiglia o, peggio ancora, nei vari centri di accoglienza in cui è stata ospitata, non si riesce a calmare la sua rabbia e a infonderle quel sentimento di fiducia verso coloro che tutto sommato le vogliono bene e che si prendono con impegno cura di lei. L’unica cosa che consentirebbe a Benni di comportarsi in maniera normale sarebbe la possibilità di tornare a vivere con la madre e suoi fratellini.

 

 

A Berlino con il suo primo lungometraggio, la regista tedesca Nora Fingscheidt si occupa di una bambina a dir poco problematica, in quanto Benni (egregiamente interpretata dalla bravissima Helena Zengel) non solo è iperattiva ma è anche dotata di una incredibile dose di violenza che non esita a manifestare verso tutti coloro che la circondano, grandi e piccoli. Il film è un piccolo dramma con al centro della scena la giovane protagonista che riesce a coinvolgere il pubblico che non può che seguire con una certa apprensione tutta la sua odissea, che si svolge tra un istituto e una casa di accoglienza, in cui nessun metodo adottato riesce ad aver presa su di lei. Allo stesso tempo la storia è anche una disperata dichiarazione d’amore che la piccola tenta in ogni maniera di far giungere alla madre, donna debole ma anche l’unica che potrebbe salvarla e che, al contrario, si rifiuta di accoglierla in famiglia in quanto la ritiene pericolosa e di cattivo esempio per i suoi fratelli. Quando vediamo la bambina sottoposta ad ogni tipo di accertamento medico per scoprire quale malattia nervosa possa causare i suoi comportamenti fuori controllo, scopriamo un corpo pieno di ferite che farebbero pensare ad abusi sulla sua persona, ma che al contrario sono l’espressione concreta, tangibile, di un senso di colpa che la piccola prova e che sconta sul proprio corpo perché si ritiene incapace di conquistarsi l’affetto della madre, unica persona a cui lei tiene veramente. E così quella violenza indiscriminata verso tutti “gli altri”, è un modo per mascherare tanta infelicità e disperazione per non riuscire a tornare nella sua casa.

Systemsprenger è un film delicato, una eccellente prova registica di sensibilità verso l’infanzia calpestata, poco rispettata, alla quale non si riesce a dare attenzione e affetto necessari per una vita dignitosa.

L’interpretazione di Helena Zengel è di altissimo livello come quella dell’intero cast che ruota intorno alle vicende della piccola Benni: una storia terribilmente vera che lascia la sensazione di un vuoto inconsolabile.

data di pubblicazione:10/02/2019








THE MULE (Il Corriere) di Clint Eastwood, 2019

THE MULE (Il Corriere) di Clint Eastwood, 2019

Tratto da un articolo comparso sul New York Times, la storia è quella di Earl Stone, anziano floricoltore in disgrazia che, cooptato da un cartello di trafficanti, in virtù della sua abilità nella guida del suo pick-up (con cui ha raggiunto 41 stati su 50 senza mai prendere una contravvenzione e senza essere mai fermato dalla polizia), diviene un corriere della droga. Ovviamente ci saranno problemi…

 

  

È una storia vera e paradossale, trattata alla maniera dell’ultimo Eastwood, questo gigante della cinematografia, in grado a quasi novant’anni(è del 1930) di sfornare film e interpretazioni di costante altissimo livello. Da quando Sergio Leone lo scherniva dicendo che aveva solo due espressioni da attore “una col cappello e una senza”, l’affascinante cowboy nato nella serie tv Rawhide e assurto alla fama con i western all’italiana dello stesso Leone, ne ha fatta di strada raggiungendo vette autoriali e interpretative, assolute. Regista onnivoro, conservatore in politica, ma capace di trattare temi scomodi a livello sociale come neanche Dalton Trumbo, negli ultimi anni, Clint Eastwood, ha sfornato, da regista, autentici capolavori, cito a caso, le due pellicole su Iwo Jima, Gli Spietati, Mystic River e Gran Torino con il quale, idealmente, si collega il film in questione. The Mule, infatti, al di là della trama apparentemente “nera” (in fondo tratta di attività illegali) è una commedia o se preferite una tenera ballata e il vecchio Earl ricorda moltissimo l’anziano burbero di Gran Torino, questa volta, però, in salsa “light”. I toni prevalenti del film sono infatti leggeri, Clint/Stone, attempato floricoltore dell’Illinois, è una simpatica vecchia canaglia, innamorata più dei suoi fiori che della sua famiglia, ascolta musica country, la canticchia, fa il cascamorto con le donne a prescindere dall’età (sua e delle donne), appena può balla, scherza e gigioneggia. Non è però un personaggio positivo a tutto tondo: è egoista, un po’ vanesio, a volte cinico, e, torto più grave, nella sua lunga vita sa di essersi sistematicamente dimenticato di tutti gli eventi importanti di figli, nipoti e specialmente della devota moglie. Perchè parlare, allora, di commedia o di una ballata sentimentale e non di un noir, perché ad una lettura più attenta sono i temi drammatici a inserirsi in quelli soft della commedia e non il contrario. Anzi, se proprio vogliamo evidenziare difetti, in una pellicola che scorre fluida e leggera per buona parte della durata, questi sono legati alle virate sulle parti drammatiche o su quelle esageratamente “buoniste” (vedi l’incontro con l’agente della DEA o quello al capezzale della moglie morente), forse un logico dazio pagato alla non più giovane età del protagonista e francamente distonico rispetto all’andamento complessivo della pellicola, una sorta di tardiva redenzione …

La storia non è nuova, altri film e fiction (su tutte Breaking Bad) hanno affrontato storie vere e paradossali enfatizzandone il senso grottesco, ma la grandezza di Eastwood sta nell’apparente normalità con cui tratta un tema rischioso e in realtà drammatico come quello della droga e dei suoi cartelli. Ma lo fa, da par suo, con una leggerezza e un’ironia capaci ancora una volta di lasciare il segno. Il Corriere, forse non è un capolavoro, ma certamente un’occasione da non perdere per lo spettatore/trice anche e/o soprattutto perché la sola ingombrante figura del protagonista, alto, ancora bello, elegante, onesto nel non voler nascondere i segni del tempo, in termini di mera presenza scenica, sovrasta gli altri bravi comprimari, tra cui un asciutto Bradley Cooper (l’agente DEA) e una intensa Dianne Wiest (la trascurata moglie).

data di pubblicazione:10/02/2019


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BERLINALE [3] – OUT STEALING HORSES di Hans Petter Moland, 2019

BERLINALE [3] – OUT STEALING HORSES di Hans Petter Moland, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Dopo la morte della moglie a seguito di un incidente stradale, il 67enne Trond Sander lascia Oslo per ritirarsi in un piccolo villaggio nella foresta norvegese. Siamo alla fine del 1999 ed il millennio sta per finire così come sembra finire anche la sua vita e nella più totale solitudine. Una notte riconosce in un uomo, che sta cercando il suo cane davanti la sua piccola casa sommersa dalla neve, un amico della sua infanzia. Questo incontro casuale porterà alla sua memoria il ricordo di un’estate del 1948 quando appena quindicenne aveva trascorso giornate intere ad aiutare il padre a tagliare alberi nel bosco. Per lui quell’anno fu pieno di tanti cambiamenti dal momento che proprio il suo amato genitore si stava preparando a lasciare la famiglia per iniziare una nuova vita.

 

 

 

Il regista norvegese Hans Petter Moland, per la quarta volta qui alla Berlinale con Out Stealing Horses in concorso per l’Orso d’Oro, ha trovato ispirazione per questo suo ultimo lavoro dal romanzo di Per Petterson che da subito ha considerato un piccolo capolavoro letterario, sia per la descrizione meravigliosa che era riuscita a dare del paesaggio norvegese sia per lo studio introspettivo del singoli personaggi del racconto. Ruolo importante per questa ottima riuscita del film è stata l’interpretazione dei due attori Stellan Skarsgard e Jon Ranes, rispettivamente nel ruolo di Trond da anziano e da giovane. La loro fisicità in continuo movimento ben si adatta alla perfezione dell’ambiente incontaminato e apparentemente statico che la fotografia di Rasmus Videbaek riesce a rendere a dir poco poetico. I singoli istanti del presente si alternano ai ricordi del passato per riportare alla memoria gli stessi affetti oramai per sempre andati. Molan si dimostra infatti un maestro nel saper far riaffiorare i ricordi di una adolescenza in cui i sentimenti sembrano faticare a farsi strada e ad esprimersi con spontaneità, e che solo la forza figurativa delle immagini utilizzate riesce in qualche modo a rappresentarli. La storia è anche il pretesto per far ritornare in vita quel nefasto periodo nazista in cui anche la Norvegia oscillava tra uno spirito collaborazionista e quello proprio della resistenza, immagini queste che erano rimaste anch’esse indelebili nella memoria del protagonista.

Il film, così come è stato strutturato, di sicuro farà parlare di sé in questa edizione della Berlinale perché oltre ad usare un linguaggio cinematografico di grande effetto riesce comunque a trasmettere allo spettatore la voglia di esplorare l’intimo degli individui per scoprirne lentamente la vera, sia pur imponderabile, natura.

data di pubblicazione:09/02/2019








IL RACCONTO D’INVERNO di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco

IL RACCONTO D’INVERNO di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco

(Teatro India – Roma, 7/10 febbraio 2019)

Favola tragicomica dell’ultimo Shakespeare, raccontata dalla voce di un bambino, Mamillio, figlio di Leonte, il re ferito dalla gelosia per la moglie Ermione. Storia di perdite e di ritrovamenti improvvisi, di amicizie e amori che il tempo, nei suoi salti, disperde e fa ritrovare.

  

 

Andrea Baracco e Maria Teresa Berardelli affrontano con semplicità e stile la regia di un classico shakespeariano e guidano un gruppo affiatato di giovani artisti, seriamente impegnati in scena nel raccontare una romanza dall’intreccio movimentato e dalle atmosfere fantastiche. Nove gli attori sul palco, molte di più le parti rappresentate per una messa in scena essenziale, ben studiata, fresca nella sua impostazione moderna dei costumi e del linguaggio scenico. La Compagnia dei Giovani del Teatro Stabile dell’Umbria dimostra di avere un buon numero di talentuosi artisti, dalle caratteristiche variegate e dalle ottime voci, pur nella loro percettibile ma non sgradevole breve esperienza. Sono Mariasofia Alleva nel ruolo di Ermione, la regina e sposa creduta infedele, che il marito e re di Sicilia Leonte, Ludovico Röhl, accusa di tradimento solo perché la immagina amante del suo migliore amico Polissene re di Boemia, interpretato da Carlo Dalla Costa, distorcendo la realtà fino a toccare il tragico. Con loro Luisa Borini, nel ruolo di Paulina, l’amica che nasconde la sua amata regina e la fa riapparire solo dopo moltissimi anni in forma di statua, artificio da lei ingegnato per proteggere e salvare l’innocente accusata, per poi mostrarla al momento giusto, quando è certa che davanti a lei si ripresenta il frutto mai goduto di un parto fino a quel momento creduto maledetto, la bellissima figlia Perdita, Daphne Morelli. La scena dello svelamento dell’inganno è una danza benedetta, a parteciparvi è anche Florizel, Edoardo Chiabolotti, figlio di Polissene e Amante di Perdita, figlia di Leonte. Con loro Jacopo Costantini nei panni di Antioco e Autolico, Giorgia Filippucci in quelli di Emilia e della Pastora e Silvio Impegnoso in quelli di Camillo, senza i quali la commedia della seconda parte del racconto non sarebbe stata né lieta né divertente. La voce di Mamillio, che in scena è un pupazzo, è di Adriano Baracco.

Uno spettacolo ridotto ad appena un’ora e mezza, distillato di un’ottima preparazione.

data di pubblicazione:09/02/2019


Il nostro voto:

BERLINALE [2] – GRÂCE À DIEU di François Ozon, 2019

BERLINALE [2] – GRÂCE À DIEU di François Ozon, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Alexandre vive con la moglie e i suoi cinque figli a Lione. Per puro caso un giorno viene a scoprire che il prete, che aveva abusato di lui quand’era un giovanissimo boy scout, ha ancora a che fare con dei bambini nella parrocchia assegnatagli. I terribili ricordi di quella disastrosa esperienza, per tanti anni rimossi, sembrano ora riaffiorare e chiedere giustizia non solo nei confronti di Padre Bernard Preynat, colpevole di aver molestato circa settanta ragazzi, ma anche verso il Cardinale Philippe Barbarin per non aver denunciato il fatto alle autorità competenti.

 

 

Il regista e sceneggiatore francese François Ozon, autore di pellicole di successo internazionale come 8 donne e un mistero, simpaticissima commedia con Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart e Virginie Ledoyen, Potiche sempre con la Deneuve, e poi Giovane e bella, Nella casa, Una nuova amica e tante altre, nel 2009 ebbe il suo debutto qui alla Berlinale con il fiabesco Ricky – una storia d’amore e libertà. Ozon, che della propria omosessualità non ne ha mai fatto un mistero, ha spesso trattato con spirito arguto e critico proprio argomenti che riguardano la sessualità umana. Il film appena presentato in concorso qui a Berlino assume la forma di un reportage su un argomento scottante che investe la società ed il mondo ecclesiastico in particolare, rilanciando con forza quanto la pedofilia sia un problema che debba essere affrontato seriamente dalla chiesa che, ancora oggi, è restia a confessare le proprie colpe nonostante le reiterate raccomandazioni papali. Alexandre (Melvil Poupaud), il protagonista della storia raccontata da Ozon, non si darà pace fino a quando non riuscirà a convincere le altre vittime di Padre Preynat (Bernard Verley) a denunciare alla polizia gli abusi subiti.

Nonostante l’eccessiva verbosità, l’inchiesta narrata nel film riesce a coinvolgere emotivamente perché riguarda un fatto di cronaca vera, che forse troverà il suo epilogo processuale nel mese di marzo di quest’anno. Anche il montaggio di Laure Gardette segue un ritmo veloce che non smorza mai l’intensità della narrazione e che riesce a catturare l’attenzione senza mai scivolare sulla polemica fine a se stessa.

È davvero singolare come il regista sia riuscito ad esaminare la reazione psicologica dei vari personaggi coinvolti ai quali, dopo tanti anni, risulta certamente difficile ammettere ciò che hanno patito, anche sovente a causa degli atteggiamenti reticenti delle proprie famiglie.

Film ben costruito che riesce ad affrontare in maniera intelligente un tema ancora oggi purtroppo di grande attualità.

data di pubblicazione:08/02/2019








BERLINALE [1] –THE KINDESS OF STRANGERS di Lone Scherfig, 2019

BERLINALE [1] –THE KINDESS OF STRANGERS di Lone Scherfig, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino,7/17 Febbraio 2019)

Clara e i suoi due bambini fuggono da casa in cerca di pace e libertà da un marito e padre violento. Lasciata la provincia in auto, li attende una New York gelida dove, non disponendo di risorse sufficienti per procurarsi un tetto ed un pasto decenti, faranno fatica a sbarcare il lunario. Nell’attuare vari stratagemmi per sopravvivere in quella giungla urbana, i tre incontreranno miracolosamente altri individui con le loro stesse difficoltà nell’affrontare il quotidiano, ognuno con il proprio bagaglio di problemi, con i quali troveranno la forza e la determinazione di aiutarsi reciprocamente, tirandosi fuori da una inevitabile solitudine esistenziale.

 

Lone Scherfig è una regista danese che ha trovato proprio qui a Berlino il suo debutto internazionale con il film Italiano per Principianti con il quale nel 2001 ottenne l’Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria. Aderisce ufficialmente al movimento Dogma 95, fondato dai registi Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, un manifesto programmatico di regole cinematografiche che prevede in pratica solo l’utilizzo della telecamera a mano e il rifiuto totale di altri effetti speciali. Il film presentato oggi in apertura della Berlinale centra in pieno una delle tematiche di quest’anno in quanto rivolto essenzialmente alla descrizione di una situazione di crisi all’interno della famiglia, dove sovente la violenza e l’intolleranza che ne scaturiscono vengono riversate sui figli. Come già in An Education del 2009, la Scherfig anche in The Kindness of Strangers sembra prediligere le problematiche intime di persone che riescono a farsi tormentare gli animi nel più profondo, ma che poi riescono ad uscire dal tunnel della disperazione per (ri)trovare una giusta pace. E così Clara (Zoe Kazan) farà fatica a proteggere sé e i suoi figli dal mondo ostile che li circonda, ma la forza di sopravvivenza le darà quella giusta dose di ottimismo che premierà i suoi sforzi. La storia si articola in maniera elementare ed i vari personaggi si muovono come tessere di un puzzle, elementi disarmonici che poi con pazienza trovano la maniera di incastrarsi vicendevolmente per costruire un tutto organico. Ed è proprio la voglia di volersi bene e di aiutarsi a far sì che ognuno possa ottenere ciò che merita. Come in una favola, i buoni dovranno affrontare mille difficoltà ma alla fine la loro bontà verrà ricompensata ed i cattivi avranno la giusta punizione.

Tuttavia, nonostante il cast di tutto rispetto (accanto alla brava Zoe Kazan, nipote del celebre regista Elia Kazan e già nota per altri lavori di successo, abbiamo Andrea Riseborough, Tahar Rahim, Caleb Landry Jones, Jay Baruchel e Bill Nighy), il film non sembra trovare quella giusta dimensione per coinvolgere emotivamente sino in fondo, forse a causa di un plot un po’ scontato e privo di quella forza sufficiente a trasmetterci le elementari regole di savoir-vivre, necessarie per farci comprendere realmente come i personaggi possano destreggiarsi con la dovuta leggerezza nel mondo torbido e buio come quello in cui sono costretti a stare.

data di pubblicazione:07/02/2019







VIKTOR UND VIKTORIA liberamente ispirato al film di Reinhold Schünzel, regia di Emanuele Gamba

VIKTOR UND VIKTORIA liberamente ispirato al film di Reinhold Schünzel, regia di Emanuele Gamba

(Teatro Quirino -Roma, 5/17 febbraio 2019)

Susanne Weber (Veronica Pivetti) è un’attrice in cerca di scrittura nella Berlino anni ’30. L’incontro con Vito Esposito (Yari Gugliucci), un attore italiano migrante in Germania, determinerà finalmente la fortuna di entrambi. Tra equivoci e travestimenti nasce il personaggio di Viktor o, se volete, Viktoria.

 

Copiosi fiocchi di gelida neve cadono sulla scena e rendono ancora più rigida la geometria di prismi, architettura cementizia di una città che appare in fermento solo di notte, quando tutto è permesso, che corrono prospetticamente verso un fondale asettico, piatto, che si colora camaleontico degli umori della scena. A dare vitalità a questo scenario desolante due attori squattrinati, che la strada fa incontrare per destino e per esigenza. Sono una povera attrice di provincia, dalla voce rauca grattata e mascolina, per nulla prosperosa e attraente come il varietà esigeva a quei tempi, e un migrante italiano, appellato con disprezzo come Spaghettifresser (letteralmente animale mangiatore di spaghetti), attore anche lui, che per guadagnarsi da vivere recita e canta travestito da donna per pochi marchi a sera. La fame, l’indigenza e la malattia permette ai due di unire le forze in un sodalizio, nel quale Susanne, interpretata da una divertente esilarante e quanto mai perfetta nel ruolo Veronica Pivetti, fingendosi uomo, inizia a esibirsi nei teatri della città travestita da donna con il nome di Viktor und Viktoria. Protetti da Ellinor Von Punkertin (Pia Engleberth), baronessa dai modi stravaganti che ben conosce i gusti libertini di una Berlino notturna che necessita di essere stordita, per i due cambia la musica ed è subito fama e ricchezza nella tournée in giro nei migliori teatri europei. La neve diventa così simbolo dello scintillare del successo. E arriva anche l’amore, quando a invaghirsi del lato femminile dell’attore en travesti è un nobile conte, Frederich Von Stein (Giorgio Borghetti). I due vengono scoperti e accusati di omosessualità da Gerhardt (Nicola Sorrenti), attrezzista dalle simpatie nazionalsocialiste, esponente di quella lotta contro la libertà di costume tollerata ma ancora punita dalla Repubblica di Weimar. Da qui l’intreccio si complica e si perde in un continuo cambio di ruoli, costumi, scambi di sesso, sensualità e provocazione, ubriachezze e baldoria, fino al lieto fine. Una frustata al retto, puro e onesto pensare offerta da un amore che vince sempre, perché il cuore vola più alto di ogni ideologia o genere. Un testo di sconcertante attualità, reso ancora più vicino a noi attraverso l’uso di un lessico contemporaneo negli intermezzi tra una situazione e l’altra. Una musica che ci aiuta a mantenere vigile l’attenzione su una situazione storica debole, che alza muri e sterilizza le diversità.

data di pubblicazione:07/02/2019


Il nostro voto:

CONNESSI E ISOLATI, UN’EPIDEMIA SILENZIOSA di Manfred Spitzer- Corbaccio editore, 2018

CONNESSI E ISOLATI, UN’EPIDEMIA SILENZIOSA di Manfred Spitzer- Corbaccio editore, 2018

Facebook ha festeggiato i 15 anni di vita. Ma non è stato un genetliaco felice. Il fenomeno di abbandono di gran parte dei due miliardi di utenti sugli oltre sette miliardi di popolazione mondiale è evidente e sotto gli occhi di tutti. Provate a cliccare sul profilo dei vostri amici: alcuni sono morti, altri sono digitalmente scomparsi e non si hanno notizie, altri si sono cancellati dal vostro elenco. La ricerca di Spitzer sembra prendere questa tendenza come un fenomeno positivo. C’è una corrispondenza diretta tra il numero dei link postati da un iscritto e il suo relativo grado di infelicità. La sua lontananza dal mondo reale è certificata da questa apparente vicinanza al mondo digitale. La coesione tra virtuale e reale è una sintesi e una sinergia possibile ma estremamente difficile nella pratica, se non altro per una questione di tempo a disposizione. L’iperconnessione porta a risultati di “stampo giapponese”. C’è chi addirittura muore per questo, travolto da un abisso esistenziale che non sembra lasciare spazio per altri attività. La connessione con il mondo è sintonia che si stabilisce su ben altre frequenze. La solitudine induce al dolore. Un dolore misurabile attraverso esperimenti di laboratorio. Provate a scrivere su facebook a una persona che non vi risponde? Non ne ricavate un senso di profondo e irrimediabile frustrazione? Al contrario la partecipazione alla vita sociale e di comunità allunga la vita. Come pure un matrimonio rispetto alla condizione di single. La risposta femminile al lutto e la sua maggiore aspettativa di vita è direttamente funzionale alla migliore predisposizione alla socialità del soggetto femminile e alla sua migliore risposta interattiva agli stimoli esterni. L’autore crea una corrispondenza tra la solitudine e una percentuale più elevata di disturbi cardiaci e di sviluppi tumorali. L’uso prolungato di smartphone atrofizza la capacità di istituire relazioni profonde e autentiche, invita alla passività e a un senso che potremo definire di ripiegamento pessimistico di fronte agli imprevisti della vita.

data di pubblicazione:07/02/2019

69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – BERLINALE

(Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Siamo giunti al consueto appuntamento con la Berlinale, quest’anno alla sua 69esima edizione. Ultimi ritocchi ancora davanti al teatro di Marlene Dietrich Platz per l’attesissima kermesse cinematografica che vedrà riuniti per dieci giorni giornalisti e cinefili di ogni parte del mondo. Il programma è ricchissimo: 23 sono i film della selezione ufficiale, di cui 17 in concorso per l’ambito Orso d’Oro, oltre a quelli suddivisi nelle numerose sezioni collaterali. Dieter Kosslick, quest’anno al suo ultimo mandato in qualità di Direttore del Festival, incarico che ricopre dal 2001, ha sottolineato in conferenza stampa che i temi principali scelti quest’anno riguarderanno l’infanzia, la famiglia, i diritti di genere ed il modo in cui ci nutriamo. Sono temi che apparentemente rientrano nella sfera del nostro privato e che coinvolgono la nostra sensibilità, ma che al contrario dovrebbero riguardare la politica in generale perchè si parla dello sfruttamento e della molestia verso i minori, di prendere coscienza che il modello della famiglia tradizionale non esiste più e che avanzano nuovi schemi verso i quali bisogna mostrare rispetto oltre ad un adeguato riconoscimento da parte della società, e perché anche il semplice modo di nutrirsi che riteniamo sia una nostra libera decisione, altro non è che il prodotto manipolato delle grandi industrie agrarie e alimentarie.

Nel ringraziare tutti i suoi collaboratori per l’assistenza avuta in questi anni, Dieter Kosslick ha rivolto un caloroso augurio al nuovo team organizzativo che oramai in via ufficiale sarà diretto dall’italiano Carlo Chatrian, attualmente responsabile artistico del Locarno Film Festival.

Ecco i film della selezione ufficiale, di cui 20 in prima mondiale:

The Kindness of Strangers di Lone Scherfig (Danimarca-Canada-Svezia-Germania-Francia) film d’apertura

L’adieu à la nuit  di André Téchiné (Francia-Germania), fuori concorso

Amazing Grace di Alan Elliott (USA), documentario fuori concorso

Der Boden unter den Füßen di Marie Kreutzer (Austria)

Di jiu tian chang di Wang Xiaoshuai (Cina)

Elisa y Marcela di Isabel Coixet (Spagna)

Der Goldene Handschuh di Fatih Akin (Germania-Francia)

Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija di Teona Strugar Mitevska (Macedonia-Belgio-Slovenia-Croazia-Francia)

Grâce à Dieu di François Ozon (Francia)

Ich war zuhause, aber di Angela Schanelec (Germania-Serbia)

Kız Kardeşler di Emin Alper (Turchia-Germania-Olanda-Grecia)

Marighella di Wagner Moura (Brasile), fuori concorso

Mr. Jones di Agnieszka Holland (Polonia-Regno Unito-Ucraina)

Öndög di Wang Quan’an (Mongolia)

The Operative di Yuval Adler (Germania-Israele-Francia-USA), fuori concorso

Répertoire des villes disparues di Denis Côté (Canada)

Synonymes di Nadav Lapid (Francia-Israele-Germania)

Systemsprenger di Nora Fingscheidt (Germania)

Ut og stjæle hester di Hans Petter Moland (Norvegia-Svezia-Danimarca)

Varda par Agnès di Agnès Varda (Francia), documentario fuori concorso

Vice di Adam McKay (USA), fuori concorso

Yi miao zhong di Zhang Yimou (Cina)

Il film italiano in concorso sarà La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano co-sceneggiatore. Il regista romano è già noto al pubblico soprattutto per Alì ha gli occhi azzurri presentato nel 2012 alla Festa del Cinema di Roma e per Fiore in concorso nel 2016 al Festival di Cannes – Quinzaine des Réalisateurs. Nella Sezione Panorama avremo il film Dafne di Federico Biondi e il documentario Selfie di Agostino Ferrente. Una scelta importante in rappresentanza del nostro cinema firmato da registi molto impegnati nel sociale per portare al pubblico internazionale una realtà tutta italiana dove i giovani devono confrontarsi nel quotidiano con un ambiente duro e spietato: un nuovo realismo cinematografico che testimonia la vita spesso disumana del mondo di oggi.

La giuria internazionale quest’anno sarà presieduta da Juliette Binoche, attrice di fama internazionale che proprio qui a Berlino nel 1997 vinse l’Orso d’Argento per la sua interpretazione nel film Il Paziente Inglese di Anthony Minghella. Gli altri membri che la affiancheranno sono: Justin Chang, critico cinematografico del Los Angeles Times; Sandra Huller, attrice tedesca già vincitrice nel 2006 dell’Orso d’Argento quale protagonista nel film Requiem di Hans-Christian Schmid; Sebastiàn Lelio, regista cileno oramai molto noto dopo aver vinto l’Orso d’Argento nel 2017 per la miglior sceneggiatura con Una Mujer fantàstica che in seguito ottenne anche l’Oscar come miglior film in lingua straniera; Rajendra Roy, da anni responsabile della Sezione cinematografica presso il Museo d’Arte Moderna di New York; Trudie Styler, attrice inglese Ambasciatrice UNICEF per il Regno Unito, impegnata nella produzione di importanti film sia per la televisione che per il grande schermo.

Ruolo importantissimo lo rivestono i film delle sezioni speciali: Berlinale Shorts, con una sempre più crescente presenza nell’ambito del Festival; Panorama, che con i suoi 45 film affronterà tematiche politiche e sociali in controtendenza; poi ancora la sezione Forum, che presenta un’interessante selezione di film sotto il motto “rischio più che perfezione” per i temi affrontati al di fuori di ogni schema o compromesso; la rassegna Generation, che quest’anno si pone diverse domande esistenziali: chi siamo? dove andiamo? cosa significa relazionarsi con gli altri?; Prospettive Cinema Tedesco, che riguarda lavori di giovani talenti tedeschi; Retrospettive, con un programma quest’anno dedicato alla filmografia della Repubblica Democratica Tedesca e della Repubblica Federale di Germania prima e dopo il 1990. Come nelle edizioni passate anche quest’anno avremo una rassegna Teddy Award, con vari lungometraggi a soggetto gay presi dalle varie sezioni; Kulinarisches Kino, che propone la relazione tra cinema e cibo; Berlinale goes Kiez, per la diffusione dei film in programma nei vari cinema periferici della città e Native, che ci porterà a scoprire isole e paesi nella lontana area del Pacifico.

Quest’anno l’Orso d’Oro alla carriera verrà assegnato a Charlotte Rampling, grande attrice inglese che tra l’altro nel 2017 vinse la Coppa Volpi a Venezia come migliore interpretazione femminile in Hannah di Andrea Pallaoro. A lei verrà dedicata una retrospettiva comprendente una decina di pellicole tra le più significative tra cui, ovviamente, Il Portiere di Notte di Liliana Cavani e La Caduta degli Dei di Luchino Visconti.

Accreditati, presente qui a Berlino, vi terrà ogni giorno informati sui film in programma, con particolare attenzione per quelli della selezione ufficiale.

data di pubblicazione:06/02/2019

FUORIGIOCO di John Donnelly con Edoardo Purgatori, Miguel Gobbo Diaz, Giorgia Salari, Gianluca Macri, regia di Maurizio Mario Pepe

FUORIGIOCO di John Donnelly con Edoardo Purgatori, Miguel Gobbo Diaz, Giorgia Salari, Gianluca Macri, regia di Maurizio Mario Pepe

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 31 gennaio/17 febbraio 2019)

Il fosco interno della vita di un calciatore che somiglia molto a Cristiano Ronaldo. Difatti si chiama Cristian. Per tutti quelli che diventano Totti (ma anche non lo diventano).

 

Il calcio fuori dal rettangolo di gioco. Con tanti, forse troppo elementi. Quello che i tifosi non vedono: superomismo, omosessualità, egolatria, razzismo uomo contro uomo in senso hobbesiano ovvero il mio successo è la tua rovina. Ritratto del football in un interno con scene ripetute di nudo, di amplessi, di linguaggio scurrile. Uno spettacolo forte, ai limiti dell’hard rigorosamente vietato ai minori di diciotto anni. Con interpreti che oltre a recitare si cimentano in una prova muscolare in cui si dimostrano artisti del salto alla corda, maghi delle flessioni. E sanno anche palleggiare bene il pallone. La vita del calciatore in tre scene. Nella prima due under si misurano con il futuro in una partita in cui uno solo uno dei due prevarrà. Nella seconda il più cinico è arrivista si misura con il prezzo del successo nell’incontro ravvicinato con una ballerina escort incaricata di filmarne le debolezze a scopo pubblicitario. Ma è stata proprio lui (si scoprirà) a commissionarle la ripresa. Nella terza i due amici di un tempo si rivedono. Il primo ha incassato milioni, ha girato il mondo; è ricco, famoso e viziato; il secondo ha ripiegato su un lavoro ordinario, deluso dall’impatto con il football. Ma c’è un’attrazione ambigua che li lega e in una serata di follie e di eccessi a base di sostanze psicoattive coinvolgeranno nella pseudo-orgia un ignaro quanto poi disponibile inserviente. La conclusione è tutt’altro che rassicurante. Alla fine le luci si spengono (e il sipario cala) sul protagonista che vuole essere un vincente ma che invece rappresenta la frustrazione del fine carriera e dell’isolamento a cui lo ha condannato il successo e l’illimitata e finta possibilità di potere attribuitagli dal denaro. Titolo originale The Pass: il denaro non regala sempre felicità anche se su Instagram hai collezionato trenta milioni di like. Il testo teatrale ha avuto anche una versione cinematografica.

data di pubblicazione:06/02/2019


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