da Daniele Poto | Mar 15, 2020
Pensatore a cavallo delle due guerre. Storico, cattedratico, guerriero, ucciso dai tedeschi poco prima della fine del secondo conflitto mondiale, Bloch ha riscritto il concetto di storia, cancellando il nozionismo di date, etichette, luoghi comuni per assemblare il gusto della scoperta in un contesto multiforme fatto di scienza, di vita dell’uomo, secondo una concezione di sinistra anche se il borghese che era in lui riassumeva e viveva le contraddizioni dell’uomo d’ordine. Il breve saggio di cui si parla risale al 1937, a una conferenza epocale letta 25 giorni dopo essere stato nominato professore nella prestigiosa Sorbona. C’è tutto Bloch, il suo empirismo, la sua ecletticità che si riassume in una formula che è un programma di studio ed un metodo: “toutes choses égales d’ailleurs”. Una storia orizzontale non scritta dai vinti e dai ricchi. Si chiede ad esempio se non sia importante risalire all’origine dell’inserimento della marmellata nel menù dei francesi. Ebreo ma fieramente transalpino. Allievo di Pirenne, studioso di fatti apparentemente minori ma assolutamente utili per capire un mondo. La mentalità come chiave di volta per capire un mondo: il Rinascimento, il Medioevo. L’inutilità di una guerra in cui non credeva ma in cui si trova coinvolto mostrando abilità di comando pratiche che alla fine gli costeranno la vita perché i nazisti lo definiranno “un ebreo capo dei terroristi” deformando l’immagine di uno studioso ormai anziano, calvo, grassoccio, ma fieramente orgoglioso della propria identità se non della propria religione che per sua esplicita definizione mai praticò. Lo studio della storia come esperienza non pregiudiziale e non ideologica. Lo storico mette sul piatto dei fatti che poi toccherà ad altri specialisti giudicare a valutare. In un’ottica precisa: soltanto lo studio del passato offre il necessario senso del cambiamento. Bloch ha aperto un mondo nuovo alla generazione di storici che gli sono succeduti anche grazie all’esperienza della prestigiosa rivista da lui fondata Les annales d’historie économique et sociale.
data di pubblicazione:15/03/2020
da Giovanni M. Ripoli | Mar 15, 2020
1986, nel villaggio di Gyeonggi, viene rinvenuto il cadavere di una ragazza brutalmente assassinata. A quel delitto ne seguiranno altri a gettare nel panico l’intera regione e gli incapaci e brutali poliziotti locali…
Il film, premiato al Torino Film Festival nel 2003 per la migliore sceneggiatura, giunge ora, (prima della chiusura per pandemia…) sulla scia del meritato successo di Parasite e si colloca all’interno del cinema coreano di denuncia del regime militare che in quegli anni teneva la Corea del Sud sotto una rigida dittatura. Quel clima si respira, seppure mai manifestata in modo didascalico, nella pellicola di Bong Joon-Ho e negli sguardi allucinati del suo detective Seo (Song Kang-Ho, tra i migliori attori della sua generazione), inviato da Seul nel piccolo villaggio, attonito a confronto con gli ottusi e violenti poliziotti locali, intenzionati solo a trovare un capro espiatorio. Solo nelle apparenze potrebbe trattarsi dell’ennesimo film sulle violenze di un serial killer, ma, trattandosi di una pellicola del talentuoso regista coreano, già predestinato e ispirato sin dagli inizi, si caratterizza e si distingue rispetto ad altri film di analoghe tematiche. Per la cura dei dettagli, la distanza dai luoghi comuni, l’attenzione rivolta alla psicologia dei personaggi, la speranza (i bambini che non ubbidiscono all’ordine di coprifuoco…), dulcis in fundo, l’ironia. Più che a una soluzione- come un thriller classico avrebbe richiesto – Memories of Murder si pone e pone interrogativi: “come è possibile che l’uomo possa compiere simili atti? ” Sono forse la conseguenza dell’oscurità in cui vive un intero Paese per le aberrazioni del regime?” Sul volto imperscrutabile ma esterefatto di Seo, ci sono questi enigmi, e c’è tutto il senso dello spiazzamento che il regista riesce a trasmettere allo spettatore. La pellicola è tratta dal romanzo di Kim Kwang-rim che si basa su una storia vera avvenuta alla fine degli anni ’80 in Corea del Sud e il film, “giocato su campi lunghi di grande respiro”(Mereghetti docet!), tecnicamente ineccepibile (fotografia e colonna sonora ), svincolato da oltre ogni codice di genere (il poliziesco nello specifico), ci consegna il primo piccolo capolavoro di Bong Joon-Ho, un gioiello, crudo e violento, del 2003, giustamente riportato in sala.
data di pubblicazione:15/03/2020
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da Daniele Poto | Mar 15, 2020
Il sociologo settantenne noto interventista, opinionista senza vecchi steccati destra/sinistra, descrive lucidamente l’abnorme fotografia della società italiana di oggi, legata alla rendita di posizione di una classe sociale che si può permettere di non far lavorare i propri figli sfruttando le fortune accumulate generazionalmente. Un’Italia dove il titolo di studio svalutato non permette l’ingresso al mercato del lavoro e dove più che di stipendio si vive di affitti, di investimenti, di ingenti depositi sul conto corrente bancario. Esaminando uno per uno i Paesi Europei Ricolfi constata che nessuno è in queste condizioni. La condizione di mancata crescita e di grandi patrimonializzazioni familiari oltre all’enorme debito pubblico è il combinato disposto di questa situazione che presenta evidenti punti di vantaggio alla voce “benessere” ma anche grandi criticità visto il blocco dell’ascensore sociale, la stagnazione dei valori primari sostituiti dall’industria del loisir, dalla filosofia dell’apericena e dell’uso indiscriminato dello smartphone. In definitiva una società che gode di un grande surplus e quasi non sa come spenderlo. Una società rivolta al futuro con i soldi accumulati nel passato. Tutto ciò è reso possibile dal servaggio di una parte imponente della società che una volta era sottoproletariato ed ora è lavoro nero di lavoratori stranieri che sono la sovrastruttura che permette lo status. Un esercito di colf, badanti, lavoratori edili che legittimano la situazione di privilegio e senza i quali sarebbe impossibile mantenere uno stile di vita da classe privilegiata. In sintesi Ricolfi ritiene che la pratica del consumo opulento ha creato un’organizzazione sociale che si regge su tre pilastri fondamentali: la ricchezza accumulata dai padri, la distruzione progressiva di scuole e università con un livellamento qualitativo esponenziale e, in basso, un’indispensabile struttura di stampo para-schiavistico. Ecco restituita l’immagine di un’Italia fintamente prospera ma che non ha creato le basi per resistere alle crisi. Forse per la cronica assenza di statisti da queste bande.
data di pubblicazione:15/03/2020
da Daniele Poto | Mar 13, 2020
Un grande successo, ristampa a raffica. Svolgimento con il sorriso assicurato e a volte anche il riso. Ma cui prodest? Veronica Pivetti ha scritto una sorta di Cinquanta sfumature di grigio riletto in sala Friends o Sex in the city. Linguaggio scattante, farcitura tutta affidata ai dialoghi di cinque amiche e dei battibecchi con la madre. Testo che però fatica a crescere nella dimensione del romanzo a dispetto delle oltre duecento pagine. Trattasi di mayonese che non monta e rischia di impazzire nella tessitura di una trama esile e pruriginosa, direi neanche erotica perché si snocciolano situazione di sesso meccanico, apparentemente copiate da un film porno. Può essere esercizio di realismo quando la protagonista (che non è chiaramente autobiograficamente la Pivetti) si dedica al sesso orale nel bagno di un treno? Hanno senso le ripetute eiaculazioni del dimesso personaggio maschile liquidato in men che non si dica per un rigurgito di femminismo dopo averne utilizzato la valentia ormonale fino in fondo? Spaccati di barzelletta o di breve sketch. Immaginiamo che l’autrice si sia molto divertita a scriverlo cercando di offrire di sé un’immagine alternativa assolutamente contrastante con quella mediatica. E comprendiamo anche l’imbarazzo del neo direttore di Rai Uno Stefano Coletta nell’imbrodare di complimenti l’autrice alla presentazione del libro al Teatro Eliseo, prima della chiusura dello stesso. Semmai c’è da lodare l’attrice per la grande padronanza nei dialoghi scoppiettanti che costituiscono il pezzo forte del plot ma che ne costituiscono anche il grande limite narrativo. In effetti nei dialoghi per definizione non c’è azione ed è difficile montare da fermo una vicenda veramente avvincente. Per chi lo leggerà il riconoscimento migliore è nel personaggio di Benedetta, quello si veramente somigliante all’autrice, anche per le perplessità sull’attuale posizionamento sessuale, vero specchio dei tempi per le persone evolute e senza pregiudizi. Un libro per donne ma che gli uomini leggeranno con altri intenti, anche potenzialmente maliziosi.
data di pubblicazione:13/03/2020
da Giovanni M. Ripoli | Mar 11, 2020
Il capo di una gang con grossa taglia sulla testa è in fuga dalla polizia e da una banda rivale. E’ disposto a sacrificarsi per far intascare alla sua famiglia la somma della ricompensa…
Dopo quanto è accaduto il 9 febbraio al Dolby Theatre di Hollywood con la vittoria clamorosa di Parasite, nella categoria Oscar per il miglior film dell’anno, qualcosa è cambiato nella miope distribuzione cinematografica di casa nostra. Abbiamo così l’opportunità di vedere e talvolta gustare film della produzione “orientale” che in genere ci venivano negati. Così, nel caso della pellicola in questione, il noir Il Lago delle Oche Selvatiche di Yi’nan Diao, regista cinese, già autore di Fuochi d’Artificio in Pieno Giorno, anch’esso un duro e angosciante poliziesco, circolato nelle sale del circuito d’essai prima della chiusura per Corona Virus. Caratteristiche del cinema di Diao (per semplicità) sono, in generale, la cupezza delle ambientazioni, la pioggia che cade più copiosa che in Val Brembana e un mondo notturno per buona parte della pellicola, per tacer del lago, nella pellicola in questione. E’ certo che il regista di Xi Nan (1969), già vincitore di un Orso d’oro a Berlino, da buon cinefilo, ha ben in testa l’archetipo dell’anti-eroe di tanti noir USA degli anni 40’50’e 60’, ma, mutatis mutandis, ne rivisita l’ambientazione e lo attualizza alla sua realtà: abbandona il bianco nero e costruisce una storia “criminale” in una notte torbida e viscosa. La vicenda si dipana come “appuntamento in una stazione del sud” (come nel titolo originale) per Zhou, appena uscito dal carcere, che dopo una furibonda battaglia fra gang uccide un poliziotto e fugge braccato. Viene agganciato da una prostituta, Liu (forse innamorata di lui) e con lei cerca di sfuggire alla legge e ai rivali. Oltre al protagonista, l’attore Hu Ge, autentica star tv cinese, è il ruolo di Liu, interpretato da Gwei Lun al centro della trama: figura di difficile comprensione, personaggio ambiguo e stratificato sarà lei, donna dai molti padroni, a guidare Zhou nell’improbabile speranza di salvezza. Con stile ben collaudato, l’autore alterna, con perizia tecnica e ispirazione scene realistiche ad altre oniriche, mai gratuite, senza dimenticarsi di sottendere nel finale il senso di una sorta di giustizia risarcitoria per i più deboli. Certamente una conferma per quello che viene definito l’astro nascente della nuova cinematografia cinese e un film da vedere o recuperare quanto prima…
data di pubblicazione:11/03/2020
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da Antonio Jacolina | Mar 10, 2020
Enrico Pandiani ha avuto l’abilità, l’intelligenza e l’originalità con il suo romanzo di esordio nel 2009 Les Italiens di inventarsi e dare poi vita ad una saga narrativa avvincente e di successo centrata su una squadra di flic parigini detti, per l’appunto, les italiens. Una squadra investigativa in forza nella Brigata Criminale con sede nel famoso e fascinoso 36, Quai des Orfèvres di Parigi (colpo di genio nel colpo di genio: la stessa della Polizia Giudiziaria di Maigret!) e tutta formata da poliziotti di origini italiane, dal forte spirito di corpo perché legati fra loro da un senso di comune appartenenza, di amicizia e di “famiglia”. Sono guidati dal commissario Jean Paul Mordentì, intuitivo, spregiudicato, violento ma anche umano e seduttivo: un mix giovanile, una versione 2.0 di Jean Gabin, di Lino Ventura e di Yves Montand, molto francese ma anche italiana al tempo stesso.
Con Ragione da Vendere uscito in libreria lo scorso anno, siamo già arrivati al 7° romanzo della serie ma il fascino tutto particolare ed originalissimo della Storia di Pandiani resta ancora assolutamente vivo, fresco, coinvolgente ed intrigante.
Questa volta il commissario e la sua affiatatissima squadra sono coinvolti in un’indagine complessa dai delicati risvolti internazionali. Un caso tutto particolare legato al traffico e furto di opere d’arte ed ai crimini ad essi collegati, in una caccia senza quartiere nel cuore di Parigi, dei possibili responsabili, fra conflitti a fuoco, uccisioni, donne misteriose, rapimenti e colpi di scena e sottostorie all’interno della Storia principale che alimentano la suspense narrativa.
Le atmosfere sono quelle disincantate tipiche dei gialli americani popolari alla Dashiell Hammett (si veda il Falcone Maltese) e quelle realistiche dei noir classici francesi. Del poliziesco hard-boiled abbiamo i ritmi veloci, i dialoghi autentici e pungenti ed una trama articolata e complessa che riesce a mantenere però la tensione sempre viva e costante fino all’ultima pagina. Pandiani è abile nel miscelare azione ed investigazione, connessioni umane e psicologiche, cinismo e passione. La sua scrittura è chiara, dettagliata ed efficace e la lettura è piacevole grazie ad un susseguirsi di colpi di scena veritieri e mai artificiosi e ad un’ambientazione perfetta e ad un giusto mix di humour e sarcasmo. Ragione da vendere è un polar veramente efficace in cui nulla è superfluo, un poliziesco che non annoia mai con inutili ripetitività e che è trascinante e coinvolgente grazie anche al fascino “franco-italiano” tutto particolare e charmant dei protagonisti i cui caratteri sono vivi ed evolvono con l’evolvere stesso dei fatti e delle situazioni. Un romanzo ben confezionato, credibile ed efficace che fila via liscio e che alla fine dispiace che sia già finito.
data di pubblicazione:10/03/2020
da Daniele Poto | Mar 9, 2020
Libro che nasce motivato da un feroce puntiglio, la dissacrazione di un luogo comune espresso nell’adagio del titolo. Filippi circoscrive le frasi della retorica tipica di un’ideologica restauratrice e la dissacra, svelando nella sinteticità del pamphlet la complessa contraddittoria ideologia del fascismo e del suo massimo interprete, il Duce. Attribuzioni macroscopiche e minime fuse insieme in una demolizione a 360 gradi di una rivisitazione di comodo, specie agitata come esempio positivo rispetto al deludente presente. Se è vero che gli italiani sono stati più generosi in fatto di natalità rispetto alle generazioni odierne è del tutto illusorio pensare che abbiamo goduto di un benessere migliore, anche in relazione ai sacrifici fatti per le cosiddette guerre coloniali. Per dirla in termini sportivi è un’Italia che in trasferta non vinceva mai perché alle facili e crudele conquiste di Libia, Somalia e Libia doveva accostare le deflagranti e perdenti campagne belliche in Russia e persino in Grecia Un’Italia che dava l’oro allo Stato ma non veniva ripagata da stipendi migliori. E se dei treni non era segnalato il ritardo era solo perché Il Minculpop aveva dato ordine di trascurare le pecche. Paese privato di libertà democratiche in nome di un regime dove il disfattismo era la parola da bandire. Fascismo che disvalorizzava la donna mettendola solo al centro del sistema familiare dove non poteva che essere solo una fattrice di figli da destinare alla patria. Non a caso il suffragio universale le verrà riconosciuto solo nel 1946, a guerra finita. Bandito il diritto di sciopero ed esaltato il razzismo, per par condicio con il nazismo, temperato solo dall’esigua rappresentanza di ebrei in Italia.Pura leggenda la creazione dell’INPS dato che esisteva già un’istituzione proto-previdenziale che sarebbe stata messa a punto progressivamente, senza un’influenza decisiva e caratterizzante di Mussolini. Un libro che fa storia e rilegge pericolose derive odierne, in nome dei fatti e di una notevole e documentata vis polemica. Anche la bonifica delle paludi tramite il trasferimento coatto di comunità viene sottoposta a una rilettura critica che lascia poca sostanza ai meriti del regime.
data di pubblicazione:09/03/2020
da Giovanni M. Ripoli | Mar 9, 2020
Avevamo lasciato Lenny Belardo, Pio XIII, papa dal tormentato rapporto con la fede, in coma a Venezia. The New Pope riprende la narrazione e ne rappresenta la continuazione diretta fino alla conclusione dopo nove episodi in cui si succedono eventi tra il reale e l’inverosimile…
In tempi di Corona Virus può essere una buona idea starsene a casa e godersi una delle più stimolanti serie TV mai prodotte. Creata e diretta, alla sua maniera da Paolo Sorrentino (per alcuni autore di capolavori, per altri di meri esercizi di stile …) per Sky Atlantic, HBO e Canal plus è il sequel di, The Young Pope e racconta la storia di un nuovo Papa, individuato dal “più longevo Segretario di Stato del Vaticano”, il cardinale Voiello (ancora una volta magistralmente interpretato da uno strepitoso Silvio Orlando). In realtà, le prime immagini ripartono dal letto di ospedale con Pio XIII in coma e continuano con il breve pontificato di un Papa, modesto, inizialmente “manovrato” dalle potenti gerarchie vaticane che misteriosamente scompare quando comincia a mostrare segni di troppa autonomia di pensiero… A quel punto, l’astuto Voiello riesce a far eleggere Sir John Brannox, aristocratico inglese, considerato un moderato, che prende il nome di Giovanni Paolo III. Inutile negare che l’affascinante personaggio calza a pennello per uno straordinario interprete come John Malkovich. Trattandosi di nove puntate e di tanti eventi che si susseguono fra colpi di genio, tradimenti, vendette, virtù e miserie non è sulla storia che mi soffermo ulteriormente.
Come in ogni lavoro di Sorrentino, chiaramente un regista che divide la critica e il pubblico , il segno distintivo oltre il plot narrativo è la puntigliosa tessitura delle immagini : ogni dettaglio, in apparenza superfluo, che assume un suo rilievo e una sua pregnanza artistica di grande pregio. Certo, le storie e i personaggi , dai protagonisti ai comprimari, sono tutte intriganti, ma ,ripeto, sono le immagini a lasciare il segno: una Venezia fotografata come solo Visconti aveva osato anni prima, mai turistica, struggente, evanescente, monumentale! La cappella Sistina, San Pietro, il Vaticano con i suoi giardini, la Pietà del Michelangelo, le abitazioni lussuose dei cardinali, le scene oniriche del Lido o delle sagrestie con suore che ballano a ritmo rock, tutto è perfettamente miscelato a fornire un affresco unico, a rendere una visione indimenticabile, a prescindere dalle implicazioni mistiche o dissacranti di cui gli scaltri sceneggiatori hanno disseminato il complesso canovaccio. Degli attori, i principali (cui va aggiunto ovviamente un Jude Law, ironico e sornione quanto lacerato e misterioso), ho accennato , ma anche i personaggi di secondo piano sono bravi tutti a pari merito; segnalo, a caso ma non per caso , la deliziosa Cecile de France , la tormentata e sexy Ludivine Sagnier, come pure, Massimo Ghini e Javier Camarà che non sono da meno nei rispettivi torbidi ruoli. Naturalmente trattandosi di un’opera di “relativa” fantasia, direi “relativamente” distopica, non sta a me entrare in polemiche su quanto ci sia di anticlericale, quanto di spirituale, quanto di critica e/o riferimenti all’attualità, quello che è corretto rilevare è ciò che rimane negli occhi, dopo nove magistrali lezioni di cinema: una storia complessa e variegata, attori verosimili, musiche e coreografie coerenti, scene mozzafiato per uno spettacolo bello, visionario e poetico al tempo stesso.
data di pubblicazione:09/03/2020
da Daniele Poto | Mar 5, 2020
(Teatro Quirino- Roma, 3/15 marzo 2020)
Un robusto drammone d’epoca lasciato nella sua cornice naturalistica anni ’50. Un soggetto epocale risolto a misura di un Pizzi uno e trino che brilla soprattutto nella scenografia e nei costumi avvalendosi della traduzione di Masolino D’Amico.
Due ore e mezzo senz’intervallo. Prendere o lasciare. Aderendo ai sovratoni da prima donna di Mariangela D’Abbraccio su cui si reggono sorti e tenuta di un classico oscillante tra cinema e teatro. Se Vivien Leigh era stata la matura interprete del film alla allora non più tenera età di 38 anni (rispetto a una protagonista che fintamente ne dichiara 25 ma che comunque non dovrebbe averne molti di più) qui il salto generazionale è ancora più esteso perché la prim’attrice di anni ne ha 58 e dunque, seppur debitamente truccata e ben vestita, più che una donna perduta sarebbe oggi volgarmente definita una milf. Lo spettacolo rivela a poco a poco, come nel gioco a incastro di tante scatole concentriche, il suo torbido passato di conquistatrice di adolescenti, di moglie infelice di un consorte tanto giovane quanto omosessuale, di frequentatrice di bordelli, di praticante alcoolista. Né le può far la morale in violento cognato di origine polacca che alla fine, nel massimo del climax la violenta. Finale mesto ed allusivo. Quello che bussa alla porta non è l’ultimo spasimante che possa redimerla ma un incaricato del manicomio (allora, prima di Basaglia si chiamavano così) che è venuto ad offrirle se non altro quell’auspicato vitto e alloggio a cui da sempre brama. I deliri della D’Abbraccio riflettono il caleidoscopio di un universo femminile variegato in cui si confondono o comunque giocano un ruolo importante debolezza, vanità, fascino. Crudo realismo nel testo originale e scelte di campo nell’adattamento. In originale erano già spariti i riferimenti all’omosessualità del violento protagonista, alias Marlon Brando. Bravo Daniele Pecci, attorialmente vocato in questo caso alla greve rozzezza ed animalità di un personaggio negativo.
data di pubblicazione.05/03/2020
Il nostro voto: 
da Daniele Poto | Mar 4, 2020
(Teatro Eliseo – Roma, 3/22 marzo 2020)
Un’opera minore di Ibsen il cui repertorio è completamente gettonato con una secolaristica riattualizzazione dei temi. Scena in chiaroscuro come le voci a volte poco audibili dei protagonisti per cento minuti di spettacolo.
Interno norvegese, intreccio torbido e pieno di non detti e di inespressi. La reputazione del costruttore Solness, sostenuta dal mestiere attoriale di Umberto Orsini (85 anni), è vistosamente insidiata dai chiacchiericci sui suoi trascorsi. Il contrasto tra vecchi e giovani e conseguente ricambio generazionale è la cartina di tornasole per analizzare il vissuto (e i peccati) del protagonista, tra sogno e realtà. La scena fa quasi lo spettacolo: un parallelepipedo smontabile che a seconda dei movimenti di apertura e chiusura descrive il momento psicologico dei personaggi. Solness sembra sempre di più stretto della morsa dei sospetti e delle insinuazioni femminili (verità o finzioni?) e della mancata promozione professionale del suo giovane assistente. Sfiderà i pregiudizi e gli echi del passato salendo pericolosamente su un’impalcatura delle sua ultima creazione. La fine è nota: cadrà. Soluzione e scioglimento affidata all’ovvia conclusione dello spettatore. Incombe sul suo destino anche la mancanza di prole: ha progettato tre camere per i bambini che risultano vuote. La compagnia assemblata sotto l’egida della Teatro Stabile dell’Umbria è un mix di vecchi e giovani. E la figlia d’arte, Lucia Lavia, scala un altro difficile momento di una carriera che si annuncia fulgida quanto propiziata dalla fortuna di un padre come Gabriele. Vocalità sofferta e intuibile all’inizio con vistosa differenza qualitativa rispetto al sonoro delle voci registrate: particolari migliorabili dopo una prima a platea da tutto esaurito per i generosi inviti di Luca Barbareschi che ha ribadito in apertura l’ultimatum alle attualità silenti. Dopo le ultime repliche di stagione il Teatro Eliseo (ed il Piccolo) chiuderà i battenti. Per dirla con Pirandello Così è se vi pare. Ma chi ci crede?
data di pubblicazione:04/03/2020
Il nostro voto: 
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