da Antonio Iraci | Ott 1, 2014
(71ma Mostra del Cinema di Venezia- in Concorso)….è arrivata una cometa
Quest’ultimo lavoro del regista statunitense Abel Ferrara (classe 1951) sulle ultime ore, in verità una intera giornata, della vita di Pasolini ci ha lasciato molto perplessi, direi disorientati e sicuramente ci ha delusi nelle aspettative. In questa ultima giornata particolare, tale perché in effetti finisce con la sua morte, Pasolini, ci viene presentato da Ferrara come un uomo dai mille aspetti, come si dice poliedrico: regista, drammaturgo, saggista, linguista, poeta, romanziere. Tutto vero, solo che ci si perde in un labirinto dove tutto sembra essere lasciato in sospeso, indefinito, poco chiaro, direi confuso…
Anche nell’ intervista rilasciata proprio quel giorno fatale a Furio Colombo per la “Stampa” risulta infatti difficile afferrare il vero senso di quel messaggio che Pasolini voleva trasmettere. Qui emerge a stento, direi forse in maniera poco chiara, la radicalità della sua spietata critica verso quella dilagante società borghese tutta votata al consumismo più sfrenato. Intervista che bruscamente interrompe come a confermare l’assoluta inutilità di qualsiasi affermazione di fronte al dilagare della corruzione politica e forse come a presagire quel destino crudele che dopo poche ore si sarebbe appalesato.
Più convincente appare invece il riferimento ad un ipotetico lavoro a cui Pasolini stava dando già forma concreta mediante la scrittura di un trattamento per un film (Porno-Teo-Kolossal). In sintesi si sarebbe trattato di un viaggio tra Napoli e Roma, tra una nuova Sodoma ed una nuova Gomorra, che i due protagonisti, già individuati in Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli, avrebbero effettuato seguendo una cometa. Qui viene evidenziato l’aspetto fantastico della narrazione dove appare come protagonista unico un Ninetto Davoli di oggi accompagnato da un Ninetto Davoli di ieri (Riccardo Scamarcio). I due Ninetto, quali doppia faccia di una stessa figura, al loro arrivo a Roma, dopo essere stati coinvolti, solo come spettatori, alla festa annuale della fertilità (da rimpiangere forse quei tempi in cui ci si scandalizzava per un panetto di burro sulla scena) intraprenderanno un faticoso cammino verso l’alto, forse in un estremo anelito di redenzione.
Pasolini ci vuole così dire che il tentativo di raggiungere un paradiso, comunque lo si concepisca, non porterà a nulla. Infatti la visione lontana di questo nostro mondo da parte dei protagonisti non li condurrà a nessun paradiso ma ad una consapevolezza, forse, che il vero paradiso bisogna cercarlo più in basso.
Discutibile la scelta degli attori: da Willem Dafoe nei panni di Pasolini a quella di Ninetto Davoli, che interpreta se stesso, a seguire Maria de Medeiros quale Laura Betti. Assolutamente inadeguato il doppiaggio, mentre risulta piena di pathos l’interpretazione di Adriana Asti, nel ruolo della madre. Inqualificabile e fuori luogo la recitazione di Riccardo Scamarcio…
data di pubblicazione 1/10/2014
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da Giulio Luciani | Ott 1, 2014
(Festival di Cannes 2014 – Un Certain Regard)
Angélique è una sessantenne eternamente ragazza, ribelle nei confronti del tempo che la fa invecchiare e refrattaria a qualsiasi vincolo e legame che possa soffocarla. Il suo stile di vita potrebbe mettersi interamente in discussione quando uno dei clienti più affezionati del night club dove lei lavora intrattenendo uomini di tutte le età, le chiede di sposarlo. Così l’attempata party girl, ricoperta di bigiotteria e vezzosa come un’adolescente consumata, si riappropria del suo ruolo (dimenticato) di madre di quattro figli e si prepara a pronunciare il temuto sì all’uomo che sembra dimostrarle un amore generoso e incondizionato. Il finale cupo, già preannunciato da alcuni campanelli d’allarme, lascia un alone di mistero e un senso di irrisolto nel ritratto della protagonista, creatura inafferrabile e ammaliante. Una favola amara, soltanto abbozzata, che senza troppe pretese e senza analisi profonde porta in scena il conflitto tra ciò che irrimediabilmente siamo e quello che potremmo, vorremmo, dovremmo essere.
data di pubblicazione 1/10/2014
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da Antonio Iraci | Ott 1, 2014
Lunedì 29 settembre, nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, Marco Muller ha presentato le ultime novità pratico-organizzative della nuova edizione del Festival/Festa del film di Roma, venendo incontro alle ridotte disponibilità di budget e confermando gli spazi a disposizione, compatibilmente con gli impegni delle sale dell’Auditorium e del MAXXI.
Quest’anno il Festival è stato anticipato alla metà di ottobre, per ri-collocarsi in un momento che fosse equidistante dalla fine della Mostra del Cinema di Venezia e l’inizio del Festival di Torino, ri-acquistando una migliore possibilità di re-inserirsi con una propria identità, dando spazio a grandi film popolari ma singolari e prestando una maggiore attenzione al pubblico, che diventa così protagonista assoluto nel valutare le pellicole ed i contenuti del programma stesso.
“Novità assoluta” infatti di questa nona edizione del Festival, che a breve ri-prenderà la denominazione iniziale di Festa del Film, oltre a quella che non avremo più delle giurie ma saranno gli spettatori a votare il film preferito, dando quindi maggior risalto al proprio gusto e decretando insomma quali saranno i film più belli.
Tale scelta, volta a sottolineare il carattere popolare della manifestazione, non vuole nel contempo trascurare l’aspetto internazionale dell’evento: seppur ben 16 film sono italiani con 10 prime nazionale, 21 sono i paesi di provenienza dei 51 lungometraggi selezionati, con oltre a 24 prime mondiali, 6 internazionali ed 11 europee.
Due commedie apriranno e chiuderanno questa edizione del Festival: Soap Opera di Alessandro Genovesi, una commedia corale sulle storie, i sentimenti e gli equivoci che coinvolgono gli inquilini di un condominio nella notte di Capodanno, e Andiamo a quel paese scritto, diretto e interpretato da Salvatore Ficarra e Valentino Picone, commedia ambientata in Sicilia che racconta le spassose vicende di due disoccupati che, tornati nel loro paese d’origine, immaginano una originale soluzione per uscire dalla crisi.
Il Direttore Marco Muller ha infine enfatizzato il rinnovato coinvolgimento del MiBACT nelle attività della Fondazione Cinema per Roma ed ha sottolineato l’attenzione sempre più ampia che il Ministero sta dedicando al Festival ed alle sue manifestazioni collaterali, quale evento internazionale di elevato spessore culturale.
Una breve ma animata manifestazione di protesta improvvisamente si è sollevata tra il numeroso pubblico presente, che reclamava la mancata accettazione alla selezione del film su Califano dal titolo Non escludo il ritorno (come l’omonima canzone), dopo che da parte dei vari addetti ai lavori presenti erano state poste diverse le domande, per la maggior parte banali e capziose, come sempre….
data di pubblicazione 1/10/2014
da Giulio Luciani | Set 29, 2014
(Festival Internazionale del Film di Roma 2013 – Alice nella Città)
Il cinema italiano indipendente, quello che con budget contenuti riesce a portare sul grande schermo storie interessanti e ben scritte, è sintetizzato in questa pellicola di Vittorio Moroni. Una trama che si dipana in modo lineare, senza particolari guizzi narrativi o colpi di scena, per raccontare la storia di Kiko, adolescente per metà filippino e per metà italiano, travolto dal disagio proprio della sua età e dalla perdita recente del padre. Due volti noti, Beppe Fiorello e Giorgio Colangeli (bellissima l’interpretazione del secondo), in un cast di esordienti, tutti credibili e disinvolti in una recitazione semplice e realistica. Tanti, forse troppi, i temi sociali tirati in ballo, dalla scuola all’immigrazione, dalla famiglia al lavoro: tuttavia, il film non ne risulta appesantito, ma arricchito e fortificato. Il titolo, lungo e non semplice da memorizzare, Se chiudo gli occhi non sono più qui, esprime bene quel senso di solitudine e autoannientamento in cui l’uomo, ma ancor di più l’adolescente, vuole perdersi per non vivere le sfide del presente e per non affrontare la paura che tutto cambi per sempre. Finale di speranza, forse un po’ didascalico, ma che ci regala sollievo e fiducia nel genere umano.
data di pubblicazione 29/9/2014
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da Giulio Luciani | Set 29, 2014
(71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Fuori Concorso)
Sulla scia di Life in a day, progetto a metà strada tra il documentario e il social movie, ideato e prodotto da Ridley Scott, Gabriele Salvatores ha raccolto frammenti di video realizzati con ogni mezzo tecnologico esistente, dallo smartphone alla videocamera GoPro, per ricostruire ventiquattro ore di vita italiana, dalle sedici albe a cui assiste ogni giorno in orbita l’astronauta Luca Palermitano al momento in cui ci si scambia la buonanotte. Se dovessi valutarlo come il film documentario di un regista poliedrico come Salvatores, direi che ha una serie di difetti, primo fra tutti un generale senso di fretta, come se lo spettacolo della giornata italiana debba consumarsi velocemente, senza pause e con tanti concetti e scene uguali che si ripetono, denotando una scarsa selezione (forse solo apparente) del materiale. Se, invece, guardo il film da italiano, ci ritrovo il mio Paese, pieno di contraddizioni e immagini che tolgono il respiro. Accanto all’Italia arrabbiata che non arriva a fine mese, c’è l’Italia che affronta la giornata con il sorriso pur avendo poco di cui sorridere. C’è l’Italia dei bambini che nascono e quella della popolazione che si fa sempre più anziana. C’è l’Italia di chi si ama e può sposarsi, e quella di chi non ha il diritto di farlo. L’Italia che viaggia e l’Italia che non ha alcuna intenzione di andarsene da qui. L’Italia che balla e si diverte, insieme all’Italia che si alza presto per fare il pane e lavorare. Pur avvertendosi in modo forte nel documentario il disordine del nostro Paese, a tratti disperato e a tratti buffo e grottesco, ne esce un’Italia con una nuova identità in via di formazione e con una gran voglia di rialzarsi. Senza retorica e senza eccessi d’enfasi e autocompiacimento, Italy in a day è finalmente una bella iniezione di sano patriottismo.
data di pubblicazione 29/9/2014
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da Maria Letizia Panerai | Set 25, 2014
(Festival di Toronto-2013)
Singapore, 1942. L’ufficiale britannico Eric Lomax (Jeremy Irvine) viene fatto prigioniero dai giapponesi assieme a migliaia di giovani soldati inglesi, e trasferito in un campo di prigionia; costretti a lavorare come schiavi alla costruzione di una ferrovia di collegamento tra Birmania e Thailandia, molti di loro moriranno di stenti e malattie tropicali, anche a causa delle avverse condizioni climatiche. Ci spostiamo in Inghilterra, siamo nel 1980: un uomo non più giovane incontra una affascinante donna in treno e se ne innamora a prima vista. I due si sposano, ma la prima notte di nozze l’uomo ha degli incubi spaventosi che lo dilaniano. L’evento, ripetutosi varie volte, porta Patti (Nicole Kidman) ben presto a scoprire che suo marito Eric Lomax (Colin Firth), non è semplicemente sopravvissuto alla guerra, ma fu oggetto di atroci torture ad opera della polizia militare giapponese Kempeitai, e da allora tutte le notti lotta con un immagine: quella del suo aguzzino. Adattamento cinematografico dell’autobiografia omonima, Le due vie del destino avrebbe potuto essere un film sul perdono. Ed invece, pur parlando di fatti e persone non di finzione e pur avvalendosi dell’interpretazione di due grandi attori, ci lascia un po’ insoddisfatti, perché non decide da che parte stare: se diventare una pellicola su una toccante storia d’amore, dove il personaggio di lei – una Kidman che ha conosciuto perfomance migliori – avrebbe dovuto essere molto più incisivo e decisivo, o dedicarsi prevalentemente alla crudeltà della detenzione ad opera dei soldati giapponesi nei confronti degli inglesi. Ed in questo altalenante dilemma, il film non focalizza l’aspetto forse più importante dell’intera vicenda: il perdono, appunto, che realmente Lomax concesse al suo aguzzino, a cui viene dedicata solo l’ultima scena del film.
data di pubblicazione 25/9/2014
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da Maria Letizia Panerai | Set 25, 2014
(71ma Mostra del Cinema di Venezia- in Concorso)
L’imprenditore Rocco, il trafficante di cocaina Luigi ed il pastore Luciano, sono fratelli e, seppur molto diversi tra loro, sono al tempo stesso accomunati da un dolore che ha segnato per sempre le loro vite: il padre, un pastore di Africo, molti anni addietro venne ucciso dal capo del clan della famiglia Barreca sotto gli occhi di Luigi, allora appena dodicenne. Trapiantati a Milano, ma fortemente ancorati alle proprie radici, Rocco e Luigi vivono come cristallizzati in quel passato che non vogliono dimenticare, mentre Luciano, l’unico fratello rimasto nella terra natia, sembra essere il solo a non nutrire alcuno spirito di vendetta per quell’antico fatto di sangue, accontentandosi di condurre una vita semplice senza ambire ad un futuro migliore né per sé né per la sua famiglia, a dispetto dell’enorme benessere in cui invece vivono i suoi fratelli minori. Suo figlio Leo, al contrario, ragazzo irrequieto e rancoroso, che non ne vuole sapere di fare il “capraro” come il nonno ed il padre, una notte compirà, sotto gli occhi del suo migliore amico, un gesto di bullismo volutamente oltraggioso nei confronti della famiglia Barreca, scatenando una vera e propria guerra che obbligherà lo zio Luigi a tornare in Calabria per tentare una riappacificazione tra i clan della ‘ndrangheta. Girato in alcuni paesi della Locride ed in Aspromonte, “blindato” da una recitazione in dialetto calabrese cui necessitano i sottotitoli per una completa comprensione, Anime Nere, che ha ottenuto a Venezia un’unanime apprezzamento dalla stampa sia nazionale che estera, è un film sull’ineluttabilità. Rocco, Luigi e Luciano vivono una vita imprigionata in un passato che alimenta solo vendetta, resi affini solo da un destino di guerra e violenza, immutabile e senza fine, che li travolgerà. L’ottima sceneggiatura ed un gruppo di interpreti bravissimi, ci fanno dono di una pellicola di raffinata bellezza che racconta senza emettere giudizi, lasciando allo spettatore un finale aperto, in cui l’universo femminile fa da coro ad una tragedia infinita che si consuma in un ambiente claustrofobico privo di speranza.
data di pubblicazione 25/9/2014
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da Maria Letizia Panerai | Set 18, 2014
(Giornate degli Autori-71ma Mostra del Cinema di Venezia)
Roma: due coppie borghesi, molto diverse tra loro, che si “obbligano” ad abituali frequentazioni solo perché i due mariti sono fratelli, vengono travolte e sconvolte da un dramma che coinvolge i rispettivi figli, Michele e Benedetta; i due cugini, adolescenti, che al contrario dei loro genitori scelgono di frequentarsi assiduamente – hanno gli stessi amici, vanno nella stessa scuola – una notte, rientrando a casa da una festa, una telecamera nascosta riprenderà due persone con le loro stesse sembianze mentre commettono un delitto: uno di quei fatti di cronaca nera di cui parlano certe trasmissioni televisive, di cui la madre di Michele è un’accanitissima fan. Dopo Gli equilibristi, Ivano De Matteo con I nostri ragazzi, indaga nuovamente il mondo degli adulti ma lo fa attraverso i figli, puntando il dito su una inconsapevole quanto drammatica incomunicabilità generazionale, su uno scollamento nei rapporti causato da cieco egoismo e da superficialità che può portare dei genitori a difendere ad oltranza i propri rampolli, a dispetto di tutti quei buoni principi su cui avevano basato sino ad allora la loro esistenza. Ad uno sguardo attento della locandina, quelli descritti da De Matteo sono adulti con una personalità frammentata, dove nulla è come appare; lucido, pieno di interrogativi stimolanti e con un cast di altissimo livello, I nostri ragazzi ha ricevuto il giusto tributo di applausi alla 71ma Mostra del Cinema di Venezia, e ci auguriamo che anche il pubblico possa mostrarsi fiero di un così buon prodotto italiano.
data di pubblicazione 18/9/2014
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da Alessandro Pesce | Set 12, 2014
Lo stress prenatalizio , che fa esplodere i conflitti interpersonali e porta a emergere improvvise voglie di fuga, non è solo caratteristica nostrana (ricordate “Matrimoni” della Comencini?) ma evidentemente miete vittime anche oltr’alpe. Il film della Thompson segue le vicende di una famiglia “allargata” nei tre giorni prima del 25 dicembre, da un funerale dove tutti bisbigliano dei preparativi e dei regali da fare fino al giorno del fatidico pranzo che non vedremo (ma nei titoli di coda c’è una autentica ricetta francese). Vediamo i personaggi nei loro intricati rapporti e sentiamo le loro confessioni rivolte direttamente al pubblico in una indovinata soluzione da quarta parete. Appena un pizzico di deja vu viene perdonato grazie alla brillantezza dei dialoghi e alla bravura iperbolica degli attori: Sabine Azema (scatenata anche nel ballare e cantare), le incantevoli Emanuelle Behart e Charlotte Gainsbourg e i carissimi Claude Rich e Francoise Fabian: scusate se è poco…
da Maria Letizia Panerai | Gen 13, 2014
Giorgio Diritti ambienta L’uomo che verrà nell’inverno del 1943, in una zona rurale alle pendici di Monte Sole, dove vivono numerose famiglie di contadini, focalizzando l’attenzione sulla famiglia di Martina, una bambina di 8 anni, interpretata da una toccante attrice esordiente, Greta Zuccari Montanari. La piccola Martina, la cui esistenza era stata segnata anni addietro dalla morte tra le sue braccia di un fratellino appena nato e che in seguito a questo trauma aveva scelto il mutismo, aspetta più di ogni altro componente della famiglia la nascita del bimbo che la madre porta in grembo, tenendo per sé le parole come dono futuro per questo nuovo arrivo. Ma il fratellino tanto atteso nascerà, purtroppo, la notte precedente la strage di Marzabotto, in cui furono trucidati durante una rappresaglia delle SS circa 770 civili, in prevalenza bambini, donne ed anziani, come atroce risposta alle azioni di guerriglia di una brigata partigiana della zona.
A questo film, autentica perla nel panorama nostrano ed internazionale, tuttavia la guerra e la storia fanno solo da sfondo: poetico e meravigliosamente semplice, come solo le storie raccontate bene sanno esserlo, il film di Diritti ci racconta “la storia” filtrata attraverso il mutismo della protagonista, che attraverso lo sguardo ci manifesta l’attesa per questo bambino che verrà come un inverosimile bagliore di speranza nel bel mezzo di una tragedia così terribile. Ottime le prove di Maya Sansa nelle vesti della madre di Martina, Alba Rohrwacher della zia e di Claudio Casadio che interpreta il padre.
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