da Elena Mascioli | Ott 13, 2014
Due Misantropi al prezzo di uno
12 sillabe: potrebbe essere questa l’epigrafe con cui scolpire nella memoria l’effetto prodotto dalla rappresentazione de Il Misantropo di Molière, messo in scena dalla compagnia del regista De Guai, sugli schermi italiani come Molière in bicicletta. E non solo perché la commedia è scritta in versi alessandrini, 12 sillabe, appunto, ma perché particolarmente e filologicamente attenta è la resa del testo, del ritmo, del gioco verbale e temporale che una simile scansione metrica produce. 12 sillabe che costringono gli attori alla misura dei sentimenti, degli atteggiamenti, dell’enfasi da porre sulle sillabe come accenti, come segni espressivi sulla partitura musicale di questo capolavoro della commedia francese. La messinscena si fa molto interessante perché l’alternanza nei ruoli, in una sorta di gioco delle parti, dei due attori principali, diventa sottolineatura espressiva del confronto dialogico tra Alceste, il protagonista, intransigente idealista impegnato in una lotta senza quartiere contro il compromesso, la falsità e l’adulazione, e Filinte, l’amico di vecchia data, profondamente ancorato alla realtà, il quale sceglie l’adattamento al mondo così com’è quale unico strumento possibile per affrontare una lotta persa in partenza. Ma questa alternanza è anche sovrapposizione dei due atteggiamenti in un solo personaggio tragico, quell’Alceste/Filinte che potrebbe essere un’unica maschera tragica nel suo percorso alla ricerca della felicità. I costumi, soprattutto nella scelta dei colori, assieme alle luci che li scaldano e li raffreddano, rafforzano la contrapposizione tra i due, che è poi quella tra due visioni della vita, quel confronto serrato tra sincerità ed ipocrisia con cui tutti gli uomini, se tali posson dirsi, si sono trovati a misurarsi nelle piccole a grandi questioni dell’esistenza. E la felice scelta di rappresentare i dialoghi tra di loro nelle situazioni e condizioni più disparate, su una biciletta o comodamente in poltrona, durante una passeggiata o davanti ad una tavola imbandita, con una scelta scenografica di fondo piuttosto essenziale ma arricchita di piccoli dettagli qualificanti, di volta in volta, oltre a conferire originalità all’insieme, restituisce il senso di quella universalità dei caratteri e delle situazioni che, sfidando i tempi, gli spazi, i luoghi, arriva direttamente ai sensi e all’intelletto dello spettatore contemporaneo. Il quale sorride, forse un po’ cinicamente, ride di sé stesso, specchiandosi ora nell’uno ora nell’altro, e alla fine applaude la doppia maschera di un grande Alceste/Filinte nella resa dei bravissimi Fabrizio Luchini e Lamberto Vilson. Ed infine, valore aggiunto a quanto già detto, la rappresentazione regala allo spettatore anche una domanda da portarsi a casa: ma il vero misantropo è colui che lotta in nome della verità, della purezza, ed è costretto ad una scelta di mesta solitudine, o chi ha rinunciato alla lotta a priori, pur di rimanere in un mondo in cui non crede?
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da Elena Mascioli | Ott 13, 2014
Medianeras sono le pareti interne dei palazzi, quelle laterali, i fianchi, senza finestre, senza affaccio sulla strada, senza sguardo e prospettiva. Quelle su cui si dipingono messaggi pubblicitari che si guardano distrattamente fermi ad un semaforo. Ma rappresentano anche la possibilità di evadere, se si decide di aprire in esse una breccia, una finestrella, abusiva, illegale come tutte le vie di fuga, si dice nel film. Medianeras è una mappa dei sentieri urbani del vivere, dell’amare, di esseri umani rinchiusi in scatole di scarpe, circondati da folle di estranei, ingabbiati in tentativi di relazioni senza prospettiva, senza finestre, come le medianeras. Un racconto che si snoda attraverso le strade e gli edifici di Buenos Aires, utilizzando anche i tratti di una graphic novel e le voci fuori campo dei due protagonisti che, ancora sconosciuti l’uno all’altro, ricercano se stessi e l’amore in questa folla di strade, nel groviglio delle esistenze altrui, come si cerca qualcosa o qualcuno nel Corvo parlante della Settimana Enigmistica, con una lente d’ingrandimento a portata di mano. Innamorarsi a Buenos Aires è il solito sottotitolo italiano volto ad attirare un pubblico che non vedrebbe Medianeras, perché non è semplicemente una leggera e sorridente commedia romantica, ma scorre, a volte un pò a rallentatore, con l’affanno delle vite che racconta, deliziando anche palati più fini.
data di pubblicazione 13/10/2014
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da Elena Mascioli | Ott 13, 2014
Le passioni del giovane adulto Onofri. E non mi riferisco a quelle amorose, sentimentali o puramente carnali, che pure sono il filo rosso dei racconti dei nostri amici, Roberto ed Antonello su tutti. Ma le passioni che percorrono il romanzo, avvolgendolo in una sorta di ragnatela sottilissima ma ben visibile, intrappolando ma senza interferire nella visione di ciò che è custodito al suo interno, sono quelle del narratore per eccellenza, l’autore, che però si palesa solo attraverso di esse, per chi lo conosca (anche solo virtualmente). Perché se il racconto viene portato avanti in una quanto mai originale forma che potremmo dire “epistolare”, usando il termine in un’accezione molto ampia e oserei dire contemporanea (visto che siamo in un’epoca in cui non si scrivono più lettere nel senso tradizionale del termine, anche se il romanzo è ambientato negli anni ’90), scambio epistolare in cui si possa anche evitare di prendere a pretesto un interlocutore interno al romanzo stesso, ma quasi sfondando , teatralmente, la quarta parete, a rendere destinatario della “epistola” il lettore stesso (e d’altronde, quanti ammiccamenti al lettore, nei continui rimandi e citazioni sussurrate all’orecchio di chi sappia e voglia coglierle), così l’autore, invece di ritagliarsi un ruolo, scegliendo di essere narratore, o calandosi nei panni di uno solo dei personaggi, si fa qui vivo e vibrante attraverso la trama sottile della ragnatela di ciò che va vibrare le corde della sua anima. E sembra quasi che tutto il resto, il romanzo stesso, sia semplicemente un pretesto, ottimamente congegnato, perché tali vibrazioni possano trovare espressione ed essere condivise. Sto parlando di Karajan, di Mozia, Siracusa, della Sicilia, dell’entusiasmo di fronte allo spettacolo delle mille fiammelle di Madre Natura, di Sibelius, i dischi dei quartetti di Haydn, del Recioto, la piazza di Vigevano, Siena…e mi fermo, perché continuare sarebbe lungo e non altrettanto piacevole alla lettura quanto il romanzo. E il lettore/destinatario, ovviamente, ci mette poi il suo, se la sottoscritta si ritrova ad essere stata, recentemente, voce sopranile all’interno dell’orecchio di Dioniso, a Siracusa (anche se non era Greensleeves ma il “Vorrei e non vorrei” di Zerlina, sollecitata nel duetto dal bravissimo Don Giovanni che era la mia guida locale. E anche qui cortocircuito con i libretti di Da Ponte citati più avanti), a pensare le stesse cose delle opere a Caracalla (continuando, ogni tanto, a cascarci), a seguire il sentiero del bosco vecchio, o a fare i cruciverba di Bartezzaghi nei viaggi in treno. Se dovessi creare un teaser per il romanzo, non potrei che scegliere: ”Tu dove hai fatto il CAR?”,”A Hollywood”, che fulminante fa la sua apparizione nelle prima pagine e poi la lingua, quel fluire armonioso, ricercato ma mai pedante, quelle “emozioni tutte giapponesi”, “i suoi modi da scoiattolo”, e quel meraviglioso “Pompei and Circumstance..” buttato lì, a pagina 81, che andrebbe commentato solo musicalmente, cogliendone lo spunto. Se dovessi trovare una ulteriore definizione, oserei un “asimmetrico”, fin dal titolo, Lo splendore e la scimmia, chiarendo quanto l’asimmetria sia per me motivo di compiacimento, in generale. Asimmetrico, o forse sbilanciato, direbbe qualcuno, il racconto, asimmetrici mi piacerebbe chiamare i rapporti descritti, asimmetrica la vita. Certo un libro che interroga le donne, presenti in qualità di madri o di sfondi piuttosto anonimi e/o simmetrici, nelle vite dei vari Luigi, Natale, etc. E lascerei chiudere questo asimmetrico commento sul libro, alle parole di Antonello : “…mi suscitava voglie invereconde, dunque assolutamente legittime”.
data di pubblicazione 13/10/2014
da Antonio Iraci | Ott 12, 2014
Riflessioni in libertà su Il Tao della Fisica di Fritjof Capra- edizioni Adelphi –
Quando nel 1999 Lana e Andy Wachowski ci presentarono il primo Matrix, pellicola definita di pura fantascienza, il film conquistò pubblico e critica e vinse numerosi premi cinematografici tra cui 4 Oscar per miglior montaggio, sonoro, montaggio sonoro ed effetti speciali. I due personaggi principali, Neo e Morpheus interpretati rispettivamente da Keanu Reeves e Laurance Fishburne, entravano ed uscivano da due realtà virtuali ed immaginarie quali proiezioni mentali del proprio “io” digitale, vale a dire della propria immagine del sé, in Matrix. In particolare, in una delle prime scene, Neo si trova inserito in un programma a campo bianco dove chiede a Morpheus se quello che sta toccando o vedendo è realtà: Morpheus risponde che il reale non esiste. Non si può dunque definire reale quello che tocchiamo o vediamo, perché ciò si traduce in semplici segnali o impulsi elettrici che gli organi preposti trasmettono al cervello, che vengono poi codificati ed immagazzinati creando una intelligenza artificiale; tale intelligenza ci permette quindi di interpretare i fenomeni stessi al momento, per poi decodificarli quando ci sembrerà più opportuno.
In un futuro incerto, dove si è persa la cognizione del tempo, il sistema Matrix prenderà il sopravvento sull’umanità e ci dimostrerà che, quello che ci appariva sin ad ora reale, era al contrario una pura illusione. La realtà dunque non va capita o spiegata, è solo un mezzo virtuale che ci serve per accostarci alla verità. Ma quale? La fisica quantistica ci spiega oggi che ciò che la nostra immaginazione elabora, come esseri pensanti superiori alle formiche, ci permetterà domani di creare qualcosa che oggi ci appare impossibile o fantasioso. Il fatto di pensare che si possa volare ci consentirà un giorno, prossimo o lontano che sia, di volare effettivamente; la mente umana crea quindi con l’immaginazione ciò che l’uomo in futuro renderà possibile concretamente, ovviamente solo quando sarà in possesso degli strumenti adatti per realizzarlo.
Fritjof Capra con Il Tao della Fisica – edito da Adelphi -, ci spiega da una parte i concetti, i paradossi e gli enigmi della teoria della relatività, della meccanica quantistica e del mondo submicroscopico e, dall’altra, evidenzia l’analogia di tutto ciò con le idee millenarie dei filosofi e mistici orientali. Uscire dalle categorie di spazio e tempo, la tanto elaborata teoria della relatività, permetterà quindi, all’uomo di domani, di capire ciò che oggi è ancora oscuro e fuori dalla sua portata.
data di pubblicazione 12/10/2014
da Maria Letizia Panerai | Ott 11, 2014
Un cuoco rimasto vedovo; tre figlie uscite di casa, ognuna con la propria vita. Il rito di mangiare insieme la domenica perché attraverso il cibo si comunica più che con tante parole: un padre chef che, cucinando cose raffinate, coccola e fa aprire i cuori delle sue donne, vigilando anche sulle loro vite sentimentali. Questa pellicola, una delle prime meravigliose prove del pluripremiato regista Ang Lee, non può che ispirare una ricetta dal gusto orientale: pollo all’ananas.
INGREDIENTI: 1/ 2 KG di petto di pollo tagliato a bocconcini – ½ bicchiere di vino bianco secco- 1 scatola piccola di ananas sciroppato – qualche goccia di salsa di soia non salata – 2 cucchiai da tavola di farina -1 cucchiaio da tavola di mandorle pelate tagliate a lamelle- sale, pepe e olio q.b..
PROCEDIMENTO: Mettere in una pentola antiaderente dal bordo alto l’olio, i bocconcini di petto di pollo precedentemente infarinati e le mandorle tagliate a lamelle; correggete di sale e pepe nero e fate rosolare. Quando osserverete la crosticina, bagnate il tutto con il vino bianco e fate evaporare a fuoco vivace. A questo punto versate lo sciroppo contenuto nella scatola di ananas, abbassate la fiamma, coprite e lasciate cuocere per 15 minuti. Quindi aggiungete le fette di ananas tagliate a pezzi irregolari non molto grandi e, dopo aver girato, qualche goccia di salsa di soia non salata. Fate cuocere ancora per 5 minuti e servite. Questo piatto può essere anche preparato prima e scaldato. Ideale per le cene in piedi o dal gusto orientale, si accompagna bene se servito con del riso alla cantonese.
da Antonio Iraci | Ott 11, 2014
Dopo un lungo ed estenuante viaggio nella torrida Sicilia estiva, il principe di Salina e famiglia, scortati dal nipote Tancredi, arrivano finalmente impolverati e malconci a Donnafugata dove li attende la banda del paese ed una folla di curiosi. A sera sulla tavola del Palazzo viene servito il famoso timballo di maccheroni, descritto nei dettagli dall’autore del romanzo Il Gattopardo Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e che è rimasto famoso tra le ricette celebri. Qui proviamo un riadattamento: per semplificare ed “alleggerire” il timballo, eliminiamo l’involucro di pasta frolla e lo sostituiamo con un strato di melanzane fritte.
INGREDIENTI (x 6/8 persone): 800 g di carne mista con manzo e spuntature di maiale e salsiccia – 1 bicchiere di vino bianco – 500gr di mezze maniche o mezze penne o pasta ad anellini- 2 bottiglie di passata di pomodoro con aggiunta di estratto – 200 gr di pisellini – 100 gr di fegatini di pollo – 2 uova sode – 3 melanzane -300 gr di primo sale o caciocavallo – 150 gr. di parmigiano o pecorino grattugiato o un mix di entrambi- sale pepe q.b..
PROCEDIMENTO: Si prepara il ragù nella maniera tradizionale, con un soffritto di cipolla in olio d’oliva, mettendo la carne a rosolare, sfumandola con una spruzzata di vino bianco, sale e pepe. Aggiungere la passata di pomodoro ed un poco di estratto, quindi far cuocere a fuoco lento per circa 3 ore. A parte cuocere i pisellini ed fegatini di pollo, separatamente, sempre con un poco di cipolla e vino bianco per sfumare. Quindi friggere in abbondante olio d’oliva le melanzane tagliate a fette longitudinali. Tagliare a cubetti il primo sale o il caciocavallo semi stagionato. Tagliare a fettine sottili le uova sode. Una volta raffreddato il ragù, fare a pezzetti i vari tipi di carne e le salsicce, e tenete a parte i fegatini di pollo. Accendete il forno a 180° per farlo riscaldare bene; fare cuocere per soli 5 minuti la pasta che dovrà essere o mezze maniche o mezze penne o meglio gli anelletti che sono difficili da trovare in città diverse da Palermo, ma ci si può provare. Intanto si unge la teglia con olio, spolverata con pangrattato ed foderata con le melanzane fritte. La pasta semicruda verrà condita con il ragù e sistemata a strati nella teglia foderata di melanzane alternando con strati di pisellini ed il formaggio a cubetti ed i fegatini e con spolverate abbondanti di formaggio grattugiato. Sistemata tutta la pasta, verrà spolverata a chiusura con il pangrattato ed una spruzzata di olio per far la crosta. Mettere il tutto in forno fisso per 40 minuti a temperatura 180°, di cui gli ultimi 10 minuti con il grill. Il timballo va servito tiepido, quindi dovrà “riposare” per circa un’ora…
da Maria Letizia Panerai | Ott 11, 2014
Morgan Freeman e Jessica Tandy sono gli splendidi interpreti di questo particolare film che vinse ben 4 premi Oscar. Lei, maestra elementare burbera e bacchettona, rifiuta inizialmente di servirsi di lui, uno chauffeur afroamericano che il figlio le impone dopo un rocambolesco incidente automobilistico. I due, a dispetto delle premesse, trascorreranno insieme un tratto di vita inaspettatamente lungo, attraversando 25 anni di storia americana sui diritti civili. Questo film non poteva che ispirare una ricetta come la classica torta ai pinoli della nonna, regalataci dalla nostra amica Serena.
INGREDIENTI: 175gr di zucchero – 175gr di farina – 175gr di burro fuso fatto freddare – 4 rossi d’uovo+1uovo intero – 100gr di pinoli – zucchero a velo per decorare – 1 bustina di vanillina – la buccia di un limone grattugiata.
PROCEDIMENTO: Accendere il forno a 180° (solo sotto) e farlo scaldare bene; mettere sul fuoco a sciogliere il burro e poi metterlo a raffreddare.
Battere le uova con lo zucchero fino a far diventare il composto bianco e spumoso; aggiungere la vanillina e la buccia del limone grattugiata; quindi incorporare alternativamente la farina ed il burro oramai freddo sino ad esaurimento degli ingredienti.
Versare il composto ottenuto in una tortiera imburrata e infarinata; cospargere con i pinoli (1 etto abbondante) ed infornare a 180°, a forno fisso non termo-ventilato, per circa 30 minuti (si può controllare la cottura con tranquillità vista l’assenza del lievito).
Quando la torta è fredda, cospargere con abbondante zucchero a velo. E’ squisita, come Daisy!
da Alessandro Pesce | Ott 9, 2014
(71ma Mostra di Venezia – Fuori Concorso)
Si accende lo schermo su una veduta notturna del golfo di Napoli che si fonde successivamente in uno scenario irreale, una Napoli di grattacieli all’apparenza vuoti e desolati, come una City di un fantafilm sinistro. Perez è un avvocato d’ufficio, uno di quelli che accettano le cause che nessuno altro vuole. C’è qualcosa di cupo nel suo passato che deve averlo annientato; l’unica persona che per cui pare avere dei sentimenti è sua figlia, Tea, chiamata così perché TEA è il femminile di DIO.
Il suo incontro con un pentito di camorra che lo sceglie come difensore cambierà il suo destino, ma neppure questo è certo, nulla sembra essere univoco e tranquillo in questa storia.
E’ un bel personaggio, Perez, come anche gli altri protagonisti del racconto, che sembrano usciti da un libro di Scerbanenco o di Simenon, con le dovute ambiguità di innegabile fascino.
Ma non è il solo pregio di questo eccellente film, firmato da un autore che già vanta diverse prove nei cortometraggi e un lungometraggio di due anni fa, Mozzarella Stories, folle e geniale sebbene un pò irrisolto. Qui non c’è più la vena grottesca e deforme di quel film, che era senza dubbio influenzata dal grande Kusturica, suo estimatore, ma c’è una maggiore consapevolezza, robustezza, maturità e la potenza di certe immagini visionarie conquista (si noti quello squallido Castelvolturno). Interpreti eccellenti: uno Zingaretti insolitamente introiettato, il camaleontico Massimilano Gallo nei chiaroscuri del pentito e una sensibilissima giovane presenza femminile, Simona Tobasco, che è Tea. Consigliato.
data di pubblicazione 9/10/2014
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da Elena Mascioli | Ott 5, 2014
Frances Ha, ovvero del crescere. Non un racconto di formazione, perché la protagonista è una bionda ballerina ormai ventisettenne, ma il tentativo, scanzonato e sconclusionato, come la protagonista del film, di resistere alle prese di coscienza, all’ingresso in un’età cosiddetta adulta. Un Peter Pan in gonnella che si ritrova, senza un preciso progetto o direzione, quasi accidentalmente, a ballare; ma più che in una compagnia di danza in cui non riesce ad entrare, lo fa da una casa all’altra, da una relazione alla “singletudine”, senza un dollaro in tasca, e con un’amicizia del cuore altrettanto strampalata e adolescenziale con la sua Sophie. Con la sincerità di chi, però, non cerca una stabilità e una sicurezza calati dall’alto di una “condotta di vita”, ma vive volteggiando goffamente in una New York dipinta con l’assenza di colori di un bianco e nero accogliente. Gli unici che possono permettersi di fare gli artisti a New York sono ricchi, afferma Frances l’infrequentabile, così definita da uno dei suoi coinquilini. E guardando le immagini, anche senza una vera e propria citazione, sono transitati negli occhi di chi vi scrive la felina Audry di Colazione da Tiffany, rannicchiata alla finestra, ma anche la Sabrina che vola a Parigi, una versione “radical chic” della Bridget Jones britannica, le foglie gialle di A piedi nudi nel parco e…. dialoghi pennellati, degni dell’umorismo di un film nordeuropeo:
– Proust è un po’ pesante
– Beh, però dicono che va letto
– No, intendevo pesante da portare in aereo
Astenersi spettatori in cerca di “trama”.
data di pubblicazione 5/10/2014
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da Alessandro Pesce | Ott 3, 2014
Molto spesso il cinema di Pupi Avati ha incontrato, in primo piano o magari in maniera più sottesa e non protagonista, le tematiche familiari. Per limitarci agli ultimi anni ricordiamo Il papà di Giovanna, tutto sommato convincente con qualche eccesso mélo ed Il figlio più piccolo dove la cattiveria, la cialtronaggine d’ambiente e di caratteri sfociavano in un intreccio assai poco strutturato. Qui c’è un figlio insicuro, alle prese con la memoria rancorosa di un padre sceneggiatore di quart’ordine a cui segue, forse, una probabile apertura grazie al personaggio di un’editrice interessata a una biografia dello scrittore di “ filmacci”.
Interessante questa fusione tutta cerebrale tra memoria del genitore e nuova possibile vocazione del ragazzo, ma purtroppo resa maluccio, con i soliti intoppi e sbavature di un poeta non più lucidissimo, ahimè.
Non ci si aspettava del meta-cinema (anche se qualche accenno c’è) e neppure un riferimento all’imperante tema contemporaneo dell’assenza del PADRE, ci saremmo accontentati di una storia intimista meglio raccontata. Scamarcio sempre più maturo, Sharon Stone spaesata ma naturalmente affascinante, discreti ma senza voli gli altri.
data di pubblicazione 3/10/2014
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