STEVE JOBS di Danny Boyle, 2016

La “ vera storia” di Steve Jobs, rivoluzionario dell’informatica e del marketing, sembrerebbe un invito a nozze per ogni sceneggiatore. Steve Jobs e la Apple, con il futuristico disegno di rendere democratico il computer dotandolo di mouse e di icone, ma mantenendolo elitario attraverso la tecnologia end to end. Steve Jobs dell’ormai leggendario Stay hungry, stay foolish. Steve Jobs che arriva persino al sogno del cinema attraverso la Pixar.

Si correva forse il rischio di dire troppo o di dimenticare qualcosa scegliendo di raccontare tutta la “vera storia” dell’eroe della Apple. Aaron Sorkin (The social network) e la sua sceneggiatura si assumono allora la responsabilità di una scelta definita e, in qualche modo, radicale. Steve Jobs, diretto dalla sapiente macchina da presa di Danny Boyle, assume le sembianze di un’opera in tre atti. Tre presentazioni di altrettanti prodotti, che hanno segnato, nel male e nel bene, la parabola professionale e umana del genio ribelle Jobs, portato sul grande schermo dal talentuoso Michael Fassbender (nelle sale anche con Macbeth).

Nel 1984 viene svelato agli addetti ai lavori il Macintosh 128K: una passo in avanti forse troppo precoce per lo stato di avanzamento della tecnologia dei primi anni Ottanta, che si rivela un insuccesso commerciale e che condurrà alla rottura dei rapporti tra Jobs, la Apple e il suo amministratore delegato John Sculley (Jeff Daniels). Il 1988 è l’anno in cui Jobs si presenta da solo sul palcoscenico con NeXT Computer, il “cubo imperfetto”: è una fase di voluta transizione, che prepara il ritorno del figliol prodigo nella casa della “mela con il morso”. Nel 1998 è la volta dell’iMac: è chiaro a tutti che il momento della svolta è arrivato e che da quella svolta sarà molto difficile tornare indietro.

Lo spettatore assiste alle convulse prove dei tre discorsi di presentazione, in cui le strategie di mercato e le aspettative del visionario Jobs sono sempre legate a filo doppio alle sue controverse vicende personali: l’adozione che ha segnato la sua infanzia, il complicato rapporto con la figlia Lisa, l’incapacità di instaurare con gli amici/collaboratori un rapporto fatto di fiducia e rispetto e la riluttanza ad andare oltre il mito del genio solitario e incompreso. Perché forse un genio è strutturalmente incomprensibile. Ma si può essere geniali anche senza essere scorretti, come fa notare Steve Wozniak (Seth Rogen), compagno di avventura di Jobs fin da quel garage della Silicon Valley in cui tutto ha avuto inizio.

La sceneggiatura, caratterizzata da dialoghi intensi, incisivi e mai fuori tempo e fuori luogo, rappresenta indubbiamente il tratto più caratteristico del film. Pienamente convincenti anche le interpretazioni del protagonista Michael Fassbender e di Kate Winslet, nel ruolo di Joanna Hoffman, capo marketing che si carica anche del difficile ruolo di paziente e fedele “moglie da ufficio”.

La scelta di enfatizzare il ruolo dello Jobs padre, compagno e amico era indubbiamente rischiosa e forse non risulta del tutto convincente rispetto alla vicenda di un uomo che ha immaginato, coltivato e realizzato un sogno tecnologico e una sfida commerciale senza precedenti. Anche un uomo straordinario resta in fondo un uomo comune, ma il mondo è pieno di uomini straordinariamente comuni che il cinema può e deve raccontare. Un film che si intitola Steve Jobs crea delle aspettative indubbiamente elevate, proprio come quelle che l’uomo evocato dal titolo era in grado di plasmare. Aspettative che i 122 minuti di fuoco di dialoghi pressoché ininterrotti e la marcata vena “intimista” non sempre sembrano in grado di soddisfare, restituendo un ritratto già chiaramente tratteggiato dalle pagine di Wikipedia.

data di pubblicazione 24/01/2016


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