da Antonio Iraci | Nov 11, 2014
(Festival Internazionale del film di Roma – Cinema D’Oggi)
Con il meraviglioso ed espressivo sguardo di Emir Kusturica nel vuoto di fronte alla morte, non poteva che far presa sullo spettatore le note del Requiem di Mozart…Claudio Noce, giovane regista romano, al suo secondo lungometraggio anche se già vincitore di importanti premi cinematografici, sembra essere perfettamente a suo agio non solo nei luoghi del trentino, dove la storia si dipana tra ghiacci e venti gelidi, ma anche a dirigere un artista poliedrico del calibro di Kusturica che solo come regista ha vinto due palme d’oro a Cannes, in un personaggio che sembra proprio sia stato concepito e scritto per lui. Molto convincenti anche le interpretazione di Adriano Giannini e di Ksenia Rappoport che si muovono nei loro personaggi con sorprendente e convincente bravura. In un triangolo nevralgico, Italia-Bosnia-Slovenia, si intrecciano traffici poco chiari tra rifugiati e commercio di schiavi. Una enorme diga segna una sorta di confine, forse uno sguardo verso la libertà. La presenza di un orso, che nessuno ha mai visto, è il pretesto che spinge Lena (Rappoport) ad indagare su quel mistero che avvolge tutto. Forse una incombente tempesta riuscirà a cancellare ed a rendere indistinguibile ciò che è già difficile vedere…..
data di pubblicazione 11/11/2014
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da T. Pica | Nov 11, 2014
(Festival Internazionale del Film di Roma – Gala)
Il film Tre Tocchi di Marco Risi regala al pubblico un racconto a tratti dispersivo degli uomini e dei ragazzi del Cinema italiano che provano per affermarsi come gli eredi di Manfredi e Gassman. Si tratta delle storie, in parte vere, condivise con il regista da un gruppo di attori in occasione delle partite di calcio della squadra attori fondata a Roma da Pasolini. Da un lato, i quarantenni che, dopo l’Accademia, anni di teatro e il successo ormai svanito di qualche fiction che va in replica sui canali satellitari, devono ripiegare sui casting per spot pubblicitari e, dall’altro, i trentenni bramosi di gloria che per avere tutto e subito, scendono a compromessi e ricadono nei soliti cliché. A riflettere la comune insoddisfazione e le incertezze dei protagonisti c’è il Padre nostro che, come una litania, accompagna e guida l’intero film: in realtà si tratta semplicemente delle battute che ossessionano i protagonisti, nella disperata ricerca della convocazione per un provino che potrebbe segnare la loro svolta artistica. Ovviamente, l’epilogo è amaro, soprattutto per i sopraggiunti limiti di età dei due attori quarantenni che, disincantati e un pò smarriti, si interrogano sul senso della propria vita e si dimenano tra dolori familiari irrisolti, qualche rimpianto e il secondo lavoro da cameriere. Insomma, tanta amarezza sorregge un groviglio di storie frammentate, che talvolta si perdono in divagazioni superflue, all’insegna di una visione arida e machista del mestiere di attore, in cui gli ostentati nudi e la presunta forza brutale degli attori, calciatori e boxer nel tempo libero, prendono il soppravvento sul sacro fuoco dell’arte, sulla sensibilità e i sentimenti. Il mestiere dell’attore pare appunto debba ruotare introno ai “tre tocchi” del giuoco del calcio, concetto avvalorato dall’assenza della donna “attrice”; ed anche se poi sul finale del film quei “tre tocchi” sono rivisitati in chiave opposta alla virilità ostentata lungo l’intera pellicola, e seppur il film rimane fedele ai ritratti amari firmati Risi (il quale cita Moretti con le parole sono importanti e rispolvera la sedia del Regista Fellini), non riesce comunque a centrare l’obiettivo e non ci fa entrare in empatia con i protagonisti, sebbene interpretino sé stessi con i loro nomi veri, lasciandoci ancora troppo nostalgici per gli attori italiani del passato.
data di pubblicazione 11/11/2014
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da Maria Letizia Panerai | Nov 11, 2014
(71ma Mostra del Cinema di Venezia- in Concorso)
In una cittadina della provincia francese, l’ispettore delle imposte Marc (Benoìt Poelvoorde), dopo aver perso il treno per Parigi entra in un bar per chiedere informazioni su un albergo dove passare la notte; lì incontra una giovane donna, la misteriosa Sylvie (Charlotte Gainsboug) e passeggia con lei sino all’alba; nel salutarsi, i due si danno appuntamento per la settimana successiva a Parigi, in un punto preciso dei giardini de la Tuileries, ma per strani capricci del destino, come i capricci che ogni tanto fanno tumultuare il cuore del cardiopatico Marc, i due non si incontreranno. Dopo qualche tempo, Marc conosce la fragile Sophie (Chiara Mastroianni): i due decidono presto di sposarsi, ma a pochi giorni dal matrimonio l’uomo scoprirà che Sophie è la sorella maggiore di Sylvie. Sarà la madre delle due donne (Catherine Deneuve), a capire “tutto” prima di loro.
Con un cast di alto livello, che si muove in un clima palpitante e fosco marcato costantemente da un motivo musicale da thriller, che sottolinea anche i problemi cardiaci del protagonista, Tre cuori di B. Jacquot ha tuttavia proprio la pecca di un’ambientazione da “imprevisto sempre in agguato”, che non è poi seguita da una reale imprevedibilità degli eventi, a causa anche delle troppe affinità della pellicola con Sliding doors, di Peter Howitt, in cui la vicenda della protagonista si sdoppia in due destini paralleli e separati, uno a lieto fine romantico e l’altro drammatico.
Di questo melò francese, un po’ algido e distante, è comunque da apprezzare l’idea di base, sicuramente originale, in cui il cuore ed il numero tre si rincorrono continuamente: tre sono i cuori di donna, con al centro una madre che continuamente tenta di pilotare la vita affettiva delle figlie, e poi c’è un triangolo amoroso, con la centro la figura di un uomo malato di cuore. Sta allo spettatore scegliere il finale.
data di pubblicazione 11/11/2014
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da Antonella Massaro | Nov 11, 2014
Dal 7 all’11 novembre 2014 Roma ospita le proiezioni di Arcipelago – Festival internazionale di cortometraggi e nuove immagini. I luoghi della manifestazione sono quelli di un quartiere dall’intramontabile suggestione come Garbatella, con i suoi due teatri, il Palladium e l’Ambra, che offrono il palcoscenico a un cinema a cui solo raramente viene concessa la ribalta.
Il 9 novembre, anniversario dei 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, il Festival ha reso omaggio a una data così recente eppure così lontana attraverso due proiezioni inserite nell’evento Da Kreuzberg a Garbatella. Il Muro che (non) c’è: Berlin spricht Wände (2013) di Markus Muthig e Die Mauer (1991) di Jürgen Böttcher.
La serata è proseguita con la proiezione dei film inseriti nella Sezione The Short Planet – Concorso internazionale Cortometraggi e Nuove Immagini.
La storia, il ritmo e gli effetti speciali di The Nostalgist (Giacomo Cimini), impreziositi dalla interpretazione di Lambert Wilson, non hanno nulla da invidiare al cinema di serie A.
Simone Massi, “animatore resistente” e creatore di quella sigla di apertura del Festival di Venezia che lascia puntualmente senza fiato gli Accreditati di ogni ordine e grado, incanta con L’attesa del maggio, proiettato anche a Venezia 71.
Újratervezés di Tóth Barnabás stupisce e commuove per l’efficacia con cui riesce a descrivere l’amore, quello vero, quello che non si lascia imprigionare in un aforisma da cioccolatino, mentre il dissacrante Supervenus di Frédéric Doazan fa sorridere amaramente sul mito della bellezza a ogni costo.
L’impressione, detto altrimenti, è quella di un Festival di tutto rispetto, che tuttavia non pare supportato né dal pubblico né da un’organizzazione in grado di valorizzare tutto quello che di buono c’è in un programma (giustamente) ambizioso. Il Palladium era quasi vuoto e il previsto reading letterario di Michele Alaique è stato sostituito da un contributo audiovisivo dalla qualità tecnica assolutamente inadeguata, come del resto evidenziato dagli stessi organizzatori.
Il cortometraggio dovrebbe essere traghettato fuori dalla ristretta cerchia di amici, parenti e appassionati che non hanno di meglio da fare la sera. È una sfida ancora aperta. E ben venga chi, come Arcipelago, non esita a raccoglierla.
data di pubblicazione 11/11/2014
da Alessandro De Michele | Nov 10, 2014
(Una giovinezza enormemente giovane – Teatro Argentina – Roma, 5/9 novembre 2014)
Il trascorrere del tempo, come spesso accade, è rivelatore dell’autentica grandezza e universalità di un’artista: aldilà di quanto ingombrante possa essere il suo “personaggio” e le sue “personali vicende”,la specificità del suo nucleo poetico, come un prezioso e inesauribile minerale, continua radioattivamente ad emanare una forza e una suggestione potenti, capaci di riattivare la curiosità del pubblico, le riflessioni di intellettuali o l’immaginario di artisti in cerca di ispirazioni rigeneratrici o semplicemente di facili meccanismi identificativi fini a se stessi …( l’ultima fatica di Abel Ferrara è in questo senso indicativa). Pasolini rappresenta l’eccezionale caso in cui un intellettuale di primordine, solido e appassionato, genera, attraverso la grazia della poesia, un’artista eclettico e vitale … capace di stupire, incantare, scandalizzare … confondere; a prezzo di laceranti contraddizioni, oltraggiose esposizioni della propria vita … e del proprio corpo. Ed è proprio dal suo corpo, abbandonato nella desolazione di una notte oscura in cui si sentono solo rumori lontani e un latrare di cani, che parte Una giovinezza enormemente giovane, lo spettacolo tratto dal testo del compianto Gianni Borgna, elaborato su scritti di Pasolini: dunque la scena è quella del delitto, un delitto ratificato nell’atrocità di quella notte, ma presagito come destino ineluttabile attraverso tutto il corpus della sua opera. Suggestiva e inquietante è l’apertura dello spettacolo che ci introduce subito nella teatrale dimensione de – l’oltre – attraverso la presenza metafisica dello stesso Pasolini (interpretato da Roberto Herlitzka); il poeta osserva il proprio cadavere … impastato di sangue e fango, stigmatizzazione di una fine emblematica e catartica … proprio come in una sacra rappresentazione. Se il registro dello spettacolo sembra inizialmente voler attingere proprio alle suggestioni del Sacro (poi ribadite un pò didascalicamente nel finale con la musica di Bach e le immagini tratte dal “Vangelo”) … la riflessione-monologo a cui lo stesso Pasolini-Herlitzka si abbandona nel corso dello spettacolo ha qualcosa di troppo programmaticamente pensato ai fini di una esaustiva e sintetica celebrazione del Pasolini pensatore civile, per sorprenderci ed emozionarci veramente: attingendo dagli Scritti corsari, dalle Lettere luterane e da quel profondo e magmatico contenitore che è Petrolio, non mancano riferimenti ai misteri dell’ENI, alla fine di Mattei, al genocidio delle periferie a l’omologazione culturale che ha cancellato l’orizzonte delle piccole patrie … e sull’orizzonte delle stragi, la spiazzante e profetica previsione di un popolo che come polli d’allevamento – avrebbe accettato – la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo. Niente di più appropriato e pertinente dunque, per i nostri desolati giorni, in termini etici e di contenuti … ma sulla scena qualcosa scricchiola: un sapore convenzionalmente celebrativo appunto, che va a scapito della poesia, della tensione e della coesione del testo (perchè quel lungo elenco con nomi e generalità delle vittime delle stragi di Piazza Fontana?) – c’è un tono un pò troppo fiacco e monitorio nella recitazione del protagonista, che contraddice l’ambigua vitalità di Pasolini … e in questo senso forse, l’ossuta e un pò anchilosata fisicità di Herlitzka (superbo attore dal volto pieno di pathos) che si trascina con passo stanco e senile sulla scena contribuiscono a ribadire questo senso di estraniamento dalla disperata vitalità del poeta! – ( … perché allora, muovendosi nella dimensione metafisica della scena-teatro, non farlo interpretare da un attore enormemente giovane che con la fisicità di un calciatore avrebbe intonato col giusto vigore i giovanili versi friulani?…) soprattutto nel finale, quando il testo rievoca l’ultima notte in cui spinto da quella oscura, famelica pulsione che lo possedeva, compie quella che forse è la più tragica e al tempo stesso sublime esperienza a cui un artista può aspirare: la deflagrante collisione che porta a fondersi la realtà con la sua rappresentazione …la vita con la propria creazione. Forse proprio per questo Pierpaolo Pasolini …. non smetterà mai di parlarci!
data di pubblicazione 10/11/2014
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da Alessandro Pesce | Nov 7, 2014
Che uno spettacolo di successo venga ripreso dopo anni dalla première e per la terza volta, con la stessa protagonista e il medesimo allestimento, non è un fatto frequentissimo per i teatri italiani.
Ancora più singolare è che non si tratti di un classico ma di un autore contemporaneo Annibale Ruccello, senz’altro il più interessante drammaturgo che ha operato in Italia negli anni 80, consacrato da diversi successi sia in Patria che all’estero, forse ancora di più dopo la sua tragica scomparsa.
E’ stato autore di storie spesso estreme e visionarie, ma nello stesso tempo connesse strettamente alla realtà dei nostri tempi, e a volte, come in questo caso, addirittura profetiche, nel senso che una storia come quella della casalinga Adriana Imparato, frustrata e depressa e del suo tragico finale. oggi è ancora più attuale e vivo e ahimè più vicino alle nostre maledette cronache quotidiane.
Come in tutte le opere di Ruccello anche in Notturno si mescolano ad arte ironia, divertimento, dramma, commozione, surrealismo e naturalismo, sangue e poesia, comicità e thrilling.
La regia di Enrico Maria Lamanna ha saputo con precisione e lucidità (doti che poi quel regista non ha poi più saputo trovare), interpretare la varietà dei toni della pièce e felicemente ha ricreato in scena quell’ambiente degradato di hinterland partenopeo, toccando l’apice della regia nei momenti di “sogno” come quando si materializza il ricordo del Padre-Madre o nelle “apparizioni” degli “ospiti”.
Un cast perfetto fa da contorno alla protagonista meravigliosa, Giuliana De Sio, che per la terza volta affronta questo difficile personaggio tra fragilità e follia, solitudine e voglia di sognare. L’attrice ritrova la straordinaria complicità con il personaggio aggiungendo nuovi fremiti di maturità dopo il difficile momento di malattia che ha attraversato.
L’esito del pubblico di fronte a questo spettacolo si conferma entusiasta, come se il pubblico avvertisse di essere di fronte a qualcosa di urgente, che ci appartiene, che poi è il vero senso del Teatro.
Dopo Napoli lo spettacolo sarà a novembre a Roma e poi in tournée a beneficio degli spettatori che non hanno potuto vederlo nel 1996 e nel 2003.
data di pubblicazione 7/11/2014
Il nostro voto: 
da Accreditati | Nov 6, 2014
Parenti serpenti è una splendida commedia drammatica del grande Mario Monicelli. Ambientato a Sulmona durante le festività natalizie, il film descrive perfettamente un falso clima di festa tra i componenti di una numerosa famiglia che sono soliti riunirsi una volta l’anno, facendo finta di essere felici di rivedersi, e mette subito in evidenza quel sottile filo di invidia che esiste tra i fratelli e sorelle e rispettivi consorti, le maldicenze dette a mezza bocca, le falsità. L’ambiente poi si riscalda ulteriormente allorquando la notte di Natale gli anziani genitori (Paolo Panelli e Pia Velsi), di fronte alla tavola imbandita con ogni ben di Dio ed ingenuamente contenti di essere circondati dall’affetto dei figli (Marina Confalone, Monica Scattini, Eugenio Masciari e Alessandro Haber), nipoti, generi e nuora, comunicano che non se la sentono di vivere più da soli e che vorrebbero tanto andare a vivere con uno dei loro 4 figli. Iniziano le prime discussioni, che nei giorni a seguire sfociano in accesi litigi, sino ad arrivare ad un epilogo drammatico ed imprevedibile nella notte di capodanno. A questo film, decisamente imperdibile, vogliamo abbinare un tipico piatto abruzzese per il giorno di Natale: il brodo col cardone, conosciuto anche come zuppa di Natale con cardone e brodo di cappone.
INGREDIENTI (per 6-8 persone): 1.5 kg di cardone – 1 kg di carne possibilmente di cappone – 300 gr di carne macinata – pane raffermo – mollica di pane a dadi – quattro uova- una cipolla – un sedano – un po’ di indivia riccia – una carota – due foglioline di prezzemolo – una bottiglia di passata di
pomodoro – due cucchiai di parmigiano – sale q.b. – olio extra vergine di oliva
PROCEDIMENTO: Il cardo è una pianta, che viene pulita per bene, tagliata a cubetti e poi messa a lessare, per molto e molto tempo. A parte si fa il classico brodo di cappone, quando il cardo è cotto, si scola, e si versa nel brodo e si fa insaporire con quest’ultimo. Vengono aggiunte poi le polpettine di macinato, e la stracciatella con uovo e parmigiano, il pane fritto… una vera bomba calorica, ma davvero ottima. E’ una preparazione lunga, ed infatti si fa solo a Natale… per fortuna ora si trova in commercio il cardo già pulito e fatto a dadini. Questo piatto tradizionale si consuma il giorno di Natale: il brodo, come da tradizione, viene fatto con cappone e viene lasciato bollire per circa tre ore. Per accorciare i tempi di cottura, si può utilizzare la pentola a pressione, il risultato è garantito! Prendete la carne di cappone, lavatela, immergetela in due-tre litri di acqua fredda affinché ceda gradatamente i propri succhi durante la cottura. Aggiungete alla carne: una grossa cipolla sbucciata, una carota pulita, una costa di sedano con le sue foglie, alcuni cucchiai di passata di pomodoro, a vostro gusto, per dare colore al brodo. Le verdure vanno lessate a parte e lasciate intere. Salate, chiudete ermeticamente e lasciate bollire per un’ora e mezza circa, a fiamma bassa. Ultimata la cottura, il brodo va lasciato raffreddare, affinché il grasso in eccesso si rapprenda e possa essere sottratto con una schiumarola. La carne bollita può essere consumata nei giorni successivi. Nel brodo vengono tuffati: della polpettine di carne macinata e soffritta, le coste di cardone sbollentate e tagliate a pezzetti, la stracciatella cioè un battuto di 2 uova e parmigiano e dei pezzetti di mollica di pane fritto. Per le polpettine: prendete la carne macinata, conditela con un po’ di sale e prezzemolo, bagnatevi le mani e procedete fare della palline di composto, delle dimensioni di una nocciola. Soffriggetele in un cucchiaio di olio extravergine d’oliva e tenetele da parte. Il cardone va pulito scartandone le parti più dura, tagliato a cubetti e sbollentato. Lo scarto è molto, pulitelo coi guanti o vi resteranno le mani nere! Lo stesso vale per l’indivia che dovrà essere sbollentata e finemente tagliata. Il piatto finito è molto buono, la fatica sarà ripagata!
da Maria Letizia Panerai | Nov 6, 2014
E’ il primo film di Ozpetek ambientato nel Salento, ed ha ottenuto molti riconoscimenti internazionali, oltre a 2 David di Donatello 5 Nastri d’argento. Ritroviamo la coralità delle Fate Ignoranti e di Saturno Contro, ma anche una maggiore maturità del regista che appare evidente dalla generosa ironia che aleggia in tutto il film. Bravissimi gli attori. Bellissima la colonna sonora, con due canzoni, una di Patty Pravo e una di Nina Zilli, degne di nota. Abbiniamo a questo film, da rivedere in compagnia di amici, una ricetta a base di orecchiette, veloce e fresca. Ecco la nostra ricetta di orecchiette estive.
INGREDIENTI: 1/2kg di orecchiette fresche -3 carote e 3 zucchine tagliate a julienne – 3 etti di tonno tagliato a cubetti o 1 scatola da 3 etti di tonno in scatola sotto vetro – un pezzetto di zenzero – qualche cappero sotto aceto – 1 acciuga – la buccia grattugiata di un limone – sale e pepe q.b. – olio.
PROCEDIMENTO: Mettere a rosolare con un pò di olio, i cubetti di tonno in una pentola wok (se non si usa il tonno fresco, non bisogna fare questo passaggio); togliere il tonno dopo qualche minuto, aggiungere un po’ di olio e mettere a cuocere nel fondo di cottura così ottenuto le carote e le zucchine tagliate a julienne ed alzare la fiamma: devono cuocere a fuoco vivo. Finita la cottura (devono restare croccanti), aggiungere di nuovo il tonno (in scatola o a cubetti precedentemente rosolati), girare e spegnere il fuoco. Ripassare le orecchiette scolate al dente nel wok con tonno e zucchine; spegnere il fuoco ed aggiungere a crudo un trito fatto da: 1 acciuga, qualche cappero, un pezzetto di zenzero e la buccia di un limone grattugiata. Servire con foglie di basilico fresco ed una spruzzata di olio a crudo. Piatto ottimo per le cene estive.
da Giulio Luciani | Nov 4, 2014

(Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2014 – Concorso)
Acclamato vincitore dell’Orso d’argento per la regia a Berlino 2014 e opera di fiction in cui l’elemento della fantasia è davvero ridotto al minimo, a chi mi chiedesse cos’è Boyhood, risponderei che è un ritratto dell’adolescenza maschile raccontata senza i tanti filtri e strumenti manipolativi offerti dal cinema.
A reggere l’intero film sono gli attori principali che hanno animato un set durato ben dodici anni (dal 2002 al 2013) per immortalare ogni cambiamento fisico lasciato dal tempo sui loro corpi e sui loro caratteri. L’adolescenza di Mason (Ellar Coltrane) scorre fluida per quasi tre ore di film, senza annoiare ma senza cercare a tutti i costi l’intrattenimento, limitandosi a fotografare le inquietudini del protagonista, il rapporto di amore e litigio con la sorella, la fragilità e le scelte sbagliate della madre sola (Patricia Arquette) e l’ingenua immaturità del padre (Ethan Hawke).
L’esperimento di far procedere la storia con la crescita e l’invecchiamento naturale del cast, anziché adattare la scelta del cast all’andamento forzoso della narrazione, è indubbiamente affascinante. Altrettanto suggestivo è il percorso a ritroso scelto da Linklater di lavorare sulla sceneggiatura per sottrazione, piuttosto che infarcendo di trovate originali e uniche la vita tutto sommato ordinaria di un adolescente americano come tanti altri. In perfetta sintonia con questa scelta registica, le emozioni sono ben dosate e contenute: è rimesso alla sensibilità dello spettatore se provarle o meno sulla propria pelle e immergersi in questa storia di adolescenza per rivivere un po’ la propria.
Il punto di forza del film è forse proprio questa inversione del classico modo di portare una storia al cinema e Mason conquista un posto in prima fila in quella schiera di adolescenti, straordinariamente ordinari, che hanno lasciato un segno nelle mie letture e nelle mie visioni in sala, dall’Holden Caulfield di Salinger (Il giovane Holden) al Paul Sveck di Cameron e Faenza (Un giorno questo dolore ti sarà utile), passando per l’esoterico Donnie Darko e il sognante Charlie di Noi siamo infinito.
data di pubblicazione 4/11/2014
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da Alessandro Pesce | Nov 3, 2014
(Festival Internazionale del film di Roma 2014 – Prospettive Italia)
Una barca, persone al sole, un senso di attrito tra di loro. Sin dalle prime immagini siamo coinvolti in una specie di attesa, un senso di intrigo, un qualcosa di minaccioso, che le magnifiche scene di mare e di vacanza non attenuano, anzi è come se tutto concorresse all’aspettativa di un eventuale accadimento non piacevole. Poi, una donna giapponese, un bambino che non le parla, un segreto, una condanna, e ancora un ghiaccio che faticosamente si scioglie, la sensazione di thriller psicologico volge allora verso il dramma familiare. Da tenere assolutamente d’occhio questo giovane regista esordiente Leonardo Guerra Seràgnoli, per la bravura registica e la maestria sorvegliatissima nel creare la giusta atmosfera.
Girato in inglese con attori stranieri, collaborazioni di lusso (la super premiata costumista Canonero), un film italiano che sa di internazionale.
data di pubblicazione 3/11/2014
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