POINT BREAK di Ericson Core, 2016

POINT BREAK di Ericson Core, 2016

Nell’epoca di YouTube chiunque può godere di qualche minuto di celebrità, ma la fama accompagna in modo decisamente più persistente le persone in grado di stupire, affascinare e divertire con le proprie imprese. È in questo modo che Utha (Luke Bracey), giovane e intrepido amante del motocross, conquista il successo: facoltosi sponsor finanziano le sue incredibili gesta ad alto rischio. Nonostante Utha sia assolutamente appagato e pagato per fare ciò che desidera, la sua vita viene sconvolta da un tragico incidente che lo spinge a tentare l’ingresso nel Federal Bureau of Investigation (FBI).

Per farsi strada in un contesto lavorativo fortemente scettico di fronte al suo curriculum vitae, Utha si concentra sul complesso caso di una banda di ladri, guidata da Bodhi (Edgar Ramirez), che realizza delle “spettacolari” rapine.

“L’unica legge che conta è quella di gravità”: in questa frase può riassumersi l’ideologia di cui Bodhi, il leader di un gruppo di amanti degli sport estremi, si fa portatore. Seguendo le orme di Ozaki, ideatore di otto prove in cui ci si incontra/scontra con le forze della natura, Bodhi vuole scuotere le coscienze al fine di ripristinare un equilibrio tra uomo e natura ormai alterato dalla convinzione del primo di poter dominare, con i propri schemi e le proprie leggi, la seconda.

Point break di Ericson Core è il remake dell’omonimo film del 1991 diretto da Kathryn Bigelow e interpretato da Keanu Reeves e da Patrick Swayze, dal quale però si differenzia per una diversa connotazione psicologica dei protagonisti. Gli elementi di novità inseriti nella trama, tuttavia, sono poco convincenti e non fanno altro che rendere più oscure e incomprensibili le ragioni che stanno alla base delle azioni dei vari personaggi. La pellicola del 2016, inoltre, concentrandosi principalmente sul legame che si instaura tra Utha e Bodhi, lascia piuttosto ai margini sia il rapporto con il più anziano ed esperto collega Pappas sia la breve liaison amorosa con la figlia adottiva del “maestro” Ozaki.

Unica nota realmente positiva, pertanto, è da rintracciarsi nelle imprese al cardiopalma affrontate dagli aitanti ed avvenenti attori che lasciano lo spettatore con il fiato sospeso e che rendono del tutto accessori se non superflui quei pochi dialoghi, scontati e a tratti insignificanti, che fanno della sceneggiatura un elemento quasi inesistente.

Rimane da chiedersi, dunque, se valga la pena vedere un remake che sminuisce il valore della lotta ambientalista, usandola come bandiera per nascondere l’inconsistenza degli obiettivi perseguiti dai protagonisti. In ultima analisi, il confronto tra le due pellicole va a tutto svantaggio del remake che si rivela un tentativo di giustapporre a un film d’azione, che se lasciato tale avrebbe trovato una sua ragion d’essere, un’ideologia ambientalista affrontata in modo maldestro e superficiale.

data di pubblicazione: 01/02/2016


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CREED – NATO PER COMBATTERE di Ryan Coogler, 2016

CREED – NATO PER COMBATTERE di Ryan Coogler, 2016

In un’epoca cinematografica segnata dai grandi ritorni, esce in sala il settimo capitolo della longeva e fortunata “saga” di Rocky Balboa. In realtà Creed – Nato per combattere di Ryan Coogler vede come protagonista Adonis (Michael B. Jordan), il figlio illegittimo del grande campione Apollo che, come il più fedele pubblico saprà, si era battuto onorevolmente con lo stallone italiano in Rocky e Rocky II, per poi cadere sul ring per mano del temibile russo Ivan Drago in Rocky IV.

L’infanzia di Adonis è segnata da dolorosi abbandoni: dopo la morte del padre avvenuta prima della sua nascita, Adonis perde anche la madre e si ritrova a fare i conti con assistenti sociali, case-famiglia e riformatori. Del carattere superbo, orgoglioso e sicuro di Apollo il “baby Creed” ha ben poco, ma non gli manca quella voglia viscerale di combattere che lo spinge a intraprendere la dura strada del pugilato.

In cerca di una famiglia ma soprattutto di realizzazione, cominciano a susseguirsi gli incontri: da quelli più significativi con la mamma adottiva (Phylicia Rashād), con l’affascinante vicina di casa, con lo “zio” Rocky che rappresenta il più stretto legame con il mai conosciuto padre a quelli più duri sul ring.

Creed – Nato per combattere contiene molti richiami a scene emblematiche delle precedenti pellicole, anche se rimaneggiati in chiave moderna come ad esempio la corsa del giovane atleta che invece di essere seguito da una folla di bambini è accompagnato da adolescenti in sella a rombanti moto. Del tutto nuova e originale è la presentazione dei diversi pugili con cui il protagonista si incontra-scontra la quale avviene tramite schede illustrative delle loro carriere.

Ciò che maggiormente colpisce del film rimane pur sempre la “vecchia roccia”, Rocky che, sebbene non protagonista dell’arena, resta un valoroso combattente, dovendo fronteggiare le conseguenze che l’inesorabile scorrere del tempo comporta. L’interpretazione di Sylvester Stallone è toccante, riuscendo a riportare in scena il personaggio che ha fatto innamorare il grande pubblico più che per le vittorie ottenute per il grande cuore e per la saggezza che solo gli uomini umili e semplici riescono ad avere.

Per gli affezionati si tratta di un appuntamento da non perdere non solo per la nostalgica voglia di veder indossare nuovamente i guantoni, ma soprattutto per il coinvolgimento che il film riesce a creare. Per il nuovo pubblico, invece, si presenta l’occasione di conoscere grandi nomi del pugilato cinematografico e di riscoprire vecchi valori quali l’amore per la propria famiglia, l’attaccamento alle proprie radici e l’importanza di impegnarsi nella vita, anche e soprattutto quando si tratti di “riscrivere la storia” onorando il nome di un padre campione, Creed.

data di pubblicazione 17/01/2016


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IL MESTIERE DELL’OMICIDIO di Richard Harris, regia di Raffaele Castria

IL MESTIERE DELL’OMICIDIO di Richard Harris, regia di Raffaele Castria

(Teatro Stabile del Giallo – Roma, 16 ottobre/29 novembre 2015)

La suspense, i meccanismi logici del cervello che si animano per esaminare tutte le circostanze del caso, la sicurezza che il bene trionfi sul male quando l’omicida viene finalmente assicurato alla giustizia: questi gli elementi vincenti della formula del giallo. Si tratta di un genere intramontabile, come dimostrato dai molteplici successi letterari e cinematografici.

Cosa accade, però, se a sorreggere le trame intricate del giallo non siano le pagine di un libro né la pellicola cinematografica, bensì il palco di un teatro? A prima vista il teatro sembra prestarsi poco alla dinamicità che caratterizza il “mistery”: una scena non sempre semplice da cambiare deve fare da sfondo ai numerosi dettagli e particolari di cui l’intreccio si compone. Eppure il Teatro stabile del giallo riesce a stupire, mettendo in scena Il mestiere dell’omicidio con grande destrezza: un brillante Paolo De Vita, già noto al pubblico sia del grande sia del piccolo schermo (tra gli altri: La meglio gioventù, La stanza del figlio, Don Matteo, R.I.S. Roma – Delitti imperfetti), interpreta Mr. Stone, un uomo la cui vita, senza apparenti motivi, si intreccia con quelle del detective Hallet (Paolo Romano) e della giornalista-scrittrice Dee Redmond (Linda Manganelli). Siamo ben lontani, però, dai personaggi stereotipati del poliziotto giusto che domina con la ragione gli eventi e della giornalista-scrittrice che utilizza le proprie capacità intellettive per risolvere abilmente intricati casi: Paolo Romano e Linda Manganelli interpretano dei personaggi travolti, più o meno inconsapevolmente, dagli eventi e passano dall’essere burattinai all’essere burattini di un “teatrino” tinto di giallo.

Se il finale risulta un po’ forzato nel tentativo di stupire a ogni costo, non si può nascondere che la rappresentazione nel suo complesso rapisce e cattura a tal punto da far perdere la percezione del tempo che passa.

Il mestiere dell’omicidio chiude il sipario il 29 novembre, ma il cartellone del Teatro stabile del giallo è già definito fino a maggio 2016. Chi ama il genere “mistery” non può perdersi l’appuntamento, soprattutto se vuole scoprire il vincitore del misterioso quiz e gli invitati alla cena finale. Di che si tratta? Si sa che quando si parla di gialli non si può svelare tutto.

data di pubblicazione 22/11/2015


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LO STAGISTA INASPETTATO di Nancy Meyers, 2015

LO STAGISTA INASPETTATO di Nancy Meyers, 2015

Ben Whittaker (Robert De Niro) è un “signore” alle prese con la terza età e con tutto ciò che essa comporta in termini di perdite frequenti e di vuoti incolmabili. Pur non mancandogli interessi e passatempi, decide di tornare nuovamente a far parte degli ingranaggi tipici del mondo del lavoro. Qui incontra Jules (Anne Hathaway), ideatrice di un nuovo format di vendita online, dinamica e creativa, ma soprattutto innamorata del suo lavoro. Se per stare dietro a tutti gli impegni che la sua attività in ascesa comporta si muove nell’open space in cui lavora con una bicicletta, l’escamotage non funziona quando si tratta di occuparsi della sua famiglia e, in particolare, di un marito che ha abbandonato la sua carriera per consentire alla moglie di proseguire la propria e che presenta i primi segni della sindrome “da abbandono”.

Ben entra velocemente nelle vite e nei cuori dei suoi colleghi, divenendo modello esemplare di una specie in via di estinzione, quella dei cavalieri senza macchia; più faticosamente riesce a fare breccia nella impenetrabile corazza di Jules, dimostrandosi insospettabile fautore della lotta femminista e sostenitore dei diritti della donna. Sembra difficile trovare nella realtà un uomo così perfetto, un sostenitore e una guida, ma forse lo scopo del film è quello di prospettare la possibilità che gli uomini non si intimoriscano dinanzi a donne in carriera e intelligenti e siano in grado di star loro accanto. In questa realtà, l’uomo è capace di farsi da parte proprio come Robert De Niro che, protagonista nella parte iniziale del film, lascia poi tale ruolo alla sua, altrettanto brava, collega Anne Hathaway.

Il film si arricchisce di qualche divertente sequenza ma, volgendo verso la conclusione, perde di mordente e finisce per rivelarsi la tipica commedia USA in cui il sogno americano viene realizzato da una donna, in piena coerenza con un mondo che vede sempre più il sesso femminile protagonista. Tuttavia, anche se volto a esaltare la figura della donna in carriera in un’ottica anticonformista, Lo stagista inaspettato incorre a volte negli stessi cliché che condanna, come avviene con la figura del marito di Jules, “mammo” non per scelta che viene calato troppo esageratamente nello stereotipo della casalinga disperata.

data di pubblicazione 25/10/2015


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