FUGA DA ALCATRAZ di Don Siegel – Evento su Netflix

Netflix ripropone un classico del genere, datato 1979, forse il più conosciuto tra i prison movie. Aggiunto di recente, è già tra i primi dieci film “più visti” sulla nota piattaforma. La materia è costruita a partire da un fatto realmente accaduto: l’evasione di tre detenuti – Frank Morris e i fratelli Anglin – dal penitenziario di massima sicurezza al largo della baia di San Francisco. Reclusi, come tanti altri sull’isola. Fuggiti, come nessun altro prima di loro. E mai ritrovati.

Il nome, che pare svettare maestoso già nel titolo, riecheggia nella memoria di tutti noi. Alcatraz, dal suono quasi onomatopeico, è roccia che emerge nella sua crudezza, come una mannaia pronta a tranciare carni, e vite umane.

Sin dalle primissime inquadrature lo spettatore è immerso nel buio più cupo, dentro un tunnel di rumori sordi e ripetitivi. Una pioggia battente pare sospingere il battello di Caronte, carico di prigionieri, verso la tana che non offre riparo, né lascia presagire alcuna via d’uscita.

Interpretato da un Clint Eastwood solido e carismatico, il personaggio di Morris avanza a testa alta, va incontro a quel destino che appare da subito segnato in modo irreversibile. Non ci si chiede – né si saprà – quale sia il crimine da lui commesso, cosa abbia fatto “prima”, né da dove arrivi. Si può solo seguirlo in questa discesa agli Inferi, in catene e con gli occhi dietro le spalle.

Le scene si susseguono combinando spesso brevità e lentezza, cosicché i tempi dell’azione e quelli della riflessione (o dell’apatia) risultano ora contratti ora dilatati. Le sbarre di ogni singola cella si chiudono e si riaprono come macabri meccanismi a molla. Le guardie misurano i corridoi a piccoli passi regolari. I gesti sono reiterati e opprimenti, così come gli oggetti, snaturati e convertiti in altro, al pari degli individui. Il pathos, però – onnipresente nel rapporto tra quasi tutti i carcerati – è amplificato da un fraseggio di sguardi, talora molto intensi, tanto da sopperire all’impossibile scambio di parole o al contatto fisico negato.

La tensione, specie nella seconda parte del film, cresce via via che il piano di fuga procede facendosi sempre più concreto e rischioso. Non mancano elementi di suspense degni del migliore Hitchcock (il vicino di cella, incaricato di dare l’allarme all’approssimarsi del secondino, mentre Morris “scava” sul muro, nel momento fatidico non riesce a fischiare e dalle labbra quasi atrofizzate viene fuori un soffio impercettibile). Guardando oltre gli stratagemmi narrativi, il messaggio si mostra allo spettatore di ieri e di oggi con estrema chiarezza e mira a far riflettere sulla condizione dell’uomo privato della sua stessa umanità. L’essere braccato e inerme, sottoposto a violenze di rara crudeltà, in un ribaltamento di piani che quasi mai viene messo in rilievo nella giusta misura.

Dal primo all’ultimo momento, nel corso della pellicola, non ci si chiede cosa abbia fatto ciascuno di quei condannati. Né ci viene detto, il più delle volte. Ci basta, per immedesimarci, riconoscere qualche frammento di umanità in ciò che di umano ha ormai poco o nulla. Un topolino scelto come unico e inseparabile amico, una tavolozza di colori per “liberare” l’anima… o un crisantemo, il fiore che sopravvive alla morte, pur non essendo rosa né tulipano.

data di pubblicazione:17/02/2025

1 commento

  1. Grazie , la tua recensione mi ha fatto tornare interesse a rivederlo con molta più curiosità .

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