da Antonio Jacolina | Lug 14, 2021
Durante una cena fra due coppie di amici di vecchia data, la dolce e tenera Léa (Bérénice Bejo), commessa in un negozio di abbigliamento, annuncia al marito (Vincent Cassel) ed agli amici (Florence Foresti e François Damiens) che sta scrivendo un libro che sottoporrà ad un noto editore. Tutti restano increduli, non è pensabile che possa aver successo! ed allora, per emulazione, anche gli amici provano a dar spazio alle proprie velleitarie vocazioni artistiche. Da lì in poi nulla sarà più come prima per nessuno, frustrazioni, gelosie, fatuità si contrappongono alla gentilezza ed al candore di Léa…
Finalmente “Notti Magiche” e… finalmente anche di nuovo al cinema, ma… sala deserta! Per fortuna, perché così ci si può egoisticamente godere il film come in una proiezione privata, ma anche peccato! perché ciò significa in realtà che, pur complice l’Estate, quel certo pubblico che avrebbe sicuramente affollato la sala, probabilmente non tornerà più al cinema!
Detto questo veniamo al film che Daniel Cohen ha scritto e messo in scena, dapprima in Teatro ed ora sugli schermi, riservandosi anche una simpatica caratterizzazione. Si tratta di una piccola commedia di costume molto, molto francese, sulla gelosia/invidia degli amici verso il talento degli altri e sulle velleità e le mediocrità rese ancor più evidenti dall’imprevisto successo di un’amica.
Allora è proprio vero che la felicità di uno provoca l’infelicità degli altri? Si tratta di un film che riesce a restare nei toni della commedia senza eccessive forzature pur nel realismo delle situazioni e nella veridicità della rappresentazione dei caratteri dei personaggi.
Un film francese, centrato quindi sui sentimenti, sul sentire intimo, sull’interpretazione attoriale e molto parlato. I testi, però, vista l’origine teatrale, sono perfetti, intelligenti, reali e cesellati alla perfezione, il ritmo è incalzante e gli attori, uno più bravo dell’altro, sono non solo giusti ma anche veri e complici tra loro, oltre che ben diretti. Tutto funziona perché supportato da una solida sceneggiatura. Da segnalare un insolito Vincent Cassel che, fuori dai suoi abituali ruoli da macho, dà vita a un uomo fragile, insicuro, con una totale identificazione e credibilità. Al centro, ovviamente, la dolce, bella e brava Bérénice Bejo. Brillanti i due coprotagonisti, velleitari e senza talento quanto basta. L’origine teatrale è molto evidente ma il film, piano piano, decolla coinvolgendo e divertendo con garbo leggero, senza volgarità. Davvero una piccola, simpatica commedia umana. Non aspettatevi un capolavoro – del resto non ha nemmeno l’ambizione di esserlo – perché La Felicità degli Altri è solo un film agrodolce, gradevole e piacevole a vedersi che fa anche riflettere sulla fragilità delle situazioni umane che possono apparire spesso stabili ma, in realtà, un semplice nonnulla, anche positivo, le può far traballare e modificare non necessariamente in peggio. Un piccolo film che fa passare 140 minuti piacevolmente, il che non è affatto poco, tutt’altro!
data di pubblicazione:14/07/2021
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da Rossano Giuppa | Lug 5, 2021
(Teatro Argentina – Roma, 22 giugno/4 luglio 2021)
Dal 22 giugno al 4 luglio il Teatro Argentina di Roma ha ospitato Sun & Sea, performance-opera nata della collaborazione tra Rugilė Barzdžiukaitė, regista di cinema e teatro e artista visiva, Vaiva Grainytė, scrittrice, drammaturga e poeta, e Lina Lapelytė, artista, compositrice e performer, con la supervisione di Lucia Pietroiusti, vincitrice nel 2019 del Leone d’Oro come Migliore Partecipazione Nazionale alla 58a Biennale di Venezia. Nel suo unico allestimento italiano, l’opera-performance svuota la platea per riempire di sabbia la storica sala trasformandola in una spiaggia vista dall’alto, nella quale un gruppo di bagnanti, in una assolta giornata estiva trascorre momenti di relax, raccontando in primis la propria quotidianità per arrivare ad un coro universale di voci che drammaticamente enfatizza il rapporto fra la specie umana e le urgenze del cambiamento climatico.
Un lavoro innovativo delle tre artiste lituane, un’opera performance che introduce alcune tra le più urgenti questioni ecologiche dei nostri tempi in una rinnovata messa in scena pensata proprio per il Teatro romano per rivedere un lavoro articolato, suggestivo, ricco di livelli interpretativi, in un contesto diverso e con un risultato diverso. Mentre a Venezia, la stessa fruizione non sottostava a nessun limite di tempo, e la stessa esecuzione canora aveva una dilatazione maggiore, a Roma il tutto si comprime in 60 minuti di spettacolo-performance che coinvolge un folto cast composto da oltre trenta figuranti, tra cantanti e performer.
A Venezia, la riproduzione di una spiaggia all’interno di un impianto navale dismesso, in qualche modo poteva risultare in linea con l’ambiente balneare del lido della città lagunare, e provocare, comunque, un certo spiazzamento, a Roma, lo spaesamento è di sicuro totale. All’interno del Teatro Argentina a partire dai palchi del primo ordine il pubblico ha una veduta a volo d’uccello sulla scena, in cui i personaggi appaiono come un tipico gruppo di vacanzieri di età varie sdraiati in costume da bagno sotto il sole estivo accecante: ragazze che praticano yoga, un ragazzo che gioca col suo piccolo saltellante cagnolino, un bambino che costruisce la sua capanna con gli ombrelloni, la signora che manda messaggi col cellulare, le due gemelle con gli stessi vestiti e le stesse trecce. Nella calura di un eterno mezzogiorno, i personaggi iniziano a raccontare le proprie storie. Da narrazioni frivole si passa ad argomenti di più ampio respiro, che crescono fino a diventare una sinfonia globale, un coro umano che gradualmente diventa consapevole del cambiamento climatico su scala planetaria. Allo svolgersi del libretto, lo spettatore scopre poco a poco ogni personaggio della scena che, cantando, rivela le proprie preoccupazioni. Da irrilevanti premure per prevenire scottature o future vacanze, all’angosciante timore di imminenti catastrofi ambientali che emerge dal più profondo della propria precaria esistenza. Le micro-storie banali e leggere della spiaggia affollata lasciano il posto a riflessioni corali.
“È più facile trasmettere il macrocosmo attraverso un microcosmo, mentre le esperienze terrene e individuali offrono l’opportunità di cogliere i principali problemi. È possibile influenzare le discussioni su eventi globali a livello emotivo o intellettuale con una semplice narrazione, un frammento di questo macrocosmo” raccontano le autrici.
Opera d’arte inaspettata, grazie ad uno approccio non convenzionale, un ossrvatorio separato ma non distaccato dalla scena e dalla situazione quotidiana, che rompe gli schemi dell’opera tradizionale e creando nuove possibili forme di espressione per questo genere. Una forte vitalità unita alla progressiva comprensione e coinvolgimento dello spettatore amplificato dalla bellezza dei canti (assoli e corali) di cui non è facile individuare la fonte, creano una magia che cattura e fa riflettere profondamente.
data di pubblicazione:05/07/2021
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Giu 14, 2021
(Teatro Argentina-Roma, 5/13 giugno 2021)
Il regista Carmelo Rifici, dopo il lavoro su Ifigenia, presentato nel 2017, prosegue la sua esplorazione dei classici con lo spettacolo Macbeth, le cose nascoste in scena al Teatro Argentina di Roma dal 5 al 13 giugno, scritto a quattro mani con Angela Dematté.
Uno spettacolo complesso che rilegge per frammenti il dramma ed i catastrofici effetti fisici e psicologici della ricerca del potere per il proprio interesse personale, lavorando sull’inconscio e sulla sua capacità di generare errori ed orrori. Lo spettacolo è anche uno studio in chiave psicanalitica ed una riflessione sulla violenza che, partendo dai temi della tragedia shakespeariana, compie un viaggio attraverso le esperienze personali degli attori coinvolti nello spettacolo. Parte integrante del progetto sono state le sedute di analisi, guidate dallo psicoanalista junghiano Giuseppe Lombardi e dalla psicoterapeuta Luciana Vigato rappresentate in scena con l’ausilio di videoproiezioni e soprattutto attraverso la presenza sul palco, in alternanza, di Rifici, Dematté e della drammaturga Simona Gonella.
Il palco si sovrappone a quello di uno studio medico nel quale gli attori riportano le proprie elaborazioni del processo psicanalitico e rappresentano nel contempo il dramma, secondo differenti sfaccettature e punti di vista. Nel gioco delle sovrapposizioni e scambio di ruoli, emerge l’originalità della rappresentazione e la necessità di dar voce a ciascun personaggio affinchè possa raccontare la propria verità.
Il risultato è un progetto articolato in tre parti, in cui “la prima parte consiste in un’analisi degli attori coinvolti nello spettacolo”, racconta Rifici. “Dai loro lati nascosti si passa alla seconda fase, quella del lavoro sui personaggi: Macbeth vuole scoprire che cosa c’è oltre le cose conosciute, vuole distruggere il senso delle cose. La terza sezione è invece legata al mondo infero delle streghe, di Ecate, il mare nero nel quale nuota inconsapevolmente la collettività, la comunità degli uomini”.
Attraverso la chiave psicanalitica, il regista, seppur in modo diverso, pone a sé stesso e agli spettatori delle domande in relazione a quali possano essere i meccanismi che inducono alla sopraffazione, analizzando le ragioni che portano il re scozzese a trasformarsi in Divinità e, spinto anche dalla sua ambiziosa e feroce consorte, ad uccidere tutti quelli che si oppongono alle proprie mire. Ad introdurci nelle atmosfere è subito il monologo dell’attrice Maria Pilar Pérez Aspa, che approfondisce i motivi per cui Macbeth uccide le guardie che dovevano vegliare su re Duncan. Egli lo fa, ovviamente, per far cadere la colpa su di loro ma, ad alta voce, proclama che ha dovuto ucciderli perché si sentiva sopraffatto dal dolore e dalla rabbia per la morte violenta del suo re, che amava come un padre; dunque, la sua versione ancora una volta rende giustificabile la violenza.
Così le tematiche dell’ambizione, dell’adulto bambino che non teme le conseguenze dei propri atti, del legame con la sua terra, della seduzione femminile manipolatrice e del rapporto con il padre si riverberano dal privato di ognuno alla scena, nella quale i fatti della tragedia vengono rappresentati dagli stessi interpreti che si scambiano a turno le parti, immersi nell’acqua che scorre sul palcoscenico e nel video proiettato, simbolo inequivocabile dell’inconscio.
E alla fine, le parole di Lady Macbeth “chi poteva immaginare che il corpo del vecchio contenesse tanto sangue!”, riferite all’assassinio di re Duncan si fondono con il ricordo tanto impresso nella memoria di Tindaro Granata, di quando bambino, in Sicilia, assisteva all’uccisione del maiale, appeso a testa in giù, perché potesse uscire tutto il sangue, in modo che la carne non restasse amara.
Come un maiale verrà appeso, per i piedi, il cadavere nudo del figlio di Macduff, interpretato dal giovane Alessandro Bandini, coperto subito dopo dalle Streghe di vernice d’oro e trasformato in Ecate, la dea lunare, levatrice e accompagnatrice dei morti, che chiude lo spettacolo con un monologo sulla terra, sulla vita del verme farfalla, per ribadire che ogni cosa nel mondo non muore mai, ma si rigenera sempre.
Macbeth, le cose nascoste è certamente uno spettacolo di impatto che si presenta in modo originale nel solco di un teatro che richiama il rito, rivisitando il passato come fonte di conoscenza per la comprensione del presente e del nostro io più profondo.
C’è, naturalmente, da una parte la storia, quella del giovane che aspira al trono, una trama di violenza, dolore e morte, ma c’è anche la rivisitazione del proprio inconscio attraverso un processo fatto di scambi di idee ed esperienze basato sulla reale emotività degli attori e su quanto il Macbeth ha suscitato in loro. Un ponte tra passato e presente, tra mito e terra, per un ritorno alle radici alle quali continuiamo ad essere, inconsciamente, legati.
Apprezzabile il lavoro degli attori e lo sforzo di costruzione di una performance innovativa a fronte però di una struttura narrativa che rimane slegata, senza garantire la necessaria fluidità e la visione d’insieme, portando in secondo piano l’essenza del dramma.
data di pubblicazione:14/06/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Giu 14, 2021
Versione cinematografica del claustrofobico testo teatrale di Griffiths già trampolino di lancio per Kamikazen. Sono passati trentatrè anni e ne hanno fatta di carriera i Bisio e i Rossi. Qui c’è la plumbea Milano e lo scontro tra due filosofie comiche, quella commerciale rappresentata da De Sica e quella umanista/progressista di Balasso. Al pari col passo dei tempi naturalmente vincerà la prima.
Un film di Salvatores che, senza imbarazzi, si può definire minore per la portata ridotta dell’ambizione e per la mutualità da una trama, già abbastanza consunta. Il climax in un minuto di sapiente botta e risposta tra Balasso e De Sica, i due poli dell’attrazione, due diversi maestri (sta a al pubblico individuare quale il buono e il cattivo) in una tenzone fatta di sfottò, un dialogo costruitissimo in cui però invano si rintraccia la plume di Gino e Michele, antichi consigliori del regista milanese. Quelli che provinano non sono “Artisti sotto la tenda di un circo” di klugiana memoria ma semi-dilettanti che cercano il posto al sole di una comparsata in un programma televisivo o un primo contratto professionale. Rientrando sotto la tutela di un impresario senza troppi scrupoli ma con tanto mestiere. Alla fine da questa tonnara senza pudore, ricca di frustrazioni e risentimenti, saranno due a sfrecciare vincitori. Ma con l’amarezza del contorno, della rabbia degli sconfitti. Metafora della vita la parte più interessante è l’approccio alla serata test. Poi dell’esibizione vengono mostrati solo pochi significativi spezzoni. Si attinge senza pudore a un repertorio di barzellette più che note dove il sesso e l’impudicizia la fanno da padroni. A volte con scarso gusto. La musica di Tom Waits apre e chiude il film e rappresenta una stampella non indifferente per un’opera che fa fatica a munirsi di una qualsiasi ambizione di novità. Tentativo resipiscente di un mondo che forse non esiste già più in un film che piacerà soprattutto agli appassionati di teatro e che farà molta fatica a trovare una posizione di rilievo nel box office.
data di pubblicazione:14/06/2021
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da Antonella Massaro | Giu 14, 2021
La serie “Veleno”, targata Amazon Prime, racconta in cinque episodi una vicenda giudiziaria discussa e controversa, passata agli annali come la storia dei “diavoli della bassa modenese”.
Tra il 1997 e 1998 il fazzoletto di terra delimitato dai comuni di Mirandola, Finale Emilia e Massa Finalese si macchia di orrore. Alcuni genitori sono accusati di abusi sessuali nei confronti dei figli minori: le indagini, proseguendo sul filo di un incontrollabile effetto domino, conducono a episodi di pedofilia e satanismo, che dal buio delle case e dei casolari giunge fino al teatro lugubre dei cimiteri.
I bambini parlano, raccontano, si liberano di un peso opprimente.
Gli assistenti sociali ascoltano, domandano, seguono le fila di un racconto che diviene sempre più sconvolgente.
I genitori negano, si disperano, cercano di sfuggire alla morsa di processi in cui la condanna sembra scritta fin dalle battute iniziali.
Una madre accusata si lascia cadere dal balcone. Don Giorgio Govoni, il parroco “alternativo” di San Biagio, indicato da alcuni bambini come il sacerdote delle messe nere durante le quali gli stessi venivano abusati sessualmente e uccisi, muore di infarto. Tutti i genitori coinvolti sono allontanati dai propri figli. Le piccole vittime cercano, a fatica, di tornare a galla dopo l’abisso di tenebre e sofferenza nel quale sono sprofondate.
Proprio quando queste storie sembravano sommerse dalla polvere e dal buio di un passato dimenticato, il giornalista Pablo Trincia si imbatte in una trama che gli sembra contradditoria e lacunosa. Studia il caso, incontra alcuni dei suoi protagonisti e nel 2017 pubblica il poadcast “Veleno”, da cui sarà tratto nel 2019 l’omonimo libro e che rappresenta anche la base su cui è costruita la serie Amazon. Sempre nel 2019, poi, i giornali iniziano a parlare del “caso Bibbiano” e degli affidi irregolari che, di nuovo, tornano a scuotere la tranquillità della provincia di Reggio Emilia.
Il merito di “Veleno” è quello di restituire la complessità di una storia che non si presta né ad essere banalizzata né a trovarsi costretta nelle pastoie binarie del “vero-falso” o del “giusto-sbagliato”. Lo spettatore ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’atmosfera pirandelliana, degna de “La signora Frola e il signor Ponza, suo genero”: ognuno con la sua verità e le sue ragioni, tante versioni tutte a loro modo convincenti. Cambiando prospettiva, cambia anche la “verità”.
La psicologa Valeria Donati si trova messa impietosamente sotto accusa, ma “Veleno” le dà la possibilità di replicare. Alcuni dei bambini, a partire da Davide, il “paziente zero” che con le sue dichiarazioni ha avviato il contagio dei diavoli della bassa modenese, avanza dei dubbi sulla genuinità delle proprie dichiarazioni, ma altre bambine, ormai donne, confermano gli abusi e rivendicano con forza il proprio ruolo di vittime (non di carnefici).
Allo spettatore, allora, non resta che dubitare. Dubitare di una macchina giudiziaria che è in grado di stritolare chi si trovi nel mezzo dei suoi implacabili ingranaggi, ma dubitare anche di letture che, è il caso di dirlo, potrebbero correre il rischio di “gettare via il bambino con tutta l’acqua sporca”.
data di pubblicazione: 14/06/2021
da Maria Letizia Panerai | Giu 12, 2021
Commedia raffinata, lieve, come i francesi sanno fare e bene. Le vite dei due protagonisti raccontate attraverso i profumi e gli odori che sovente tratteggiano le nostre vite, gli amori, gli affetti, i ricordi di un’infanzia felice ma anche i fallimenti, e che non necessariamente sono buoni per tutti, ma che sicuramente sono evocativi del proprio vissuto come vere e proprie sensazioni indelebili. Una delicata indagine sull’essere umano visto sotto un’angolatura davvero originale, che sorprende ed allieta.
Anne Walberg – una bravissima Emmanuelle Devos, con una recitazione asciutta, fatta di piccoli gesti e di sguardi eloquenti – è un famoso “naso” contesa per anni dalle più famose maison di profumi (come recita il titolo originale del film Les parfums), ma che nasconde un segreto legato proprio alla sua particolare professione. Donna egoista e prepotente, alquanto snob in ogni cosa che fa o dice, difficile ed estremamente riservata, guarda tutte le persone con cui entra in contatto con una buona dose di alterigia, tenendole a debita distanza. Guilaume – un ironico Grègory Montel, conosciuto ai più per Chiami il mio agente – diventa il suo autista: uomo semplice ma intelligente, con una scarsa autostima che lo porta spesso ad essere un perdente, diviene ben presto la sua vittima sacrificale. Guilaume è disposto a lavorare sodo pur di permettersi un appartamento più grande del suo monolocale di appena 24mq anzi “quasi 25”, solo per poter ottenere dal giudice l’affidamento condiviso con la sua ex moglie della figlia di appena 10 anni, che ovviamente adora e che vorrebbe ospitare una settimana al mese.
Eppure Anne e Guilaume, due esseri così lontani, riescono a trovare un incredibile punto di contatto. Ed è su questa empatia, alquanto improbabile ma così preziosa, che il film si sviluppa e ci convince con un plot originale e delicato che appassiona, supportato dalla bravura di due interpreti d’eccezione calati perfettamente nei rispettivi ruoli degli opposti che si attraggono, contribuendo al sicuro successo della pellicola.
Commedia raffinata, fresca, inebriante come i profumi di Madame Walberg e l’odore di erba tagliata che tanto piace a Guilaume, il film è un viaggio nelle vite di due esseri soli, ma con un grande dono che entrambi non comprendono sino in fondo di avere e che incontrandosi si esalta, si rafforza, come le essenze ben assortite di un’ottima fragranza che entra nella nostra memoria attraverso l’olfatto e accompagna per sempre la nostra vita.
Se ne consiglia la visione rigorosamente sul grande schermo.
data di pubblicazione:12/06/2021
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da Paolo Talone | Giu 11, 2021
(Galleria Sciarra/Teatro Quirino – Roma, 5 giugno 2021)
Veronica Pivetti in dialogo Pino Strabioli sulle donne e la parità di genere. Monica Guerritore legge alcuni brani tratti dalla drammatica storia raccontata nel suo libro Quel che so di lei. È la donna la protagonista della serata inaugurale degli Spettacoli in galleria, serie di eventi che andranno avanti tutta l’estate organizzati dal teatro Quirino in collaborazione con il bistrot Angolo Sciarra per il patrocinio del Comune di Roma e di ANAC.
La Galleria Sciarra muta anche quest’anno la sua funzione di passaggio tra piazza Santi Apostoli e fontana di Trevi in luogo di eventi e concerti, a cui si potrà assistere consumando al tavolo un aperitivo o una cena. La suggestiva architettura umbertina e le decorazioni del Cellini, che glorificano la figura della donna ottocentesca nelle sue virtù, fanno da cornice e da ispirazione per gli appuntamenti in programma. Il tema affrontato è la parità di genere e lotta alla violenza contro le donne, piaga sociale che si è acuita durante il periodo di chiusura dello scorso anno e che ha portato il Comune di Roma ad aprire nuovi Centri Antiviolenza nel territorio, come ricorda l’Assessora alla Crescita culturale Lorenza Fruci. La cultura della legalità e il rispetto dell’altro e dell’altra sono al centro dell’intervento invece di Giuseppe Busia, Presidente dell’Autorità Anticorruzione (ANAC). È la cultura il veicolo attraverso cui l’artista si carica di una responsabilità sociale inequivocabile: educare le persone al rispetto e all’inclusione, alla conoscenza e alla divulgazione di messaggi positivi per farne uno strumento di denuncia. Nelle parole di Veronica Pivetti, intervistata sul palco da Pino Strabioli per il primo degli incontri che quest’anno precederanno gli spettacoli, è forte la consapevolezza che il teatro, ma parimenti il cinema e la letteratura, hanno questo dovere e questo scopo. Un artista, quando anche è un personaggio pubblico, ha la responsabilità di svolgere il suo mestiere come un atto politico. Così lo ha svolto Carla Fracci, a cui è rivolto un affettuoso ricordo, che non dimenticando le umili origini si è battuta perché la scuola di danza alla Scala fosse accessibile gratuitamente.
In questo contesto si inserisce la storia di femminicidio raccontata da Monica Guerritore, ispirata a un fatto di cronaca accaduto a Roma all’inizio del secolo scorso. La contessa Giulia Trigona è vittima del suo amante in un albergo vicino la stazione durante un piovoso pomeriggio di marzo. L’attrice ripercorre insieme alla donna il buio corridoio che conduce alla stanza dell’omicidio, la numero 8. A quell’appuntamento avrebbe voluto dire addio all’uomo che non amava più. Ma è proprio a questo punto che si ripete lo schema immortale della violenza, quando lei decide di abbassare la guardia concedendosi un’ultima volta. L’uomo non sopporta il rifiuto e il cambiamento della donna, per questo la uccide. Il racconto di cronaca è riportato con algida precisione da Monica Guerritore, un elenco di fatti ore e luoghi. Occorre forza e freddezza per raccontare la verità, per non cedere alla pietosa tentazione di giustificare l’assassino. L’emozione salta fuori quando sono altre donne a entrare nel racconto. Sono i personaggi più significativi interpretati dall’attrice nella sua lunga carriera: Emma Bovary, la Lupa, Oriana Fallaci, Carmen, la Signorina Giulia, Liubov’ Andreevna. Appaiono come fantasmi di un ricordo dalle stanze dell’albergo del delitto. Stralci di dialoghi e volti sbiaditi tornano alla memoria. In Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman (la versione teatrale andò in scena nel 1997 per la regia di Gabriele Lavia), Marianne è vittima del tradimento del marito. Durante una lite furibonda lui tenta di sferrarle un calcio ma colpisce, distruggendolo, il water del bagno. Woody Allen trasforma in commedia questo meccanismo di morte e i due protagonisti di Mariti e mogli, Sally e Jack (adattato a teatro dalla Guerritore nel 2016), si ritrovano infine abbracciati. Per rompere la spirale di morte occorre prendere di petto l’amore, stravolgerlo e ricomporlo con fiducia e rispetto. Solo allora si potranno immaginare finali diversi per le tante storie di dolore e violenza, dove il tratto comune sarà solo la leggerezza.
Riprende così l’attività del Quirino, un’istituzione che festeggia quest’anno i suoi 150 anni di attività. È stato facile creare il cartellone, come dice il Direttore artistico Geppy Gleijeses, tanta è la voglia di tornare a fare spettacolo. Prossimo appuntamento sabato 12 giugno con la presentazione del volume di Tiziana Ferrario Uomini è ora di giocare senza falli! e il concerto del siciliano Mario Incudine, D’acqua e di rosi.
data di pubblicazione:11/06/2021
Il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Giu 10, 2021
Sandy Kominsky (Michael Douglas)mancato grande attore hollywoodiano riconvertitosi da tempo in insegnante di recitazione per giovani aspiranti attori, si barcamena da tempo, con notevole dose di autoironia, fra disillusioni ed ansie legate all’età. Questa volta, scomparso il suo affermato agente e migliore amico Norman (Alan Arkin), il nostro Sandy è costretto ad assumere nuovi ruoli ed affrontare da solo nuove responsabilità rientrando anche in contatto, complice il matrimonio della figlia, con la sua ex moglie Ros (Katleen Turner) …
Succede ormai spesso nelle Serie Fortunate: le prime due stagioni sono ottime, poi, purtroppo le successive, pur tanto promosse ed attese fra i fans, ineluttabilmente non mantengono gli alti livelli e … alla fine … resta solo quel gusto un po’ amaro, di aspettative un po’ disattese!
E’ il caso anche dell’attesissima Terza Stagione de Il Metodo Kominsky del maestro delle sit com Chuck Lorre, appena andato in onda su Netflix. Perché? Perché è venuto a mancare un coprotagonista del calibro di Alan Arkin che nelle prime due stagioni aveva fatto veramente scintille in splendida, caustica, brillante complicità con Michael Douglas. Con la sua scomparsa viene infatti a mancare quel gioco sottile di ironia, di dialoghi, di contrappunti pungenti e di situazioni paradossali che la sceneggiatura aveva abilmente saputo costruire sui due personaggi di “giovani scapestrati anziani”, sui talenti recitativi ed interpretativi della splendida coppia Arkin/Douglas.
Comunque sia e con molta furbizia e consapevolezza degli autori, l’ombra dello scomparso Norman/Arkin si proietta egualmente su tutta la Terza Stagione, anche se il posto del vecchio amico viene in qualche modo preso da Katleen Turner (irriconoscibile!!Ahinoi quanto lontani gli splendori di Brivido Caldo 1981 o di All’inseguimento della pietra verde 1984) riproponendo con palesi ammiccamenti e riferimenti ai loro film passati, i vecchi e collaudati giochi di coppia dei due talentuosi attori.
I dialoghi sono sempre ben costruiti, quasi col cesello, caustici, cinici, ironici, brillanti ed a ritmo continuo. Gli altri protagonisti sono altrettanto bravi e giusti, come sempre nei film americani, un casting veramente perfetto in tutti i ruoli anche quelli più marginali, divertente ed autoironico poi il cameo di Morgan Freeman.
I nuovi sei episodi sono concentratissimi, solo 27 minuti ciascuno! Non si mena il can per l’aia e vanno quindi subito all’essenziale! con un ritmo, uno script ed un montaggio veramente incalzante e sostenuto, con uno humour talvolta nero ma pur sempre, alla fine, gradevole. Forse, rispetto alle precedenti due stagioni sono un po’ troppo sottolineati gli accenti drammatici e c’è qualche cliché di troppo, quasi come se l’iniziale verve creativa e pungente si fosse stancata, appannata e intristita! Comunque sia, pur con queste pecche, questa Terza Stagione resta ancora uno spettacolo piacevole e godibile frutto evidente di un’elevata professionalità collettiva, e pur sempre fra le cose migliori vedibili nello scenario un bel po’ deludente delle offerte attuali.
Il Metodo Kominsky continua a funzionare! funziona!
data di pubblicazione:10/06/2021
da Antonio Jacolina | Giu 9, 2021
Noi che amiamo la lettura ed i libri, quante volte siamo entrati in libreria per comprare un certo libro e … siamo invece usciti “conquistati”, “comprati” da un altro libro che è riuscito a farsi notare, toccare, sfogliare, scegliere ed infine acquistare? Infinite volte! Ed ogni volta un piacere che molto spesso ci fa anche scoprire piccoli gioielli di cui non ci eravamo accorti.
E’ il caso di Amanti e Regine apparso per la prima volta nel 2005. Un saggio storiografico e biografico, interessante, brillante ed intrigante, mai pedante o didascalico, che, al contrario, diverte tenendo il lettore legato al racconto quasi fosse un romanzo, con cultura, brio, competenza, curiosità e dettagli piccanti che ci offrono un quadro prezioso delle corti dei Re di Francia dai primi decenni del XVI secolo alla fine del XVIII, unitamente alle vite, ai pensieri, alle passioni delle donne che li hanno amati affiancandoli o anche sostituendoli nell’esercizio del Potere.
La Craveri, studiosa e scrittrice affermata del mondo francese, ci offre una gradevole rilettura rapida della storia francese attraverso una serie di ritratti di donne accomunate tutte dal desiderio di arrivare al Potere (a quel Potere che spettava ai soli uomini) e … poi di mantenerlo, donne tutte fuori del comune e molto spesso avanti per l’epoca in cui vissero. Alcune hanno usato l’astuzia, altre la seduzione, altre l’intelligenza per riuscire a farsi spazio, tutte e senza remore alcuna hanno usato la loro bellezza per raggiungere il più alto livello. Siano esse state regine, reggenti, nobili, semplici borghesi favorite o amanti dei Re, tutte hanno segnato la Grande Storia ed anche la storia delle donne entrando nel Tempo e nell’Immaginario Collettivo (letterario e popolare) con le loro fortune e sfortune, virtù e pregi, vizi e difetti.
Scrive l’autrice: ”… in un’epoca in cui non era prevista per la donna altra identità all’infuori di quella di figlia, di moglie, di vedova, ci sono state delle donne che forti delle loro ambizioni sono riuscite a farsi valere approfittando delle circostanze loro favorevoli e delle debolezze maschili, e son state capaci di mantenere e difendere il ruolo acquisito …”. I loro nomi ci sono noti: Anna d’Austria, la Pompadour, Maria e Caterina de’ Medici, Diane de Poitiers, Maria Mancini, M.me du Barry, la Montespan ed infine Maria Antonietta.
Una galleria di ritratti, di destini spesso spettacolari, un excursus sul Potere fra intrighi, passioni e segreti che hanno fatto la Storia della Francia e dell’Europa fino alla Rivoluzione del 1789. Una brillante lezione di Storia attraverso la piccola storia e attraverso l’angolo di visuale delle donne che ci permette di meglio conoscere, capire o anche soltanto riscoprire fatti e retroscena storici.
La Craveri oltre che ben preparata e documentata ha anche il dono di saper scrivere bene ed in modo semplice, accattivante e divertente ed il suo è quindi un libro veramente piacevole a leggersi, non solo per gli appassionati di Storia ma anche per tutti coloro che non hanno bene a mente quei fatti e quei periodi e che potranno solo divertirsi a leggere il libro semplicemente come un romanzo appassionante che ci parla di storia e delle tante storie di donne che han fatto la Storia.
data di pubblicazione:09/06/2021
da Daniele Poto | Giu 8, 2021
L’imminente quanto auspicabile fine del periodo più duro di confinamento dovuto alla pandemia ha liberato trame attinenti al periodo più difficile vissuto globalmente dall’umanità dalla seconda guerra mondiale in avanti.
Mara Fux sdogana in questo agile volumetto la quotidianità dell’anormalità intrecciando i destini paralleli di varie coppie e famiglie, sull’argine del politicamente corretto in un alveo che non può prescindere da Roma nord, tranne qualche scorribanda della perduta movida sognata a San Lorenzo o al Pigneto. Ne risalta un affresco con varie cifre e colori, con piccole comuni storie vissute nel lockdown. Rigurgiti di crisi di coppia, difficile accettazione morale o moralistica di coppie omosessuali, routine che si sbriciolano nella non semplice divisione dei compiti di casa, overdose bulimica di libri cucinati, di serie televisive infinite, più raramente di libri letti. Si dipana così un piacevole romanzo breve la cui epitome si può decifrare nelle pagine finali, quanto mai istruttive.
C’è molto dell’autobiografia dell’autrice che deve intervistare un uomo di spettacolo che racconta il suo approccio originale all’isolamento, un periodo anti-creativo ma quasi un antidoto a quello che c’è prima e quello che verrà dopo. Il segno di una diversità da abbracciare e di un cambiamento da cogliere. Scontato che non saremo più eguali a prima dopo un periodo del genere e il dialogo terminale né è la perfetta quanto consistente metafora situazionale.
Questo libro è anche un transfer liberatorio per un vissuto che non vorremo più rivivere ma dal quale ancora non siamo pienamente usciti. Dunque un libro fortemente confitto in un’attualità dialettica che ora ci fa finalmente intravedere una via d’uscita. Parlando di questo abbiamo anche esorcizzato e ci siamo tuffati nell’avventura del futuro. Opera seconda ma non ultima di una fresca cronachista del nostro tempo, fortemente con i piedi poggiati sul reale.
data di pubblicazione: 8/06/2021
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