da Antonio Iraci | Lug 12, 2022
(Festival dei Due Mondi – Spoleto, 24 giugno/10 luglio 2022)
La vigilia di Natale del 2012, tornando a casa dopo una cena con amici, Édouard incontra per strada un uomo, Reda. I due parlano, scherzano e decidono di passare insieme il resto della notte. Reda racconta la storia della sua infanzia e l’arrivo in Francia di suo padre, fuggito dall’Algeria. Dopo una serie di bagordi a sfondo sessuale, alle sei del mattino Édouard viene insultato, violentato, rischiando seriamente di essere persino ucciso…
Con una palese sfida a quello che si può definire politically correct, si chiude questa 65ma edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto con la direzione artistica di Monique Veaute che è riuscita, in due settimane, a concentrare quanto di meglio ci si possa aspettare, a livello nazionale e internazionale, sia in campo musicale che teatrale. In apertura della rassegna ci eravamo già confrontati con il monologo L’appuntamento, tratto dal noto romanzo d’esordio di Katharina Volckmer, spettacolo quanto mai sovversivo e irriverente che usa senza alcun riserbo un linguaggio a dir poco audace. In chiusura, il pubblico ha potuto apprezzare History of Violence, racconto autobiografico dello scrittore francese Édouard Louis, dove viene proposto il dramma dello stupro vissuto dal protagonista (e autore) con un intreccio di temi specificatamente personali con quelli più generali e sociali come l’emigrazione, il razzismo e l’omofobia. Il soggetto proposto, tra desiderio, passione e violenza, non poteva non interessare un regista teatrale della portata di Thomas Ostermeier oggi direttore artistico della Schaubuhne di Berlino e già insignito del Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2011. In effetti il lavoro di Édouard Louis non è solo il racconto di una violenza sessuale subita da un uomo da parte di un altro uomo, ma è la testimonianza dello specifico disagio di una classe sociale emarginata che tenta disperatamente, con ogni mezzo possibile, di integrarsi in un contesto che politicamente e culturalmente non gli appartiene. Il protagonista parla inoltre della sua omosessualità, una sorta di autodafé, e del suo problema di farsi accettare all’interno del proprio nucleo familiare e dalle istituzioni in generale. Il linguaggio drammaturgico di Ostermeier è vario e include una recitazione piena di pathos da parte dei due principali protagonisti Laurenz Laufenberg e Renato Schuch, rispettivamente nel ruolo del violentato e del violentatore, il tutto accompagnato da proiezioni video dal vivo degli stessi attori sulla scena e da una musica in sottofondo piuttosto fredda, ma essenziale per evidenziare i vari passaggi della narrazione. Uno spettacolo quindi di forte impatto emotivo che investe tematiche ancora oggi irrisolte quali l’auto-accettazione della propria sessualità e la contrapposizione, quasi innaturale, tra l’impulso personale di odio verso lo stupratore e il sentimento di empatia verso colui che a sua volta è continuamente vittima di oppressione. History of Violence è un lavoro ben fatto perché racconta di violenza, omofobia, povertà ma che in fondo racconta anche di amore che, come afferma lo stesso regista, è la leva più importante che sorregge la vita umana.
data di pubblicazione:12/07/2022
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da Rossano Giuppa | Lug 7, 2022
(Teatro India – Roma, 4/5 luglio 2022)
L’Africa e l’Europa. Due mondi e due comunità a confronto. Due lingue e due culture che divergono e convergono. Una interessantissima performance pensata e realizzata dal regista e visual artist Luca Brinchi, insieme alla danzatrice e coreografa Irene Russolillo ed alla cantante e beatmaker Karima 2G. Nell’ambito degli appuntamenti del festival dedicato alla danza contemporanea Fuori Programma diretto da Valentina Marini, il 4 e 5 luglio nella Sala Oceano Indiano del Teatro India è andato in scena in prima nazionale lo spettacolo IF THERE IS NO SUN (foto di Monia Pavoni).
Un viaggio da affrontare e confini da superare. Sul palcoscenico i danzatori senegalesi Antoine Danfa e Mapathe Sakho e il performer tunisino Ilyes Triki, insieme a Karima DueG e Irene Russolillo, per provare a condividere sogni e desideri legati ai luoghi e alle persone che fanno parte della propria essenza. Un viaggio lungo il quale si aprono crepe comunicative per le differenti lingue, per le differenti caratteristiche fisiche, per le diverse storie che ci sono dietro. Rimane forte il desiderio di superare limiti e convenzioni interiori. C’è un mare agitato da attraversare se si vuole andare oltre. Le figure si muovono in mezzo alle altre creature, ci sono funi da cui forse liberarsi ma sono corde che aiutano ad emergere, che diventano dread che guidano il rito tribale. E’ il momento in cui la nuova comunità emerge dal suo stato di invisibilità. Il problema è il dialogo, la babele di lingue non aiuta, e la parola diventa discorso ma anche urlo, a testimonianza della lotta di sopravvivenza e dell’affermazione dell’identità.
Luca Brinchi insieme alla cantante e beatmaker Karima 2G e alla performer Irene Russolillo si sforzano di raccontare, ognuno col proprio linguaggio, la complessità della comunicazione e dei gradi di separazione che coesistono tra Africa ed Europa, fra viaggi e confini sfocati.
Ne deriva un lavoro di ricerca intelligente, mai scontato, basato su individualità e fisicità ma anche sulla ricerca di una nuova declinazione del concetto di comunità in cui anche la luce e i suoni assumono connotazioni innovative.
“Si vorrebbero vedere i propri diritti riconosciuti e i propri fantasmi scomparire – affermano i tre artisti –. E intraprendere una lotta che è un discorso e un viaggio, in cui l’ambiente muta per consunzione e sfocatura. Il dialogo tra visione, movimento e suono si adatta e riassesta a ogni passaggio, come dopo un terremoto, quando bisogna ricostruire certezze andate in frantumi. Con le parole if – there – is – no – sun si evocano coloro che ci hanno preceduto e che hanno acceso altri soli, immaginando nuove possibili umanità”.
data di pubblicazione:07/07/2022
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da Daniele Poto | Lug 5, 2022
Biopic di pretta impronta americana. Il primo tempo scorre come una videoclip adrenalina condita di effetti speciali. Veloce e impressionista come l’ascesa del popolare Elvis Presley. Nel secondo tempo la storia si fa racconto e scivola nella maniera. In effetti la rottura sentimentale con la consorte e lo scivolamento del mondo anfetaminico degli psicofarmaci è espressa esteticamente con modi trasandati e superficiali..
Il cinema americano non dimentica i suoi miti. 42 anni di veloce parabola con escalation fulminante (e ancheggiante), uno scandalo per l’America puritana e razzista, fondendo il talento individuale con l’ammiccamento alla musica nera (BB King, Mahalia Jackson). Il film si snoda esclusivamente con il racconto del discusso manager che decretò trionfi e cadute di Elvis the Pelvis. E questo il pregio ma anche il limite della ricostruzione che, ripercorrendo i fatti reali, è fedele ed accurata quantunque necessariamente stringata. Il regista senza limiti di budget e di racconto visto che il film si snoda per 160 minuti anche se qualche taglio finale avrebbe evitato ripetizioni e maniera. Ad ogni modo lo snodo è affascinante e, ovviamente, condito da ottima musica. Presley è stato il cantante solista che ha venduto più dischi nella storia del vinile frazionando la propria carriera con 61 dischi incisi e una parentesi non esigua di 29 film, per la verità nessuno dei quali memorabile. Si può dire che sia stata vittima del suo successo. E non è un caso che i film ci ricorda le morti di Marthin Luther King e di Bob Kennedy. L’America uccide i suoi eroi anche se il cinico manager vieterà per sempre a Elvis le trasferta oltreoceano per presunti e indimostrabili motivi di sicurezza, relativi in realtà al proprio discusso status di apolide, impossibilitato a viaggiare. Per la cronaca fuori dagli States Presley ha suonato e cantato solo in sei concerti in Canada. Anche per questo il suo mito oggi, 45 anni dopo la morte, si riverbera più nell’altro continente che in Europa. Austin Butler è un perfetto Presley anche se appare meno bolso dell’originale nel finale di carriera e di vita. Tom Hanks, quasi irriconoscibile, offre una delle sue interpretazioni più mature e convincenti.
data di pubblicazione:05/07/2022
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da Antonio Iraci | Lug 1, 2022
La famiglia Solé coltiva da generazioni un frutteto su un vasto terreno che i proprietari gli avevano ceduto, in segno di riconoscenza, per un “favore” speciale ricevuto durante la dittatura franchista. La vita nei campi è dura in quella parte assolata della Catalogna, ma i Solé lavorano sodo e nel tempo sono riusciti a crearsi una certa agiatezza economica. Un bel giorno gli verrà comunicato che, al posto della piantagione, verranno presto istallati pannelli solari per la realizzazione di un impianto fotovoltaico…
Carla Simòn è una regista e sceneggiatrice catalana che si è fatta già notare dalla critica internazionale per la sua pellicola di esordio Estate 1993, candidata come miglior film straniero agli Oscar 2018. Con, Alcarràs – l’ultimo raccolto, sua seconda opera, ha vinto l’Orso d’oro all’ultima edizione della Berlinale, primo film in lingua originale catalana a ricevere tale premio. La giuria, presieduta dal regista indiano Shyamalan, ha voluto così premiare un film all’insegna della semplicità, una storia intrisa di puro verismo per fotografare oggettivamente la realtà sociale e umana di una famiglia di agricoltori. Il presente è presente con i problemi di natura politica ed economica legati al duro lavoro nei campi, ma tutto ciò non svilisce il clima positivista che aleggia attorno ai personaggi, tutti, ognuno per la propria parte, impegnati a portare avanti il bene comune, senza peraltro trascurare il vantaggio personale. Appena sfiorato il tema della passata dittatura spagnola in una regione, appunto quella rurale della Catalogna, dove accanto a una economia prettamente agricola, si iniziano a intravedere i primi concreti tentativi di apertura a un nuovo mondo tecnologico. Gli attori, tutti rigorosamente non protagonisti, sono stati scelti proprio per interpretare una realtà semplice ma anche non scevra di impegno sociale. La Simòn intende così lanciare un messaggio, quanto mai attuale, per salvare un’agricoltura oramai in via di estinzione: la globalizzazione impone prezzi politici che non consentono più ai contadini la giusta remunerazione per il lavoro svolto. Quimet, il padre padrone, interpretato da Jordi Pujol Dolcet, è un uomo all’antica che crede nel suo lavoro anche perché da sempre fa questo lavoro e non cede alla proposta, da parte dei reali proprietari del frutteto, di diventare custode di un campo sterminato di pannelli solari. Certo potrà lavorare di meno e guadagnare di più, ma lui è sempre stato un agricoltore e tale vuole rimanere, rifiutando ogni forma di compromesso. La regista dimostra di conoscere molto bene quel tipo di realtà agricola, la realtà peraltro delle sue vere origini, che fa poi da filo conduttore di tutta la storia. I bambini che giocano a fare la guerra o a improvvisarsi astronauti, occupando il rottame di una vecchia auto, rappresentano sicuramente un ritorno alla sua infanzia, un tratto autobiografico che aggiunge pura genuinità al contesto. Tutto si svolge con i tempi giusti per fare così assaporare al meglio un mondo senza malizia né artificio dove i vari personaggi si muovono con i gesti del quotidiano, interpretando se stessi. Merito quindi della Simòn è quello di aver portato sullo schermo una realtà poco artefatta, forse destinata a sparire, ma che dà spazio a un sentimento puro e non a un falso sentimentalismo, qui meno che mai inopportuno.
data di pubblicazione:01/07/2022
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da Daniele Poto | Lug 1, 2022
(Teatro Olimpico di Roma, 29 e 30 giugno, in coincidenza del compleanno del comico)
Amato e odiato, non lascia indifferenti il comico del’Appio Tuscolano in una sorta di festosa auto-celebrazione per il genetliaco. Due giorni di teatro pieno con fan entusiasti per una maratona celebrativa di tre ore.
Tre mesi di tournèe con capolinea romano nell’insolita data di fine giugno. Perché Battista, malumori della critica a parte, è sempre sold out con la sua comicità virale e di pancia, bassa e proletaria. Di fronte alla quale persino l’intellettuale più engagé non può rifiutarsi alla risata. Lo spettacolo ha vari condimenti spettacolari e si può dire che valga il prezzo del biglietto tra divagazioni, imitazioni, balletti e persino una torta riservata agli oltre mille spettatori presenti creando un problema logistico-organizzativo non da poco. Battista straripa con le sue felici interazioni con gli utenti delle prime file, tra cui amici della prim’ora. Incurante della sovraesposizione cabarettistica (con forti riflessi televisivi) offre sempre novità aggiornate. Possiamo dire che solo il 10% del repertorio della scena recente fa parte di antichi copioni (vedi Covid, vaccini). Battista si tiene prudentemente lontano dai temi politici (la guerra, per carità..) ma picchia forte sui malesseri di Roma. Tanto è vero che uno dei momenti più incisivi dello spettacolo è il confronto tra le metropolitana di Roma e quelle invocate dal pubblico (Londra, Parigi, Barcellona). Roma sfigurerebbe anche al confronto di Paesi meno ricchi come la Grecia e la Russia. Con il suo eterno problema delle scale mobili, delle stazioni chiuse con navette sostitutive con gli orari da autentico coprifuoco. Un altro leit motiv vincente è ovviamente il rapporto con le donne. Irrisolto perché Battista in queste settimane è alle prese con l’ennesima separazione. I refrain dei battibecchi coniugali possono apparire scontati e brignaneschi ma portano a un riconoscimento che provoca buonumore. E del resto nulla si chiede di più a uno spettacolo per definizione disimpegnato.
data di pubblicazione:01/07/2022
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da Paolo Talone | Giu 25, 2022
(Chiesa di San Nicola, Appia Antica – Roma, 18 giugno 2022)
Una luce vespertina illumina di stupore le rovine della chiesa di San Nicola sull’Appia Antica. In questo luogo sono in scena gli spettacoli di Appia nel Mito, la rassegna ideata da Alessandro Machìa e Fabrizio Federici della Compagnia Zerkalo con il contributo della Regione Lazio, che a luglio continuerà la programmazione a Frascati, a Villa Torlonia. Un percorso teatrale di prosa e danza che indaga il presente attraverso il ricordo di storie e eroi del passato classico.
Inaugura il viaggio della I Edizione di Appia nel Mito Clitemnestra di Luciano Violante, per l’interpretazione di Viola Graziosi, figlia dell’attore Paolo Graziosi, a cui è dedicata la serata. È Alessandro Machìa – che lo diresse nel 2016 nella versione dell’Agamennone di Eschilo adattata da Fabrizio Sinisi – a tracciare un ricordo commosso e sincero dell’attore scomparso a febbraio.“Eri un attore immenso, radicale, feroce, privo di retorica, dritto. Eri ‘l’attore’ per me. Una montagna da scalare, un mistero di forza e tenerezza assoluti. Quegli opposti che in te coesistevano perfettamente”. Paolo Graziosi si distingueva per concretezza e umanità, tratti della sua persona che aveva saputo trasmettere attraverso il lavoro in teatro.
Profondamente umano è anche il personaggio di Clitmnestra, tra i più famosi del teatro greco. La sua è una storia di dolore, che Luciano Violante raccoglie dalla tradizione letteraria e mette insieme in un lavoro didattico, pieno di spunti di riflessione sulla condizione della donna. Clitennestra è uno spirito che vaga nel tempo, incastrato in un eterno presente, costretta a ricordare il tragico destino che l’ha vista protagonista. L’abito che indossa non si addice alla regina di Micene che un tempo era, ma racconta la condanna e la colpa che è costretta a sopportare per non aver obbedito al volere degli dei. Dopo la vittoria a Troia i greci, guidati dal possente Agamennone – nome che Clitennestra pronuncia scandendo ogni sillaba, come a scriverlo per non dimenticare ciò che le dà tormento – sono bloccati con le navi nel porto di Aulide. Per volere di Artemide il vento ha cessato di soffiare impedendo alle vele di gonfiarsi. Agamennone, uomo spavaldo e vanitoso, aveva ucciso una cerva bianca, sacra alla dea. L’ira di questa poteva essere saziata solo da un sacrificio. Così Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra, viene condotta con un inganno ad Aulide e lì viene uccisa per mano del padre.
Il dolore per la morte della figlia genera in Clitennestra il desiderio di vendetta e non appena il tempo è maturo – il tempo delle donne è tempo di pensiero e attesa, non come quello degli uomini che è solo azione, dirà la madre straziata – ucciderà il proprio marito. Sarà lei stessa a trovare giustizia, contro un destino che la voleva succube di un marito violento e prepotente. Per questo il suo spirito ora vaga sulla terra e non ha riposo, in cerca di una ragione, in eterna lotta contro un destino fissato e contro il quale si oppone. Così come ha fatto il capitano Achab, tormentato dallo stesso desiderio di governare il proprio destino, che lei incontra nel suo vagare.
Il testo è soprattutto un viaggio letterario, a cui Viola Graziosi sa fornire spessore e sentimento. La sua è una recitazione intensa e sincera, consapevole e attenta. È certamente lei il punto focale di tutto lo spettacolo. Non solo perché è l’unico personaggio sulla scena, ma perché da sola è in grado di sollevare un’emozione tale che non occorrono commenti musicali o scenografie a sostenerla.
data di pubblicazione:25/06/2022
Il nostro voto: 
da Antonio Jacolina | Giu 16, 2022
Siamo arrivati alla quarta puntata delle inchieste del Commissario Dupin. Il tedesco Jorg Borg, nom de plume J. Luc Bannalec, finto francese, prosegue le sue storie ambientate nella francesissima Bretagna. I suoi romanzi che continuano a spopolare in Germania ed in Francia, complice anche una trasposizione in una serie TV molto ben riuscita, stanno ora trovando evidentemente un loro seguito anche in Italia.
Ritroviamo quindi ancora una volta il nostro Commissario esiliato a Concarneau da ormai 5 anni. La nuova storia prende avvio dalla scoperta di un cadavere che però scompare prima che la polizia giunga sul posto. Un’indagine difficile fra ulteriori omicidi, connessioni scozzesi, traffici illeciti di ostriche, sabbia rubata dalle spiagge … Port Bélon, perla della Bretagna, è il teatro della nuova inchiesta ed anche l’occasione per il “parigino” Dupin per scoprire le tradizioni celtiche ed entrare nel mondo dell’allevamento e commercio delle ostriche più raffinate e rinomate. Un’opportunità per l’Autore per confermare il suo amore per la Regione, emulo di grandi scrittori come Simenon nel dipingere atmosfere, luoghi e personaggi fortemente caratterizzati dalle ambientazioni provinciali. Il Commissario è onnipresente nell’indagine e la sua personalità, unitamente alla sua vita privata, sono ormai ben delineate, meno letterarie più umane e reali così come la sua psicologia, le manie, l’amore per il buon mangiare e la sua vulnerabilità per i troppi caffè.
Gli accertamenti procedono senza grandi sbalzi, quasi dolcemente, ogni pista è seguita con minuzia sino in fondo. L’intrigo anche se complesso si evolve armoniosamente, le descrizioni sono piacevoli ed arricchiscono la trama senza appesantirla. La vicenda appare infatti meglio definita, più coerente, più accattivante e più sottile delle storie che l’hanno preceduta. Bannalec sembra aver trovato il giusto equilibrio narrativo, stesso ritmo veloce e stessi incessanti colpi di scena ma senza le lungaggini dei primissimi romanzi come se lo scrittore non avesse più niente da dover dimostrare e nessuno da dover convincere.
Un polar che risuona come un pianoforte perfettamente accordato e che, come dicevamo, ha lo charme desueto di un buon vecchio e normale giallo di una volta, quei gialli che si basavano tutti sui metodi investigativi, sul ragionamento piuttosto che sull’azione. Orgoglio Bretone non è certo un thriller palpitante ma è un romanzo accattivante, piacevole a leggere, con un plot ben sviluppato e con buoni e credibili intrighi e colpi di scena. Discretamente accettabili poi anche la suspense e la nebbia che permangono sino alla fine.
L’interesse vero è tutto sui fatti, sulle indagini, sui luoghi ed il paesaggio. Sulla splendida Bretagna, le sue cittadine, il suo mare, gli abitanti e le tradizioni presentati tutti con tale dovizia di particolari e ricchezza di atmosfere da divenire a loro volta protagonisti. Dunque un buon piccolo poliziesco che intriga il lettore e gli fa venir voglia di andarsi a gustare qualche frutto di mare sulle rive dell’estuario del Bélon accompagnandolo con dell’ottimo vino.
data di pubblicazione:16/06/2022
da Daniele Poto | Giu 15, 2022
Franco Battiato ha lasciato un’eredità di affetti che a poco più di un anno dalla sua scomparsa, dopo quattro anni di effettivo silenzio pre-morte a causa di una devastante malattia neurodegenerativa, non accenna a spegnersi. Il sottotitolo del libro indica la latitudine: “Voli imprevedibili e ascese velocissime…”. Dunque l’omaggio non è un instant book per fare cassa in una bibliografia di suo già abbastanza vasta. Scanzi, si sa, è giornalista polemico che incontra simpatizzanti e detrattori per la secchezza delle proprie scelte. E se ha voluto parlarci di Battiato in questo ennesimo libro è per una sorta di ipnotico gemellaggio, peraltro non accompagnato da una diretta simpatia personale. Figurarsi, Battiato a suo tempo aveva proceduto a una querela per un’acida recensione dell’autore sul film Musikanten. Poi, auspice Travaglio, lo strappo era stato ricucito. Con spirito dichiaratamente di parte Scanzi attua le scelte su una filmografia profonda indicandoci predilezioni e hit. La riproposizione dei testi di Battiato mostra un lessico che non è abituale all’ormai scomparsa generazione di cantautori. I richiami a Guenon, Gurdjieff, le collaborazioni con il filosofo Sgalambro e con il pluri-specialista Giusto Pio (sodalizio che ha resistito fino al 1996) fanno di Battiato un vero e proprio unicum nell’ossificato repertorio della musica leggera italiana. E’ un mondo che l’artista siciliano travalica perché le sue partiture meriterebbero una riscoperta. Un cammino lungo iniziato con la musica sperimentale elettronica all’inizio degli anni ’70. Gavetta dura, a Milano, concerti che neanche cominciavano per mancanza di pubblico. E poi il successo con arrangiamenti felici e mai banali. Un successo meritato mai veramente agognato. E Battiato ha consolidato amicizie, collaborazioni inaspettate, realisticamente adattandosi a tre cd di cover (Fleurs) quando l’ispirazione declinava. Ma è un qualcosa di già vissuto: De Gregori, Guccini e Paolo Conte non sfornano ormai da tempo dischi dal vivo arrendendosi a un’impotenza creativa molto naturale e di cui non bisogna vergognarsi.
data di pubblicazione:15/06/2022
da Paolo Talone | Giu 15, 2022
(Gigi Proietti Globe Theatre – Roma, 10/19 giugno 2022)
Torna dopo il successo dello scorso anno Pene d’amor perdute per la regia di Danilo Capezzani. Lo spettacolo inaugura la nuova stagione del Gigi Proietti Globe Theatre, da quest’anno diretto dal premio Oscar Nicola Piovani.
Pene d’amor perdute è una commedia che parla di giovani amanti e del sottile gioco del corteggiamento. Alla corte di Navarra, un luogo più fiabesco che reale, un re e i suoi compagni decidono di trascorrere tre anni dedicandosi solo allo studio, lontani da ogni tentazione e soprattutto dalle donne. L’arrivo della Principessa di Francia con le sue dame al seguito rovina inevitabilmente ogni pretesa di retta condotta. Le scene e i costumi di Marta Crisolini Malatesta ambientano l’azione nella classe di un liceo, i cui alunni sono presi da pulsioni giovanili che non tardano a manifestarsi. Il desiderio di conquista della propria amata si fa impellente, ma guai a essere scoperti nella propria debolezza. E così, tra regali fatti nel segreto, poesie composte e inviate di nascosto alla propria amata, mascheramenti poi svelati e confessioni solitarie ascoltate da orecchie indiscrete, prende il via una serie di esilaranti gags che riportarle in un racconto sarebbe difficile e noioso. Quello che rimane è la freschezza di uno spettacolo messo in scena da un gruppo di attori il cui entusiasmo, energia e una certa arguta creatività sono senza dubbio il motore portante di questa regia. Felice si conferma la collaborazione, ancora quest’anno, con gli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Sul palco il Re è Gabriele Gasco, innamorato della Principessa Sofia Panizzi. Al suo seguito Francesco Russo e Luca Carbone, Biron e Dumain, con le rispettive amanti Eleonora Bernazza e Adele Masciello (Rosalina e Caterina). Il nobile francese a servizio delle dame è Davide Fasano, mentre Sara Mancuso è Jaquinette, la contadina contesa tra Zucca (Leonardo Cesaroni) e Don Armado (Michele Enrico Montesano). Sono personaggi che abbozzano tipi comici che torneranno in altre commedie del bardo, come lo sono anche Bruscolino (Samuele Teneggi) e Intronato (Paolo Madonna).
Il merito del successo della regia di Danilo Capezzani è senz’altro nell’aver saputo sfruttare l’estro musicale degli artisti sulla scena nelle voci come nell’utilizzo degli strumenti (la drammaturgia musicale è di Paolo Coletta) e di aver così trasformato un testo difficile da rappresentare per il suo eccessivo lirismo rinascimentale in una fiaba musicale estremamente godibile e vicina al nostro gusto. Ma è specialmente nel linguaggio che il miracolo si compie. Bandito ogni virtuosismo barocco nell’utilizzo della parola, rimane in piedi una lingua limpida sulla quale con facilità poggia l’azione. Il linguaggio si trasforma in un dedalo apparentemente intricato di doppi sensi, allusioni, di frasi che scimmiottano il bel parlare e sfocia in un torrente infinito e sfiancante di parole e battute che suscitano la risata a ogni angolo.
Il finale resta amaro, così lo ha voluto Shakespeare. Le donne si congedano all’improvviso dai rispettivi uomini perché una triste notizia è sopraggiunta. È la prova finale che impone l’esame per la maturità. Un anno ancora di attesa dopo il quale potranno finalmente rivedersi. Ma cos’è in fondo un anno? È il tempo giusto che rimanda a un lieto fine che di certo arriverà.
Qui di pene non ce ne sono. Qui ci si diverte. E tanto.
data di pubblicazione:15/06/2022
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Giu 10, 2022
(Complesso Capo di Bove – Roma, 7 giugno 2022)
Le notti romane si arricchiscono di una nuova rassegna di spettacoli di teatro e danza nell’ambito del progetto Appia nel Mito, volti a mettere in risalto la bellezza del nostro patrimonio storico-artistico, con l’aiuto di interpreti tra i migliori del nostro teatro, davanti a un pubblico di spettatori che finalmente è tornato a godere dell’esperienza dello spettacolo dal vivo.
13 spettacoli e 30 artisti con cui percorreremo insieme dal 18 giugno al 30 luglio una passeggiata nel mito classico (ma con lo sguardo rivolto al presente) che parte dalla chiesa di San Nicola di fronte al Mausoleo di Cecilia Metella e, viaggiando idealmente sulla via Appia, arriva fino alla Villa Torlonia di Frascati. Ricordare il presente è il titolo dato a questa prima edizione, un ossimoro il cui significato si chiarisce nel sottotitolo della rassegna, Echi di voci e suoni dal passato per raccontare il presente.
Il progetto è nato da un’iniziativa della Compagnia teatrale Zerkalo – vincitrice di un bando della Regione Lazio – ed è stato presentato presso la stupenda cornice del Casale all’interno del Complesso di Capo di Bove, nel Parco Archeologico dell’Appia Antica. “Oltre a essere visitabili, i luoghi della cultura devono anche vivere, essere aperti alla cittadinanza tramite attività culturali”, afferma nel suo saluto iniziale Simone Quilici, Direttore del Parco Archeologico, a cui fa seguito un intervento di Amedeo Ciaccheri, Presidente del Municipio VIII, che sottolinea con entusiasmo la soddisfazione di poter essere riusciti a dare vita a un progetto di valorizzazione dell’Appia, grazie soprattutto al contributo della Regione Lazio.
I luoghi diventano allora veicolo di nuova funzionalità che, secondo Fabrizio Federici, alla direzione artistica della rassegna insieme a Alessandro Machìa, “vanno abitati e non soltanto visti”. E vanno abitati dalle persone che è necessario rieducare nell’arte, attraverso il teatro, la danza e la musica.
Questa prima edizione ha poi una particolare dedica. Nel suo discorso di presentazione, Alessandro Machìa omaggia Paolo Graziosi, grande attore – e per lui anche maestro – da poco scomparso. Sarà ricordato nella chiesa di S. Nicola la prima sera, il 18 giugno, con lo spettacolo Clitemnestra di Luciano Violante, che ha per protagonista proprio la figlia, Viola Graziosi (la regia è di Giuseppe Dipasquale), “interprete di grande sensibilità e talento, protagonista di importanti spettacoli di teatro classico e contemporaneo.”
In calendario il 19 giugno Ifigenia in Cardiff di Gary Owen per la regia di Valter Malosti e per l’interpretazione di Roberta Caronia, “un’Ifigenia moderna che non ci sta ad essere la vittima sacrificale di un sistema già scritto.”
Si continua il 24 giugno con Edipo … seh! che ha per interprete il Nastro d’Argento Andrea Tidona. Un one man show raffinatissimo che reinventa con leggerezza la tragedia di Sofocle, senza però intaccarne l’intensità (la regia è di Carla Cassola).
Spazio alla danza la sera del 29 giugno con Daphne, rivisitazione del mito tratto dalle Metamorfosi di Ovidio per la regia e coreografia di Aurelio Gatti.
Drammaturgia tutta al femminile per Circe. L’origine, scritto da Alessandra Fallucchi e Marcella Favilla, rispettivamente interprete e regista del lavoro. Insieme propongono la visione di una donna che racchiude in sé le molte potenzialità del femminile (30 giugno).
Il primo luglio chiude la prima parte della rassegna – quella che si svolge nella chiesa di S. Nicola – il reading a cura di Daniele Salvo, Inno ad Afrodite – serata per Saffo, con Melania Giglio.
Il programma continua a Villa Torlonia a Frascati il 2 luglio con Vinicio Marchioni in In vino veritas, “un viaggio meraviglioso nella letteratura, nella musica e nell’umanità che si è sviluppata intorno al culto del vino e a tutto quello che il vino rappresenta”, per poi continuare il 10 luglio con un debutto regionale del Teatro Libero di Palermo con lo spettacolo Onísio Furioso di Laurent Gaudé, con Giuseppe Pestillo.
Si dà voce anche a un mito della storia più vicina a noi con il debutto di Pasolini. Una storia romana, spettacolo scritto e interpretato da Massimo Popolizio sul grande poeta friulano, che ha fatto del mito stesso la sua fonte massima di ispirazione. “Un racconto biografico di Pasolini, dal suo arrivo nella città eterna nei primi anni cinquanta fino alla sua tragica morte nel 1975.” Le musiche sono eseguite dal vivo al violoncello da Giovanna Famulari.
Sabato 23 luglio andrà in scena La donna di Samo di Menandro, commedia riproposta con l’utilizzo delle maschere atellane, in pieno rispetto della classicità. La regia è di Roberto Zortut.
Sempre nell’ambito della commedia, il 24 luglio verrà messo in scena un adattamento di Mostellaria (la commedia del fantasma), per la direzione di Vincenzo Zingaro, uno dei massimi esperti del commediografo latino Plauto.
Prima nazionale dopo il debutto francese per lo spettacolo di danza Prometheus, con Antonio Filardo, che danzerà all’interno di uno spazio super tecnologico, grazie alle luci e al video-mapping di Alice Felloni. Ideazione e coreografia di Ludovic Party.
Chiuderà la rassegna il 30 luglio Ifigenia in Aulide di Euripide, nella traduzione adattata da Fabrizio Sinisi, per la regia del direttore artistico Alessandro Machìa. Interpreti Andrea Tidona, Laura Lattuada, Ester Pantano, Alessandra Fallucchi e Roberto Turchetta.
In concomitanza con gli appuntamenti sul palco ci saranno altri eventi, come la presentazione di libri e la possibilità di poter partecipare a dei laboratori gratuiti di teatro integrato prima di ogni spettacolo. Un altro aspetto dell’abitare i luoghi caro allo spirito che anima le serate di questa rassegna.
I biglietti possono essere prenotati scrivendo a info@zerkaloteatro.com o al numero 3516853330.
data di pubblicazione:10/06/2022
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