da Daniele Poto | Nov 12, 2021
Tre ore per entrare nel mondo giapponese fatto dialoghi elegante in salsa Cechov. Cinema dentro teatro o viceversa con la massima attenzione per la parole, gemme di dialogo.
Entrando in sala per un film che ha avuto citazioni da Oscar bisogna acclimatarsi a un altro ritmo: un ritmo diverso da quello adrenalinico dei film americani, ma anche da quello a volte troppo auto-compiaciuto di tanta cinematografia italiana. Il protagonista vive un dolore trattenuto e non espresso. Una serie di sciagure collassano la sua vita. Un glaucoma gli impedisce di guidare (scorciatoia per introdurre il fondamentale personaggio dell’autista donna) e, in sequenza, perde la figlia e la moglie. Questa serie di circostanze lo indirizza verso il lavoro e la solitudine. Sarà l’incontro con la persona che non appartiene al suo mondo riservato e in fondo privilegiato a fargli riscoprire l’umanità perduta. Riscoprire la sofferenza e la sua metabolizzazione sarà un passaggio obbligato.
A fare da sfondo alla storia c’è sullo sfondo il Giappone così diverso dal clima italico. Tradimenti senza risentimento, sesso che non ha bisogno di paludamenti a parte la sua assoluta necessità e inderogabilità. Cechov sul grande schermo era stato il canovaccio di un film di Louis Malle. Ma questo cinema restituisce l’amore per il teatro, per la memoria dell’attore e la memoria della vita. Film ipnotico da incantamento che, come si può immaginare, non ha avuto una grande distribuzione nazionale se non per la cura e la passione di alcuni esercenti. Chi si è innamorato del fil trova che non ci sia una parola fuori posto e un movimento sbagliato di macchina. Puerile definirlo intimista quando il veicolo della comunicazione mimetica passa anche per il cibo, le bevande e una carezza a un cane, la guida di un’antiquata autovettura Saab.
“Per quanto si può leggere nel cuore di una persona non si può leggere in lei come un libro aperto”. Questa citazione riassume molto dello spirito della pellicola.
data di pubblicazione: 12/11/2021
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da Daniele Poto | Nov 9, 2021
Una fotografia in movimento sull’attuale politica italiana, frugata nei due rami del Parlamento alla ricerca delle personalità più estemporanee, delle uscite fuori del coro, nella variopinta materia prima umana sfornata dalle elezioni. Roncone ha la penna leggera ma pur non soffermandosi sull’analisi, trapela una palese insoddisfazione istituzionale per il livello mediocre dei nostri rappresentanti. Il libro risente dell’attualità perché è una silloge degli articoli pubblicati sul Corriere della Sera, disposti per argomenti e non per cronologia, quindi con imprevedibili salti in avanti e indietro. Per sottrazione si capisce anche quale sia il rassicurante quadro di riferimento dell’autore. Ovviamente non la destra, non il Movimento Cinque Stelle ma il rassicurante Partito Democratico, sempre più partito di centro e della cosiddetta zona ZTL. Libro di folclorismi puri e non di ideologia frequentando ambienti che dovrebbero essere pregiati ma che, all’esplorazione, rivelano tutta la propria pochezza. L’avvento di Draghi forse restituisce dignità e speranza ma la percentuale degli elettori che vanno alle urne è lo specchio della delusione crescente del popolo italiano e una eloquente risposta a quello che gli viene propinato in sede parlamentare. Con la girandola dei continui cambi di partito dove il presunto vincolo di mandato è ormai purissima utopia. Si può dire che predomini il disincanto realista dell’autore. Fatti, fattacci, nefandezze, meschinità, rivalità e duelli: tutto quanto viene espresso per permettere al lettore di farsi un’idea compiuta sull’attuale livello della classe politica italiana. L’ultima illusione è stata quella fornita da Grillo ma una serie di esempi sfornati da Roncone è una doccia fredda su un’utopia che non si è tradotta in fatti concreti. La seconda Repubblica così è una serie di ritratti poco consolatori da sfogliare in cerca di un futuro politicamente più rassicurante. Se mai avremo l’occasione di coglierlo.
data di pubblicazione:09/11/2021
da Daniele Poto | Ott 24, 2021
(Teatro Manini – Narni, 23 ottobre 2021, anteprima nazionale assoluta)
L’irrisolta contraddizione dell’affare-Pasolini. Scena scabra ma colma di ingombranti significati alluvionali. L’Italia è il Paese dell’eterno trasmutante fascismo?
Quando il perfetto affabulatore Celestini nel prologo pre-scena dispone un copione pro-memoria sull’impiantito del palcoscenico si ha l’esatta sensazione che non ne avrà mai bisogno per tutti e 105’ i minuti della rappresentazione. Dizione e scansione precisa che sembra prefigurare una cronologia un po’ didattica della vita di Pasolini, nato a Bologna nel 1922, l’anno significativamente della Marcia su Roma. Ma quando sembra che il trend debba seguire questo piano lineare l’autore-attore-regista, divaga e riempie la storia di svolte pertinenti (ossimoro) ricostruendo una vicenda nazionale ricca di intrighi, di servizi deviati, di strategia della tensione. C’è un marcatore sensibile che è quasi un tormentone leit motiv. Anno ics della dittatura fascista. Dal 1922 in poi. Ma anche nel 1975, l’anno dell’assassinio di Pasolini, mostrato, con prove documentali, come opera di più persone e non del solo “Rana” Pelosi, un ragazzotto con cui lo scrittore, ben muscolato, avrebbe fatto fisicamente almeno gioco pari. Pochi oggetti e qualche sottofondo musicale a contrappuntare la lunga sfilata di supposizioni. C’è la paura del comunismo, eterno stigma nostrano, la strage di Piazza Fontana, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese. Dunque Pasolini è il pretesto ma anche il centro di un dopoguerra fatto di troppe bugie, di troppe macchinazioni. E Celestini si fa uno, nessuno e centomila immaginando percorsi cittadini di periferia con lo scrittore, ipotesi del suo vissuto negli anni ’50. C’è anche qualche registrazione d’epoca che ci restituisce la vita di protagonisti di questo grande affresco dove un solo grande protagonista riesce a narrarci un’inestricabile vicenda corale. Alla fine successo di pubblico indiscutibile, con la prova generale già alle spalle, in vista di una fortunata tournee civile. Con la minaccia evitabile di qualche contestazione vista la forza dell’assunto ideologico che sottintende la narrazione.
data di pubblicazione:24/10/2021
Il nostro voto: 
da Daniele Poto | Ott 22, 2021
Una delicata quanto coerente raccolta di personaggi femminili immersi una diacronia invitante. Viene da pensare al cocktail di fortunati romanzi sudamericani entrati in pianta stabile nel nostro immaginario. Non è facile racchiudere un plot in continenti diversi, utilizzando non pretestuosamente vicende personali intrecciate alle trame politiche dei nostri tempi. La storia principale di Anita si salda con quella di altre esistenze della sua prossimità (amiche, parenti) con una presenza maschile di contralto negativa, inquietante, contraddittoria. Meraviglia il congruente incastonarsi del privato in un pubblico dominio del vissuto. In effetti gli eventi politici sullo sfondo del libro alludono a un sottofondo impressionante di eventi: il nazifascismo, la seconda guerra mondiale, la dittatura militare in Brasile oltre alle mode mainstream dei nostri tempi: l’episodica Milano da bere, l’orientalismo, il culto dello yoga passando per gli hippies, sfiorando i millenials. Cucitura d’incastro molto ispirata che esce dalle strette del sentimentalismo per approdare a un respiro più ampio e universale. In altre parole la mayonese non esce impazzita dalla prova che sa di raggiunta maturità e di perfetto controllo del mood letterario. La sensibilità dell’autrice è di per se comunicativa e invita a una scorrevole lettura, non priva di curiosità per la svolta finale che da buoni anti-spoiler non riveleremo. La capacità narrativa è assecondata dalla predisposizione per uno svolgimento tramite dialoghi illuminanti e mai banali. E non c’è nessuna pretesa intellettualistica ma tanta vita vissuta. Per tanta letteratura che sa di vecchio, di cantine fumose e meccanica, qui si alita il profumo della vera vita. Non priva di inquietudini e di problematiche ma comunque vita. Ricordandoci la fertilità di un antico ma sempre valido adagio: “E’ importante che la morte ci colga vivi”. Se c’è idealizzazione questa si concentra sulla formalizzazione dell’amore come sentimento assoluto, quasi iperuranio.
data di pubblicazione:22/10/2021
da Daniele Poto | Ott 19, 2021
Due miti in uno. Il recentemente scomparso Roberto Calasso che rende un tardivo omaggio a un cofondatore dell’Adelphi, quella complessa e bizzarra figura di critico che risponde al nome di Bobi Bazlen. L’intreccio tra due estrosità, il biografo e la leggenda, produce un piccolo volumetto d’essai che per propri esclusivi meriti, si issa addirittura in classifica nelle gerarchie della saggistica. Sulla figura di Bazlen si sono già spesi Grazia Cherchi e, attraverso il romanzo, un’altra illustre perdita recente (Daniele Del Giudice). Calasso non ha la pretesa di riassumere in poche pagine una figura tanto complessa. Ma si esprime per frammenti, interpunzioni, brevi virgolettate, parafrasi a memoria secondo un fascinoso percorso ellittico, caro a chi conosceva di fama Bazlen, suggestivo per chi si avvicina per la prima volta a un’intellettuale che, udite udite, non ha mai iscritto un libro chiuso e compiuto. Per nulla preoccupato della fama, se non vigile alla stima e e alla complessità del mondo. Il riflesso di Bazlen ammicca più spesso alla filosofia che alla critica letteraria. Acume intuitivo al servizio della scoperta dei talenti. Era questa l’operazione a cui tendeva l’Adelphi, sin dalla scelta del nome, prima che una frettolosa valanga editoriale si rivolgesse alla quantità delle proposte dopo aver dissodato negli anni migliori la qualità. Lo slogan di Bazlen era eloquente nella sua semplicità. “Stamperemo solo i libri che ci piacciono molto”. Come intuite l’intento commerciale non era minimamente sfiorato dalla scelte editoriali. Daumal, Guènon, Walser, Zweig, Flaiano sono solo alcuni i nomi di una linea diritta che privilegiava le scoperte e l’esoterico, scuotendo con un sano anti-provincialismo i vezzi consolidati della società letterari italiana. Nel piccolo volumetto c’è un profumo di anni ’50, anticipatore di quella che sarebbe stata La Dolce vita. Bazlen ne è a suo modo un profeta inconsapevole, polemista puntuto che non risparmia Gadda.
data di pubblicazione:19/10/2021
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