UN DIVANO A TUNISI di  Manele Labidi Labbè, 2020

UN DIVANO A TUNISI di Manele Labidi Labbè, 2020

Psicanalisi da altro continente. Un film che si riassume in un trailer come un libro non può tradursi in una barzelletta. Plot un po’ avaro. Le gag sopraffanno l’impianto complessivo del film la cui sceneggiatura risulta striminzita e un po’ monca. Sciupato un atout che avrebbe meritato più salda mano registica.

 

Opera prima che denota tutta l’inesperienza della regista in una pellicola di chiara impronta femminile. La restrittiva società tunisina fa fatica ad accettare il ritorno dalla Francia della trentenne psicanalista che apre un improvvisato studio nella capitale cercando di sbarcare il lunario. Trovando l’ostilità della famiglia e della burocrazia ma un gran numero di clienti. Interessante l’idea di trapiantare la scienza di Jung e Freud in un contesto chiaramente poco adatto ad accettarla ma è la resa che è carente. Il plot si sviluppa un po’ a tentoni con alcuni punti morti e troppi personaggi non perfettamente caratterizzati. Insomma manca un unificante punto di vista complessivo. E la psicanalisi, nonostante l’intreccio, è la parente povera del film perché solo accennata e mai illustrata coerentemente. Per dirla in romanesco si ha l’impressione che a volte la regista, non sapendo come andare avanti, “la butta in caciara” e giri un po’ a vuoto. Con questa debolezza strutturale l’attrice principale, Golshifteh Farahani, non è in grado di restituire credito all’opera con un proprio significativo valore aggiunto. La gamma delle sue espressioni, anche facendo credito al doppiaggio di un significativo handicap, è limitata. La conclusione che non spoileremo oltre che sorprendente è anche ingiustificata se non per la necessità di un consolatorio happy end. In definitiva un’occasione sprecata. Ci viene però restituita l’idea del lassismo un po’ pigro della socialità tunisina se non un brillante affresco della città che compare sullo sfondo e mai pienamente illustrata. I climi tesi della Primavera araba sono lontani dalle intenzioni brillanti di un film che va visto senza grandi aspettative. Billy Wilder ancora non ha degni epigoni in Tunisia.

data di pubblicazione:13/10/2020


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ROUBAIX, una luce di Arnaud Desplechin, 2020

ROUBAIX, una luce di Arnaud Desplechin, 2020

Un film dall’atmosfera simenoniana con una fotografia sporca, scura. Con la maggiore parte delle scene che si svolgono di notte, mostrando il vero volto di una banlieu. Una pellicola che non è un giallo né un noir ma filtra un pezzo di antropologia delle tecniche investigative transalpine. Tenuto in frigo per il coronavirus ed ora coraggiosamente riproposto nelle sale italiane.

L’aplomb magnetico del principale interprete Roschdy Zem è un bel collante per un film che vive di atmosfere e che consolida un crescendo emotivo e drammatico scena dopo scena per accumulo. Merito di un regista che ha mietuto segnalazioni per il Premio Lumiére. Nella prima parte si delineano casi (un incendio doloso, uno stupro, una ragazza fugggita di casa poi un assassinio) che vengono risolti nella seconda. Non si prescinde dalla location, la squallida Roubaix, ai tifosi italiani più che altro nota come capolinea d’arrivo per una classica del ciclismo che parte da Parigi e che nel 2020 è stata annullata per il coronavirus. Il commissario di origine maghrebina tira i fili di varie indagini con la collaborazione dei uomini rodati e di un pivello a cui insegna il mestiere, in primis la tecnica di un interrogatorio. Condendo decisionismo e psicologia appare evidente la sua abilità nello sciogliere gli enigmi ricorrendo al martellamento dei possibili colpevoli, in particolare di un paio di donne che si rimpallano la responsabilità del delitto più grave. Un commissario che è un uomo vistosamente solo, che passa le sue serate nei bar e si appassiona solo alla crescita di un cavallo. Racconto in progress sigillato dalla chiusura, il fermo immagine di una corsa ippica a cui prende parte il suo preferito. Il giudizio è sospeso, senza moralismi, di una storia aperta in cui viene mostrato il duro lavoro di poliziotti duri ma tutt’altro che sprovvisti di umanità. Curatissimi i dialoghi e i particolari di un film che mantiene più di quello che prometta in partenza, rifuggendo da una qualunque seduzione commerciale.

data di pubblicazione:12/10/2020


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LACCI di Daniele Luchetti, 2020

LACCI di Daniele Luchetti, 2020

Di Starnone non si butta via niente. Paragone irriguardoso, come per il maiale. Un romanzo, uno spettacolo teatrale, un film, mancherebbe solo una serie a puntate su Netflix, un prequel o un sequel. Ma il prodotto cinematografico seppure non originale è di prima qualità con un regista che non ha mai banalizzato un testo

 

Un plot quasi bergmaniano. Storia di un tradimento che spacca una vita e una famiglia. Fantasmi che ritornano nel continuo avvicendamento tra presente e passato. Il gioco a quattro degli attori richiede un po’ di comprensione e di sensibilità. Per immaginare che la Rohrwacher diventi la Morante e Lo Cascio mutui nei panni di Orlando. Concessa questa licenza cinematografica comunque ci si emoziona per vicende in cui tutti sono passati e che il regista manovra con mano necessariamente drammaticamente pesante stante la delicatezza dei sentimenti e i traumi dell’addio. Più facile il riconoscimento dei figli quaranta anni dopo. Si fa però fatica a riconoscere Giovanna Mezzogiorno, vistosamente ingrassata anche in viso, sorella di Adriano Giannini, autrice di uno strappo violento con i genitori. A distanza di troppo tempo? La base di Starnone è un confortevole punto di partenza per una sceneggiatura che ha buon gioco ad appoggiarsi a duetti di stampo teatrale grazie anche alla felice vena sinergica degli interpreti. Si rimane un po’ con l’amaro in bocca ma l’happy end non è più di moda. E si riconferma l’adagio che tutte le famiglie sono infelici ma ciascuna a suo originale modo. Felice la ricostruzione dell’ambiente intellettualino che ruota attorno a Rai Tre e al suo particolare mood. Le donne sono fisionomie azzeccate forse più degli uomini anche se gli autori sono tutti al maschile. Tra Roma e Napoli viaggiano umori ma soprattutto dissapori che a tratti si manifestano con violenza. Ma più sottile è ancora la violenza psicologica alla fine di un matrimonio che si riversa nella difficile gestione dei figli.

data di pubblicazione:11/10/2020


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MAURIZIO IV di Edoardo Erba, con Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia, regia di Gianluca Guidi

MAURIZIO IV di Edoardo Erba, con Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia, regia di Gianluca Guidi

(Teatro Sala Umberto, Roma, 9/25 ottobre 2020)

Un duello in palcoscenico, una commedia a brillante che vira in dramma pulp e tutto nell’arco di un’ora per un sapiente gioco teatrale orchestrata da uno dei più prolifici e brillanti autori del panorama contemporaneo.

Riparte faticosamente una stagione con uno spettacolo recuperato dal programma 2019-2020 e già collaudato a Napoli. Capienza nel rispetto delle norme con una prima che è quasi una festa per la presenza di tanti colleghi anche inattivi e con difficoltà organizzativa non da poco vista la volontà ma anche la difficoltà di mantenere le distanze. Ma il gioco vale la candela perché c’è un’ora abbondante di succoso teatro tra due attori che mettono in opera una collaudata sinergia e un’intesa con un scambio emotivo che diventa anche inversione di gerarchie. L’apparentemente sprovveduto tecnico della luci gradatamente prende il sopravvento sul presuntuoso regista che lo tratta come un proletario da strapazzo. E i due attori sono bravi a propiziare questa trasmissione di tensione minuto dopo minuto. Testo da non spoilerare evidentemente che contiene un risvolto finale di grande presa. E c’è teatro nel teatro perché il testo base è quello di un Pirandello adattato goffamente all’attualità. E si ride volentieri per il Pirandello manipolato secondo moduli alla Tarantino. Niente è come sembra nel gioco dei ruoli. La dannazione del teatro sembra al centro della scena dominata da una scala che nessuno salirà in fondo. S’intravede lo scambio comunicazionale tra due attori che si conoscono dal 1992. Guidi dimostra di saper uscire dal profilo alto costruitosi negli anni con i ruoli comici. Nei mesi del coronavirus il modello teatro per due attori mostra ancora una volta la propria funzionalità, al di là dei ruoli mono-dimensionali del reading e dell’one man show. Peraltro la stagione del teatro romano è ancora un punto interrogativo anche se questo spettacolo è un incoraggiante punto di svolta per tutto il settore, non solo capitolino.

data di pubblicazione:10/10/2020


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LA PRIMA DONNA di Tony Saccucci, 2020

LA PRIMA DONNA di Tony Saccucci, 2020

Ascesa e caduta di una pro-femminista del passato secolo. Cantante lirica affermatasi in giovane età, poi soprattutto per quindici anni primo gestore del teatro dell’Opera di Roma, vivendo in prima persona un’epopea gloriosa della scena classica italiana, dialogando e litigando con Toscanini e Mascagni. Complici le difficoltà economiche e una notevole idiosincrasia per il fascismo viene gradatamente epurata e costretta a liberarsi della sua creatura. Morirà in un incidente d’auto nel 1928 quando la sua parabola si è interamente consumata..

 

Torna nelle sale come evento speciale un piccolo gioiello d’autore che, beffardamente, doveva uscire l’8 marzo, proprio il giorno più critico della prima ondata di coronavirus. Ed è un gioiellino cinefilo, un prodotto ibrido che si avvale di documentazione d’epoca (diversi i contributi) e della recitazione di Licia Maglietta che, anche in base a una notevole somiglianza, interpreta gioie e dolori di questa figura affascinante di impresaria che, in tempi non sospetti, si batte per le donne e con un piglio decisionista alimenta la stagione del Teatro dell’Opera senza eccessivi personalismi. Interverrà solo una volta in prima persona ricordandosi delle proprio non trascurabili dote canore. Un omaggio che ha il pregio di un’accurata sceneggiatura dividendo in capitolo un’esistenza che milioni donne vorrebbero avere la fortuna di poter vivere. Tacciata di un brutto carattere, di una dipendenza dalla cocaina, la Carelli precipiterà in un gorgo di diffidenza, alimentata anche dal Duce che pure venne omaggiato e riverito nel suo primo affacciarsi al teatro Costanzi. In 90’ si dipana una storia affascinante in cui si affacciano D’Annunzio, Caruso e il marito della Carelli, il disinvolto impresario Mocchi che, contestualmente, tiene banco tra Argentina e Brasile, tenendo vivo un doppio binario organizzativo, marito assente e spesso traditore. Risalta nella Carelli la personalità e una grana voglia di indipendenza. Bene ricordare che le donne italiane parteciparono al suffragio universale solo nel 1946. Dunque negli anni della Carelli e del fascismo la donna come prima missione doveva far figli, baionette per la patria. Bene, non dimenticarlo.

data di pubblicazione:08/10/2020


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