da Daniele Poto | Gen 27, 2018
(Teatro Nino Manfredi – Ostia, 16/28 gennaio e Teatro Ghione – Roma, 30 gennaio/11 febbraio 2018)
La fertile drammaturgia di Gianni Clementi in combinato disposto con l’amico sodale Paolo Triestino ha prodotto un altro gioiellino.
Fa effetto recensire Il Padrone a cavallo della giornata della memoria perché la pièce contiene echi di seconda guerra mondiale ed ebraismo senza posizionarsi sulla facile guida sicura del “politicamente corretto”. Sembra ispirare il concetto che la “roba” (a Roma si direbbe “robba”) di verghiana memoria sia il motore del mondo. Ed è questa roba (appartamenti, soldi, potere) che una famiglia romana vuole assolutamente conservare di fronte alla prospettiva del ritorno a casa dell’ebreo che in conseguenza delle leggi raziali era stato costretto ad allontanarsene, con l’esplicito accordo di riprenderne il possesso a fine evento bellico. Senonché l’ebreo è un fantasma che diventa ossessione nella visione della coppia. E un secondo motore della vita oltre che della storia è la donna (la brava Paola Tiziana Cruciani, qui costretta a esibirsi con un braccio rotto al collo). È lei la dea ex machina che muove le pulsioni degli uomini e con la lusinga del sesso elargito al marito, all’amante o solo immaginato con l’ebreo stalker, indirizzando le motivazioni verso i suoi desideri ovvero la soppressione fisica dello sgradito proprietario. Ma l’azione avrà conseguenze ancora più gravi e choccanti sulle quali sorvoliamo per amor di trama e per il piacere dello spettatore futuro. Musiche d’epoca e un’atmosfera anni ’50 (“Lascia o raddoppia”, motivetti d’epoca, Nilla Pizzi) per una commedia nera, acre, che odora di zolfo e di rivendicazioni della piccola meschina piccola borghesia romana. Come si scrive in questi casi si ride ma si ride amaro fino al pirotecnico finale che vive su una conclusione tranchante davvero inaspettata. Il terzo attore, convincente caratterista, è Bruno Conti, solo omonimo del popolare ex calciatore giallorosso nato a Nettuno.
data di pubblicazione:27/01/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 18, 2018
(Teatro Cometa Off – Roma, 15/21 gennaio 2018)
Alda Merini è mito, è la quintessenza della poesia in Italia. È donna che travalica i confini nazionali e ora si incarna anche su una scena teatrale grazie allo spettacolo in scena alla Cometa Off intitolato Dio arriverà all’alba per il testo e la regia di Antonio Nobili e la sinergia intelligente con altre componenti che rispondono ai nomi di Antonella Petrone (interprete), Paolo Marzo (colonna sonora) e Patrizia Masi, tramite come conoscente della poetessa. Non si tratta di un reading, non si tratta di un’agiografia letteraria ma di un racconto teatrale vero e proprio. Un professore universitario telefona alla sua amica Alda Merini presentandole un giovane talentuoso che si sta occupando di ricerche sulla poesia contemporanea e ha bisogno di testimonianze di prima mano. L’impatto tra i due fa nascere dialoghi, contraddizioni, scoperte e cadute facendoli addentrare in un meccanismo di riconoscimento e/o spaesamento, assolutamente proficuo per la resa sul palcoscenico. Inevitabilmente emerge il conflittuale vissuto della Merini, un’esistenza in cui dramma e ironia si fondono in maniera incandescente. L’operazione di Nobili è multimediale perché, contemporaneamente, è uscito un libro dal titolo omologo a quello dello spettacolo. Un lavoro di scandaglio profondo, rispettosamente didattico ma non assolutamente didascalico. E la poetessa non è solo in scena perché accompagnata da un ricco contorno di deuteroagonisti che ne precisano intenzione e carattere in un raffinato gioco teatrale. Gioventù e vecchiaia, i due aspetti anagrafici della vita, a volte collidono, a volte si scontrano in un climax di forte impatto emozionale.
data di pubblicazione:18/01/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 17, 2018
(Piccolo Eliseo – Roma, 10/28 gennaio 2018)
Gli spettacoli della Carrozzeria Orfeo sono un delirio organizzato, funzionale a rappresentare lo squilibrio della vita quotidiana. La lente è una congrega di emarginati, espulsi dalla società che conta (“la recinzione”). C’è l’ex prete deluso dalla Chiesa, il sordomuto con l’aggravante politicamente scorretta dell’omosessualità, una donna di mezz’età che cerca di sublimare il desiderio di maternità con un musulmano ormai totalmente convertito ai riti del capitalismo made in Italy. In più un borghese in via di espulsione dalla classe media che è la cartina di tornasole per misurare il disagio di chi ha avuto e si confronta con chi non ha più. Due ore di spettacolo filante, pregno di battute e di umori malinconici con il leitmotiv di una storia onirica che è anche un giallo con varie possibilità di interpretazione. Certo è che questo gruppo è fortemente emergente nella società teatrale. Il Thanks for Vaselina di loro recente produzione diventerà un film diretto da Gabriele Di Luca, prodotto da Casanova multimedia ovvero da Luca Barbareschi che ha puntato forte su questo collettivo. Ironia, sarcasmo pungente, sprezzatura della società attuale nel melting pot corrosivo per una platea visibilmente soddisfatta e multigenerazionale. Il Piccolo si conferma piccolo e intenso laboratorio sperimentale. Puntuale nell’assecondare la grevità dell’assunto una scenografia fatta di fatiscenti roulotte, di bare trafugate, di piccoli e grandi squallori quotidiani. E la nudità della povertà presentata senza falsa coscienza ma in tutta la sua disperante irreversibile condizione. La comunità in scena è lo specchio di un grande pezzo di società italiana.
data di pubblicazione:17/01/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 9, 2018
(Teatro dell’Unione – Viterbo, 7 gennaio 2018; Teatro Roma – Roma, 9 gennaio/11 febbraio 2018)
L’Italia vista da un ospedale non è certo migliore. Traffici, corruzione, furbizie assortite e rivalità in corsia vistosamente amplificate dalla mozione teatrale in Operazione, titolo abbreviato rispetto al più articolato metaforico e ridondante In barca a vela contromano (citazione dallo spettacolo, recitata da Mattioli contro mano, efficace battuta).
Compagnia solida, su un testo che ha 30 anni e che è stato traslato al cinema più di venti anni fa. Capisaldi ancora Antonio Catania, navigato capobanda, ironia di rimessa, paciosità aguzza e ficcante. E bella crescita per il protagonista giovane Nicolas Vaporidis, 11 anni dopo Notte prima degli esami, che va a sostituire Valerio Mastandrea. Non più ragazzo ma uomo e, diremo attore fatto anche in teatro, vista la personalità con cui gestisce il personaggio di un aspirante “ispettore interno” che alla fine cede alle ragioni di una profonda umanità.
Gioca di rimessa anche la “caposala” Gabriella Silvestri. Anche lei, come Catania, gioca di rimbalzo, sugli assist dei colleghi e va puntualmente in gol.
Lo spettacolo è transitato da Viterbo nel ripristinato Teatro dell’Unione che, dopo il grande freddo reale per gli spettatori in Copenaghen, ha virato su un insopportabile caldo in platea e sui palchi, facendo i conti con un difetto acustico che non è colpa degli attori ma della poco accorta ristrutturazione, complice la cancellazione della buca dell’orchestra.
Si ride, amaro, ma si ride. In soldoni la sanità italiana costa al Paese 110 milioni e circa 25 se ne perdono tra corruzione, appalti truccati, sub-cessioni forzate al privato. Come pensare dunque che anche tra i malati e nel dolore non spiri lo stesso rancoroso sgomento.
Il regista Stefano Reali , viterbese di ritorno, ci ha tenuto a ringraziare il pubblico per questo valido test di rodaggio per uno spettacolo che ora transita a Roma.
data di pubblicazione: 9/01/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 30, 2017
(Teatro della Cometa – Roma, 6/31 gennaio 2017)
Una commedia tradizionale, come se ne tentano raramente. Uno spaccato di una problematica famiglia romana di borgata, immersa nel reagente di un’Italia prossima al boom e che si gode, una dopo l’altra, come rutilanti novità, l’introduzione domestica della tivù a colori, del telefono, di un primo insperato benessere. E, attorno, fuori, il mondo che cambia.
La guerra fredda, Kruscev contro Kennedy, la morte di quest’ultimo, la tragedia tutta italiana di Longarone. È il contrasto vivido che piace a Gianni Clementi provvido dispensatore di storie. Quella raccontata in La spallata è una storia che viene da lontano: è stata editata nel lontano 2003, vincendo il premio Fondi La Pastora, trovando attualità in una compagnia affiatata, dominata dalle tre interpretazioni femminili, non facili perché ricche di sfumature e di policromi adattamenti tra primo e secondo tempo.
Citazioni di merito dunque per Elisabetta De Vito, abituale spalla di Pistoia & Triestino, Gabriella Silvestri e Claudia Ferri. La fissità disadorna della scena- un interno pasoliniano, un bagno di fortuna, un materasso che indica promiscuità e mancanza di privacy- è vivificata dal gioco delle luci che mostra e fa immaginare realtà e sviluppi diversificati.
Oltre 130 minuti in scena, un impegno non da poco per la compagnia, con un finale poetico-onirico. Se si ride si ride amaro in questa tragicommedia all’italiana che sa anche di Scola, di Nanni Loy, di proletariato inconsapevole e irredento. Tra i contrasti inter-familiari tra il primo consumismo e l’adesione al Pci, i fermenti di una società che cambia e una famiglia che cerca di sbarcare il lunario. La spallata è in gergo l’alzata di una cassa da morto, piccola industria alternativa per chi non ha i mezzi per progredire con lo stesso ritmo della classe media.
La regia della Gasbarri tiene saldi con buona proprietà i diversi registri, sfruttando un linguaggio colorito e sopra le righe.
data di pubblicazione: 30/12/2017
Il nostro voto:
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