da Daniele Poto | Feb 9, 2023
(Teatro Il Parioli Roma, 8/12 febbraio 2023)
Un Cechov scrupolosamente rispettato nella trama ma con la volontà di movimentare la scena con andamento mosso e persino qualche acrobazia. Bizzarrie di scena che non stonano rispetto alla tradizione. Cederna, l’attore di punta è inserito in un ensemble affiatato e di sicura affidabilità.
Il politicamente corretto in chiave bellica non ha tarpato le ali alla proposta cechoviana dell’innovativo teatro di Roma nord. Lo spettacolo restituisce il mood del cambiamento: dalla società agricola che vive sulla rendita a un qualcosa di profondamente diverso che si intuisce ma che non si riesce definire. Al centro delle contraddizioni Zio Vanja (a cui pesa l’incipiente vecchiaia) e una serie di amori frustrati e non corrisposti, sommersi dalla cappa dei matrimoni borghesi naturalmente insoddisfacenti. S’intuisce che molti dei sette personaggi in questione hanno voglia di trasgressione ma la mancata corresponsione decreta uno stato di perenne disagio, Particolarmente vistoso in zio Vanja che prorompe in un tentativo di omicidio dell’odiato professore e poi nell’aspirazione al suicidio tramite una fiala di morfina. Due tempi lunghi il giusto per sfiorare la mezzanotte, avvicinandosi all’abdicazione del pulsare delle passioni che restituisce, con la partenza degli ospiti, un clima di pace e di rassegnazione. Bisogna passare il tempo, trascorrerlo lavorando anche se se Sonja affida su un altalena agli astanti un messaggio profondo di speranza nella religione. Vanja intanto compone i testi di alcune fatture tornando nei ranghi di un’apparente normalità. In fondo lo spettacolo è la metafora di come una passione si ridimensioni nella normalità, spenta dal lento digradare dell’esistenza. Felicità e un migliore futuro sono indefinitamente lontani. E chissà mai se torneranno, come gli anni della gioventù.
data di pubblicazione:09/02/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 8, 2023
La definizione di thriller sentimentale è la più adatta per l’ennesimo prodotto bizzarro ma interessante della nuova cinematografia coreana, già premiata con Parasite. Ci si deve orizzontare in coordinare spazio temporali insolite per lo spettatore europeo ma con gradevolezza e senza eccessiva fatica.
Un irreprensibile detective cade nella ragnatela di una dark lady, adusa a perdere troppi mariti per non essere sospettata. Dunque la trama poliziesca segue parallelamente la via dei loro intrecci amorosi, anche se ci sono altri uomini e altre donne di mezzo. Il poliziotto ha molti tic ipocondriaci. E’ insonne, ha bisogno continuamente di istillarsi collirio. Lei lo strega con induzioni tipicamente femminili. Naturalmente siamo in Corea del sud e dunque il format è insolito e particolare, non ha lo sviluppo di un plot hollywoodiano. A volte indugia, a volte si perde in un ritmo tutto orientale. Però il regista, sia pure con qualche impaccio, non smarrisce mai la continuità della trama. Che propone risvolti insospettati e disvelamenti imprevedibili. Film fascinoso, con un suo mood particolare. Adatto a essere visto in un primo spettacolo visto che non ha paludamenti spettacolari, effetti speciali o attrattive di facile botteghino. Ma al Festival di Cannes ha incassato il premio della regia, riconoscimento ai suoi indubbi meriti. Di mezzo c’è il mondo degli affari, intrighi transazionali che riguardano anche Cina e Manciuria, un mondo complesso basato su interazioni sentimentali ma anche colossali transazioni economiche. Bravi gli interpreti a disegnare traiettorie di vite opposte: il detective irretito che esce dai binari; la Circe che inizia ad amarlo quando lui ha già smesso. Metafora di una vita che a volte gira perfettamente al contrario. Inizialmente il titolo per la distribuzione italiana era La donna del mistero. Poi si è preferito mantenere il titolo per il mercato in lingua inglese, di meno facile presa.
data di pubblicazione:08/02/2023
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da Daniele Poto | Feb 7, 2023
Come da una grande amicizia può nascere una grande inimicizia di sedimento quasi mortale. Una sorta di Malavoglia all’irlandese con esiti anche cinematografici insospettabili. Bella prova di cinema con risultati insperati al box office e nove nomination per gli Oscar 2023.
L’Irlanda poverissima di qualche decennio fa, anzi più povera perché siamo nelle isole Aran dove si vive di allevamento e di agricoltura e dove il massimo divertimento è recarsi in un pub, fare quattro chiacchiere con un amico davanti a una pinta di birra Guinness. Ecco perciò quando l’amico viene meno perché non gli vai più a genio che nasce una crisi di rapporti profonda che si riverbera su tutto il paese. Caratteri tagliati con l’accetta tratteggiando una vita dura, essenziale, scabra, paleo-primitiva. Farrell è un sempliciotto che va in tilt quando il suo schema amicale salta in aria. Il contraddittore è di una feroce coerenza nel rifiutarlo. E gli altri, in mezzo, comparse di questo duello proto-western rusticano. Paesaggi indimenticabili che ben illustrano la durezza del luogo, tutt’altro che balneare. Quando gli esseri umani vengono meno i migliori amici sono cani, asini e mucche che si aggirano indisturbati nelle case dei protagonisti. Il film ti porta dove non ti aspetti e non faremo torto ai lettori nello spoilerarlo. Senz’altro vietato ai minori per la crudezza di alcune scene. Il sottotesto non troppo specificato documenta in maniera sottotitolo la piaga dell’alcolismo, dell’incesto, della solitudine, ma senza pronunciare giudizi morali. I miracolo del cinema: da una piccola storia, da un plot essenziale nasce un grande film. Ci stupisce che nel doppiaggio a un certo punto venga messa in bocca a Farrell la parola Epitome certo inaccessibile al suo scarso vocabolario. La conclusione? Basti dire che siamo lontanissimi dalla prospettiva dell’happy end. Il regista ci fa capire che per certe situazioni non c’è possibilità di redenzione.
data di pubblicazione:07/02/2023
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da Daniele Poto | Feb 6, 2023
(Teatro Porta Portese – Roma, 3/5 febbraio 2023)
Gioco a due per una coppia di attori compagni anche nella vita e dunque in perfetta sinergia. Un’ originale testo italiano che sembra mutato dalla nuiova scena inglese. Dramma e un pizzico di giallo per un finale a sorpresa.
Un’attrice che sulle prime sembra sprovveduta si presenta una sera a casa di un quotato autore teatrale, forse su suggerimento di un manager misterioso che compare solo al telefono. E’ in cerca di un copione per un proprio laboratorio teatrale, meglio se gratuito. Lo scrittore prima la irride e non la prende sul serio, poi si fa irretire e le concede un testo incompleto, appunto Il tempo supplementare. Nella trattativa tra i due si affaccia la proposta di concludere con un finale in collaborazione. Lo scrittore si sente offeso più che lusingato. Ma l’attrice che ha grande capacità seduttiva lo convince, lo strega, lo seduce, lo bacia e ci finisce a letto. Scenograficamente il salotto della discussione si trasforma nell’improvvisata alcova. Ma alla fine del rapporto lo scrittore minimizza, si sforza di credere che per lui sia stata solo un’avventura, al contrario della sua interlocutrice che fa sempre più sul serio. Lasciamo alla vostra immaginazione la conclusione. Diciamo solo che per l’ennesima volta la componente maschile non ne esce bene. E la metafora del suo flop è l’efficace e spettacolare sgonfiaggio della superficie su cui si è sdraiato il protagonista, tornata salotto. La Ciaramella manipola efficacemente la propria parte. Prima si palesa ingenua, poi novella Circe, quindi delusa, infine vendicatrice: recitazione per tutti i gusti con grande capacità di cambiare il registro. Il personaggio dello scrittore è sufficientemente sprezzante e scostante attingendo a un massimo di volgarità quando deve descriverla dopo aver consumato il rapporto sessuale, il veloce intrattenimento di una sera. Mini-dibattito alla fine per uno spettacolo riuscito.
data di pubblicazione:06/02/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 3, 2023
(Teatro Argot Studio – Roma, 2/5 febbraio 2023)
Una feroce discesa all’inferno introspettiva per attrice sola. L’Arvigo strabilia nel suo pezzo forte, trampolino di lancio di 13 anni fa. Un classico della drammaturgia contemporanea in un monologo senza pudore di 50 minuti.
La prima londinese di 22 anni fa. E non si può dimenticare che l’autrice, dopo aver scritto il testo in ospedale, si tolse la vita l’anno prima, quindi senza poter assistere al successo dell’innovativo tentativo di teatralizzazione di un dolore immenso. Dunque il delirio in scena è fuori dai canoni teatrali, recitato come un non più rinviabile addio al mondo, un censimento delle delusioni, dei sentimenti riposti nelle persone sbagliate, un tragico redde rationem condito di parolacce, pensieri osceni e segreti. Un respingimento esistenziale che l’interprete ci fa vivere stimolando l’intelligenza emotivo dello spettatore che non può compartecipare al senso finale del resoconto ma può assistere con ammirazione a questo intenso flusso di coscienza, recitato con una scena spoglia ed essenziale. Originariamente c’erano margini di dialogo che sono stati espunti da questa versione italiana. L’Arvigo punta alto e alla fine appare sinceramente emozionata per il ritorno da dove in fondo era partita nell’intimità della piccola sala romana, gremita come al solito da giovani. C’è un lirismo di fondo nel testo non sopito ma che va decodificato. Quadri di una scena spezzata. C’è forte pathos ma anche epos. Il suo corpo ci parla e non mente. Cammina sui pezzi di vetro, incurante delle ferite del corpo che sono minime rispetto a quelle dell’anima. Una grande prova di attrice solista, frutto maturo della sua sensibilità a misura di Kane, l’autrice suicida. Teatro che parla di vita e che non ricorre a artifici di alcun genere nella sua scabra rudezza.
data di pubblicazione:03/02/2023
Il nostro voto:
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