MUSEO PASOLINI di e con Ascanio Celestini

MUSEO PASOLINI di e con Ascanio Celestini

(Teatro Manini – Narni, 23 ottobre 2021, anteprima nazionale assoluta)

L’irrisolta contraddizione dell’affare-Pasolini. Scena scabra ma colma di ingombranti significati alluvionali. L’Italia è il Paese dell’eterno trasmutante fascismo?

Quando il perfetto affabulatore Celestini nel prologo pre-scena dispone un copione pro-memoria sull’impiantito del palcoscenico si ha l’esatta sensazione che non ne avrà mai bisogno per tutti e 105’ i minuti della rappresentazione. Dizione e scansione precisa che sembra prefigurare una cronologia un po’ didattica della vita di Pasolini, nato a Bologna nel 1922, l’anno significativamente della Marcia su Roma. Ma quando sembra che il trend debba seguire questo piano lineare l’autore-attore-regista, divaga e riempie la storia di svolte pertinenti (ossimoro) ricostruendo una vicenda nazionale ricca di intrighi, di servizi deviati, di strategia della tensione. C’è un marcatore sensibile che è quasi un tormentone leit motiv. Anno ics della dittatura fascista. Dal 1922 in poi. Ma anche nel 1975, l’anno dell’assassinio di Pasolini, mostrato, con prove documentali, come opera di più persone e non del solo “Rana” Pelosi, un ragazzotto con cui lo scrittore, ben muscolato, avrebbe fatto fisicamente almeno gioco pari. Pochi oggetti e qualche sottofondo musicale a contrappuntare la lunga sfilata di supposizioni. C’è la paura del comunismo, eterno stigma nostrano, la strage di Piazza Fontana, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese. Dunque Pasolini è il pretesto ma anche il centro di un dopoguerra fatto di troppe bugie, di troppe macchinazioni. E Celestini si fa uno, nessuno e centomila immaginando percorsi cittadini di periferia con lo scrittore, ipotesi del suo vissuto negli anni ’50. C’è anche qualche registrazione d’epoca che ci restituisce la vita di protagonisti di questo grande affresco dove un solo grande protagonista riesce a narrarci un’inestricabile vicenda corale. Alla fine successo di pubblico indiscutibile, con la prova generale già alle spalle, in vista di una fortunata tournee civile. Con la minaccia evitabile di qualche contestazione vista la forza dell’assunto ideologico che sottintende la narrazione.

data di pubblicazione:24/10/2021


Il nostro voto:

ANITA di Maria Franzè – Masciulli editore, 2021

ANITA di Maria Franzè – Masciulli editore, 2021

Una delicata quanto coerente raccolta di personaggi femminili immersi una diacronia invitante. Viene da pensare al cocktail di fortunati romanzi sudamericani entrati in pianta stabile nel nostro immaginario. Non è facile racchiudere un plot in continenti diversi, utilizzando non pretestuosamente vicende personali intrecciate alle trame politiche dei nostri tempi. La storia principale di Anita si salda con quella di altre esistenze della sua prossimità (amiche, parenti) con una presenza maschile di contralto negativa, inquietante, contraddittoria. Meraviglia il congruente incastonarsi del privato in un pubblico dominio del vissuto. In effetti gli eventi politici sullo sfondo del libro alludono a un sottofondo impressionante di eventi: il nazifascismo, la seconda guerra mondiale, la dittatura militare in Brasile oltre alle mode mainstream dei nostri tempi: l’episodica Milano da bere, l’orientalismo, il culto dello yoga passando per gli hippies, sfiorando i millenials. Cucitura d’incastro molto ispirata che esce dalle strette del sentimentalismo per approdare a un respiro più ampio e universale. In altre parole la mayonese non esce impazzita dalla prova che sa di raggiunta maturità e di perfetto controllo del mood letterario. La sensibilità dell’autrice è di per se comunicativa e invita a una scorrevole lettura, non priva di curiosità per la svolta finale che da buoni anti-spoiler non riveleremo. La capacità narrativa è assecondata dalla predisposizione per uno svolgimento tramite dialoghi illuminanti e mai banali. E non c’è nessuna pretesa intellettualistica ma tanta vita vissuta. Per tanta letteratura che sa di vecchio, di cantine fumose e meccanica, qui si alita il profumo della vera vita. Non priva di inquietudini e di problematiche ma comunque vita. Ricordandoci la fertilità di un antico ma sempre valido adagio: “E’ importante che la morte ci colga vivi”. Se c’è idealizzazione questa si concentra sulla formalizzazione dell’amore come sentimento assoluto, quasi iperuranio.

data di pubblicazione:22/10/2021

BOBI di Roberto Calasso- Adelphi, 2021

BOBI di Roberto Calasso- Adelphi, 2021

Due miti in uno. Il recentemente scomparso Roberto Calasso che rende un tardivo omaggio a un cofondatore dell’Adelphi, quella complessa e bizzarra figura di critico che risponde al nome di Bobi Bazlen. L’intreccio tra due estrosità, il biografo e la leggenda, produce un piccolo volumetto d’essai che per propri esclusivi meriti, si issa addirittura in classifica nelle gerarchie della saggistica. Sulla figura di Bazlen si sono già spesi Grazia Cherchi e, attraverso il romanzo, un’altra illustre perdita recente (Daniele Del Giudice). Calasso non ha la pretesa di riassumere in poche pagine una figura tanto complessa. Ma si esprime per frammenti, interpunzioni, brevi virgolettate, parafrasi a memoria secondo un fascinoso percorso ellittico, caro a chi conosceva di fama Bazlen, suggestivo per chi si avvicina per la prima volta a un’intellettuale che, udite udite, non ha mai iscritto un libro chiuso e compiuto. Per nulla preoccupato della fama, se non vigile alla stima e e alla complessità del mondo. Il riflesso di Bazlen ammicca più spesso alla filosofia che alla critica letteraria. Acume intuitivo al servizio della scoperta dei talenti. Era questa l’operazione a cui tendeva l’Adelphi, sin dalla scelta del nome, prima che una frettolosa valanga editoriale si rivolgesse alla quantità delle proposte dopo aver dissodato negli anni migliori la qualità. Lo slogan di Bazlen era eloquente nella sua semplicità. “Stamperemo solo i libri che ci piacciono molto”. Come intuite l’intento commerciale non era minimamente sfiorato dalla scelte editoriali. Daumal, Guènon, Walser, Zweig, Flaiano sono solo alcuni i nomi di una linea diritta che privilegiava le scoperte e l’esoterico, scuotendo con un sano anti-provincialismo i vezzi consolidati della società letterari italiana. Nel piccolo volumetto c’è un profumo di anni ’50, anticipatore di quella che sarebbe stata La Dolce vita. Bazlen ne è a suo modo un profeta inconsapevole, polemista puntuto che non risparmia Gadda.

data di pubblicazione:19/10/2021

IL PALLONE DI STOFFA di Walter Pedullà- Rizzoli editore, 2020

IL PALLONE DI STOFFA di Walter Pedullà- Rizzoli editore, 2020

Più eloquente del titolo che rimanda al calcio giovanile, alla povera infanzia calabrese, illuminante è il sottotitolo: Memorie di un nonagenario. Perché Water Pedullà, esimio critico letterario, festeggiando un’età invidiabile, rivela il suo tonitruante Confesso che ho vissuto. E, in effetti, nella sua esistenza ha cumulato molte vite: professore emerito alla Sapienza, presidente della Rai, primo responsabile del Teatro di Roma, critico letterario de L’Avanti. Sempre in prima fila per battaglie sperimentali nel nome del Partito Socialista ma versione lombardiana, non proprio surrogato ideologico di Craxi. Un fiero combattente della vita che qui ci ricorda la lunga e sofferta gavetta, fino all’affermazione accademica sulla scia del grande e indimenticato maestro Giacomo De Benedetti. Novanta anni raccontati con grande lucidità di pensiero e con qualche pensiero acuminato. Inevitabile momento di bilanci per chi ha avuto tanto dalla vita ma parallelamente ha dato con generosità e slancio, sempre proteso verso il limite dell’ostacolo. Da Siderno ai Palazzi-bene della capitale ma sempre con il sorriso sulle labbra, pronto a demolire il mito sovietico e la labilità di certi irresistibili romanzieri italiani. Pedullà è stato un maestro per disvelare i frutti buoni del novecento italiano. Nel riscoprire Landolfi, nel valorizzare Pizzuto, nell’assecondare le pulsioni del Gruppo ’63 e le vena dell’avanguardia. Critico che era amico e frequentava gli scrittori, primo fra tutti il corregionale Saverio Strati. Insieme uomo di potere e di barricate, estrema sintesi dialettica per un intellettuale che ha sempre difeso con coerenza le proprie tesi, anche correndo il rischio di essere defenestrato da cariche importanti. La godibile lettura ci fa entrare in un mondo personale ricco di aneddoti, di emozioni, di amarezze, di risvolti, di piccoli ma apprezzabili colpi di scena. Con la chiave della militanza e dell’impegno sempre debitamente in primo piano. Un ampio florilegio di citazioni riassunte nell’indice di nomi permetterà di orizzontarsi in una mappa esistenziale complicata.

data di pubblicazione:15/10/2021

PENG  di Marius Von Mayenburg, traduzione di Clelia Notarbartolo, regia di Giacomo Bisordi, con Fausto Cabra, Gianluigi Fogacci, Sara Borsarelli, Giuseppe Sartori, Anna C, Colombo, Francesco Giordano, con la partecipazione di Manuela Kustermann

PENG di Marius Von Mayenburg, traduzione di Clelia Notarbartolo, regia di Giacomo Bisordi, con Fausto Cabra, Gianluigi Fogacci, Sara Borsarelli, Giuseppe Sartori, Anna C, Colombo, Francesco Giordano, con la partecipazione di Manuela Kustermann

(Teatro Vascello – Roma, 24 settembre /10 ottobre 2021)

Un progetto dinamitardo di teatro sovversivo/adrenalico. Due ore tirate allo spasimo per un adeguato impegno fisico di una compagnia omogenea e polivalente. Teatro situazionista e non letterario per due ore di un sano se non istruttivo “lasciatemi divertire”.

Esplodono anche colpi da arma da fuoco in scena (avviso per i più impressionabili) segno che lo spettacolo può riservare qualunque sorpresa. Dagli intermezzi pubblicitari della padrona di casa Manuela Kustermann al pubblico ludibrio di una secchiata di concime in testa riservata alla donna vittima. Del resto lo slogan dominante dell’autore è la massima “il teatro dovrebbe essere un luogo in cui non sentirsi al sicuro”. Difatti lo spettatore avvampa di fronte alle scatole cinesi in finta diretta alla “Grande fratello” sadica e stizzosa dove l’infante Peng è il protocollo di una nuova logica di controllo, auspicando il momento in cui i giovani prendano il sopravvento sui genitori politicamente corretti. Peng, creatura di laboratorio scenico, è completamente all’opposto. Spietato, dissacrante, morboso nella sua voglia di affermazione. Una grandiosa parodia dell’esistente europeo che cerca di ribadire i valori mentre non riesce ad affermarli. Così la donna strapazzata è un essere da rilegare in cantina che si esalta solo nei quiz dove (naturalmente) sarà la peggiore a vincere perché all’avversaria non sarò dato modo di esprimersi. Due ore di svolgimento convulso e senza una trama riassumibile. E, viva la faccia, con grande spreco di materiale nei fai da te in cui gli attori ribaltano scenografie, piani d’incontro, prospettive. Lo spiazzamento è la regola della casa. Nell’occasione il teatro contiene la televisione e il video cinematografico in un affastellamento al quadrato e persino al cubo della fruizione artistica. Il teatro di Monteverde ha investito molto su questa proposta anticonvenzionale che esprime una grande durata in cartellone rispetto all’abituale programmazione. Scelta ripagata da un pubblico plaudente e entusiasta anche per la grande profusione di fisicità dei componenti. Non è un caso che lo script sia venuto nel periodo di massimo imbarazzo per la presidenza-Trump.

data di pubblicazione:07/10/2021


Il nostro voto: