da Daniele Poto | Ott 17, 2022
(Teatro Vascello – Roma, 11/16 ottobre 2022)
Il crudo naturalismo di Strindberg portato su una scena essenziale con sintesi bergmaniana per un vivo successo di pubblico fino all’ultima replica.
Ci vuole coraggio per approcciare un testo del 1888, proposto in Italia per la prima volta nel 1897, tra discussioni e polemiche. La disinvolta signorina Giulia creca un corto circuito di classe tra padrone e servi, tra la famiglia del conte e il proletariato. Il debutto è come il finale: contrassegnato da una scenografia opprimente. Un muro nero che occupa tutta la scena e da cui salgono e scendono i tre protagonisti. La vicenda è sfrondata di personaggi e situazioni, calata in un clima di ambigua e ammiccante sinteticità con speculazioni evocative. Con il linguaggio dell’ottocento che acquista una sua durezza con scoppi di turpiloquio e l’affabulare istintivo e ferino del servo. Vicenda che nell’originale termina con un suicidio e che qui invece veicola un finale aperto. I tre attori sono bravi ad acuire la tensione in un crescendo di dialoghi convulsi dove l’apparente normalità sembra garantirà dall’iper-religiosità della cuoca, sempre più scandalizzata dalle evoluzioni degli altri due protagonisti ma comunque partecipe del loro rapporto. Balletto dialettico a tre. Con il servo eccitato e una Giulia che vuole e non vuole, irretita ma anche provocatrice in un gioco a specchio in cui non si sa bene chi sia la vittima e chi il carnefice nella manifesta volontà di uscire dagli schermi. Il testo di Strindberg, rivoluzionario per l’epoca in realtà era destinato a stupire la classe media e fu il grimaldello per la fama del drammaturgo svedese che si affaccia sul crinale dei quaranta anni con questa proposta estremamente scandalizzante per l’epoca, comprensiva del fatto che la Signorina Giulia era interpretata da sua moglie. Si respirano temperature del nord, quelle non troppo dissimili dal norvegese Ibsen.
data di pubblicazione:17/10/2022
Il nostro voto: 
da Daniele Poto | Ott 11, 2022
La scrittura bulimica di una candidata non premiata allo Strega si diffonde per quasi 700 pagine chiedendo uno sforzo supplementare al lettore per una conclusione che non si prevede in poche ore, stante anche la scansione in capitoli, tessere di un puzzle molto diverse le une dalle altre. La confusione che induce nel lettore è di tipo primordiale. Se gli episodi raccontati sono legati a un percorso personale la bulimia è anche sentimental/amorosa/sessuale. Se invece è tutta opera della fantasia tanto di cappello alla fantasiosa creatività dell’antropologa che, giornalisticamente, non sbaglia un colpo e che brilla per l’eccedenza della propria personalità. La chiara rivendicazione di una posizione femminile (non diremo propriamente femminista) è garanzia di continui colpi di scena. Scriviamo che i maschi non escono bene dal confronto anche se sono più spesso quelli che lasciano il personaggio principale. Che si da anche molte colpe e qualche meno generosa assoluzione per un ending che raramente è happy. Chi resiste è l’amico M. , immancabile conforto nelle situazioni di crisi, indispensabile stampella psicologica. Dove più abbiamo penato per mancata conoscenza della materia è nelle labirintiche dissertazioni sui profumi, più che una passione una vera e propria monomania. Bene fa la Ranieri a precisare a fine volume che non c’è alcun coinvolgimento affaristico nelle citazioni dei prodotti eviscerati. In quei capitoli ci si arrampica sull’Everest per poi planare in placide colline nelle scorribande amorose dove la simpatia per la protagonista irride alla ritualità eterodiretta di tanti comportamenti maschili. Il personaggio dell’amante trascurata troneggia ma le sfumature se non sono cinquanta e non sono grigie sono pluricolore. A un certo punto il reticolo avvolge anche un prete che molto abilmente riesce a uscire dal cunicolo della seduzione. In definitiva un libro vario, eccessivo, a tratti travolgente e definitivo.
data di pubblicazione:11/10/2022
da Daniele Poto | Set 6, 2022
Un romanzo di formazione del 1999, riscoperto per l’improvviso rilancio di popolarità dell’autore. Ricordate, era il docente di letteratura russa che fu bloccato all’insegna del politicamente corretto per un ciclo di lezioni su Dostoevsky all’altezza dell’avvio del conflitto bellico con l’Ucraina. Nori è anche quello scrittore dato per morto per colpa di un grave incidente stradale. Uscirono coccodrilli e necrologi sulla sua scomparsa, un atto simbolico atto ad allungargli l’esistenza e a spalancargli le porte del successo. Nel romanzo di cui vi parliamo Nori adotta uno stile alla Salinger: scrittura mossa, semplice, accattivante, adatta a tutti. In prima persona, restituendo un mondo padano facilmente intuibile. Un apprendistato gavetta come magazziniere non privo di avventure sentimentali ed erotiche. Come dire, a leggere Nori, a vivere come Nori, non ci si annoia. Un buon viatico per una letteratura troppo spesso vittima di onanismi e di indulgenti auto-assoluzioni. Bassotuba è il soprannome della compagna che scompare, riappare, di nuovo scompare. Un personaggio di cui l’autore sentimentalmente non riesce a fare a meno. Un filo rosso galleggiante che continuamente viene in superficie ed è il bersaglio, vittima, carnefice, di interminabili soliloqui del protagonista. Sorprendentemente simile a Nori. Ma non pensate a un’autobiografia perché l’autore è capace di smarcarsi da immedesimazioni troppo repentine. Il registro del satirico e del grottesco alimenta la narrazioni e ci fa scoprire un autore per vocazione anti-accademico, ottimo affabulatore, un buon compagno di viaggio per scorribande esistenziali fuori dall’ordinario. Che nell’occasione gioca con la fantomatica antipatia per il pensiero debole di Vattimo. Difatti un assistente del professore torinese è quello che gli contende l’amore di Bassotuba. Scherzi della filosofia! Autore di mille risorse, capace di cavarsela efficace mente nella vita, come nella stesura di un libro. E capace di divertire e non stancare il suo lettore.
data di pubblicazione:06/09/2022
da Daniele Poto | Ago 10, 2022
A dieci anni di distanza dal suo ultimo lavoro il maestro decaduto del thriller si ripropone in una pellicola che nulla aggiunge alla sua filmografia. Con un’immagine metaforicamente efficace nel film, un autentico splatter senza capo né coda, c’è il peggio del suo inconfondibile touch, dando per scontato la perdita del meglio.
C’è voluta una sorta di catena di Sant’Antonio di sette produttori (compresa la volenterosa figlia Asia) per consentire a Dario Argento di tornare alla ribalta con un film che ha resistito poche ore nelle sale, ancora meno a pagamento su Sky, introdotto ora quasi di soppiatto e senza enfasi nella programmazione ordinaria della tivù a pagamento. 84 minuti di noia con una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti abdicando a un minimo di verosimiglianza. La Pastorelli, sbalzata da Verdone ad Argento, è una escort di lusso poco credibile. Quale il motivo dello scatenamento del serial killer? Un apprezzamento della ragazza sulla sua scarsa pulizia prima di intrattenere un rapporto. Non scherziamo, è quello il movente. E poco importa se il killer uccide prima, dopo e durante questo match a due, altre colleghe professionali della protagonista. Argento copia i suoi predecessori (Bava and company) per l’abbinamento eclisse/cecità ma i suoi personaggi sono maschere vaniloquenti che si distinguono per la povertà dei dialoghi. Poi il partner della escort è un ragazzino cinese che appare e scompare senza preavviso, come il cane da compagnia. In compenso circola tanto sangue e un pizzico di nudo per cercare di rialzare la pressione di un pubblico presumibilmente annoiato e depresso da tanta prevedibilità della sinossi narrativa. Badate bene, il killer per farsi individuare meglio gira con un vistoso furgone bianco. E nell’ambientazione romana capita che a un certo punto la Pastorelli finisca in una pozza d’acqua, quasi stritolata da una ventina di serpenti. Succede a Roma? Attinenza con la trama? Nessuna. Chiamare happy end la morte dell’assassino sembra quasi un ossimoro. Provvede il cane, misteriosamente liberatosi. L’ultima scena girata all’aeroporto romano è di rara banalità. La sceneggiatura è stata scritta nel 2002 ma sarebbe sembrata modesta anche 20 anni prima. Al momento il film ha incassato 170.000 euro, un decimo di quanto è costato. Con queste premesse sarà anche l’ultimo film di Dario Argento.
data di pubblicazione:10/08/2022
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da Daniele Poto | Lug 5, 2022
Biopic di pretta impronta americana. Il primo tempo scorre come una videoclip adrenalina condita di effetti speciali. Veloce e impressionista come l’ascesa del popolare Elvis Presley. Nel secondo tempo la storia si fa racconto e scivola nella maniera. In effetti la rottura sentimentale con la consorte e lo scivolamento del mondo anfetaminico degli psicofarmaci è espressa esteticamente con modi trasandati e superficiali..
Il cinema americano non dimentica i suoi miti. 42 anni di veloce parabola con escalation fulminante (e ancheggiante), uno scandalo per l’America puritana e razzista, fondendo il talento individuale con l’ammiccamento alla musica nera (BB King, Mahalia Jackson). Il film si snoda esclusivamente con il racconto del discusso manager che decretò trionfi e cadute di Elvis the Pelvis. E questo il pregio ma anche il limite della ricostruzione che, ripercorrendo i fatti reali, è fedele ed accurata quantunque necessariamente stringata. Il regista senza limiti di budget e di racconto visto che il film si snoda per 160 minuti anche se qualche taglio finale avrebbe evitato ripetizioni e maniera. Ad ogni modo lo snodo è affascinante e, ovviamente, condito da ottima musica. Presley è stato il cantante solista che ha venduto più dischi nella storia del vinile frazionando la propria carriera con 61 dischi incisi e una parentesi non esigua di 29 film, per la verità nessuno dei quali memorabile. Si può dire che sia stata vittima del suo successo. E non è un caso che i film ci ricorda le morti di Marthin Luther King e di Bob Kennedy. L’America uccide i suoi eroi anche se il cinico manager vieterà per sempre a Elvis le trasferta oltreoceano per presunti e indimostrabili motivi di sicurezza, relativi in realtà al proprio discusso status di apolide, impossibilitato a viaggiare. Per la cronaca fuori dagli States Presley ha suonato e cantato solo in sei concerti in Canada. Anche per questo il suo mito oggi, 45 anni dopo la morte, si riverbera più nell’altro continente che in Europa. Austin Butler è un perfetto Presley anche se appare meno bolso dell’originale nel finale di carriera e di vita. Tom Hanks, quasi irriconoscibile, offre una delle sue interpretazioni più mature e convincenti.
data di pubblicazione:05/07/2022
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