da Daniele Poto | Lug 30, 2019
Il linguista Simone negli ultimi anni si è dedicato ad alcuni pamphlet particolarmente incisivi nella rilettura di usi e modi della cultura italiana ed europea. La sua ultima pubblicazione contiene un punto di vista insolito e tutt’altro che buonista rispetto al tema della grande migrazione, chiave di volta per il successo politico della Lega all’insegna del generale grande rifiuto degli italiani rispetto al diverso che viene dall’Africa. La valutazione non può prescindere dall’analisi del pregresso. Forse è nella generale distrazione della politica che 600.000 clandestini si sono insediati nei confini patri. E il permissivismo oggi non rischia di ricadere come un boomerang sui colpevoli mallevadori di questo diffuso permissivismo? Simone ci fa riflettere sul tema: gli ospiti sono per caso nemici che vogliono rubarci il welfare faticosamente conquistato? C’è da scavare nell’antropologia e in parte anche nella psichiatria per percepire il sentimento dei connazionali e del marketing politico che ne sfrutta la loro diffidenza per arrivare a un’analisi rigorosa di pro e contro, tra bisogno di manodopera, generoso spirito di accoglienza e geopolitica. Trattasi di materia delicata, a tratti aggrovigliata, spesso risolto con spirito pregiudiziale. O di qua o di là. Vedi le reazioni rispetto al comandante Rackete. In realtà è doverosa la problematicità rispetto a materia complessa. C’è il complesso del post-colonialismo, dell’Europa colpevole che deve restituire quello che ha tolto (diremo soprattutto la Francia) e, sull’opposto versante, quella che Simone definisce la Grande Sostituzione ovvero il sospetto che una nuova religione possa insediarsi nel vecchio continente soppiantando un sistema di valori collaudato e funzionale, incrinato da massici apporti di materia prima umana. L’autore è al disopra delle parti e non necessariamente politicamente corretto rifiutandosi di obbedire al mainstream contemporaneo. Agita il sottile gusto della provocazione che, a differenza del pensiero dei politici, si permette di volare più in alto, rivisitando anche la storia delle migrazioni che parte della Grecia e continua fino ai nostri giorni in una linea spezzata, dialettica e spesso conflittuale.
data di pubblicazione:30/07/2019
da Daniele Poto | Lug 19, 2019
L’etologia del sopruso potrebbe apparire un approccio esile per un piccolo libro di culto. Ma Valerio Magrelli, critico, poeta, saggista, è bravo a sfruttare l’input per una rivisitazione della maleducazione collettiva di cui siamo vittime nella nostra vita di tutti i giorni. Maleducazione come costume della casa o biglietto da visita per un Paese in decadenza e in vacatio dalle buone maniere. A casa, come al volante o a in vacanza. Un testo estivo che ci ricorda la deriva in cui ci siamo cacciati per il mancato rispetto del prossimo. Magrelli individua nitidamente la figura dell’alterprivo, un soggetto auto-referenziale che invade le spiagge, concede ogni libertà (anche di bagno) al proprio cane, evita di mettere la freccia mentre guida. Insomma, ignora il prossimo in tutte le sue possibili declinazioni. Nel volumetto la messa a fuoco a volte è imprecisa. E non c’è omogeneità di resa retorica tra capitolo e capitolo con qualche indulgenza letteraria estremamente perdonabile. In fondo questo è l’elogio di un distaccato radical chic che vuole evitare di farsi invadere dal volgo. Dunque non c’è discriminante di politica di sinistra, semmai c’è un riferimento alla diade èlite-popolo, così in voga oggi nel dibattito contemporaneo. Magrelli propone il caso personale con l’ipotesi di razzismo sui rossi, cioè su chi ha il pigmento nella pelle di questo colore, rivolgendo la propria ironia al discrimine dell’odore e dei pregiudizi storico. Per Lombroso gli uomini in rosso erano più adusi a commettere crimini a sfondo sessuale. Bizzarre teorie dell’epoca. Magrelli rivolge un’accorata supplica alla burocrazia e ai suoi inafferrabili e poco comprensibili meccanismi. In effetti se a Roma occorrono quattro mesi solo per prendere l’appuntamento per il rilascio di una carta d’identità vuol dire che stiamo vivendo una fase sociale di estremo riflusso. Con un’Italia paziente che si tiene alla larga dall’ipotesi di una rivoluzione. Magrelli compreso dato che l’autore si augurerebbe semplicemente una vita dalla qualità migliore anche in ragione delle tasse che paghiamo.
data di pubblicazione:19/07/2019
da Daniele Poto | Lug 17, 2019
C’è il mondo distopico di Fahrenheit 451 in questo piccolo livre de chevet, manuale di ricognizione per l’editoria che verrà da parte di un attore-scrittore che nella propria gavetta ne ha assaggiato i meccanismi. Dunque Giorgio Volpe, scrittore affermato di un’editoria tradizionale (quella delle classifiche, del Premio Strega e del Salone del libro) si trova proiettato in un’altra dimensione quando la sua casa editrice viene venduta a una multinazionale il cui unico imperativo categorico è abdicare alle leggi di mercato. Dunque in un crescendo parossistico di censure, di proibizioni lessicali, di moniti esistenziali, il suo reticolo tradizionale di legami, la sua comfort zone di colpo crollerà per lasciare il posto alla produzione di merce, secondo le regole, anche espositive di un supermercato. Il racconto lungo dunque è la progressiva esposizione a un incubo senza ristoro, del crollo esponenziale del concetto di letteratura. Spariranno valori, ideologie nel grado zero della produzione e del consumo. Una visione terrificante che però appartiene, profeticamente, anche a un pezzo di presente dell’industria del libro con i suoi oligopoli, la sua società chiusa, il deprezzamento del merito a favore dei valori correnti della pubblicità. Il libro fa sprofondare il protagonista nel grottesco muovendo i tasti del controllo totale da parte del nuovo editore. Che taglia i ponti delle sue conoscenze, minaccia i familiari, per esaltare il proprio potere e costringere Volpe alla sofferta pubblicazione di un capolavoro ormai deformato. E l’unico critico che oserà muovere una contestazione a questo prodotto di laboratorio farà una brutta fine. Trattasi della descrizione di una società dal pensiero unico la cui unica possibilità per l’autore è l’accettazione di un indottrinamento coatto. Siamo tanto sicuri che il quadro disegnato da Manzini non sia direttamente il futuro prossimo? Senza neanche aspettare il 2050 vaticinato dai futurologi. L’editoria appare come un mondo repellente da cui occorre star lontani. Come pensano il 56% degli italiani che non leggono un solo libro nel corso di un anno solare.
data di pubblicazione:17/07/2019
da Daniele Poto | Lug 2, 2019
Cinque pezzi facili per il teatro. Monologhi lunghi a misura di attori amici, sensibili e prestativi come Valerio Aprea e Valerio Mastandrea. La definizione di monologo, atti brevi unici per il palcoscenico, non deve trarre in inganno. Perché qui c’è una prosa strutturata, con dialoghi, sbozzo di protagonisti che discendono da quello principale, descrizioni di ambienti. Dunque una genealogia di fiction che non si pone limiti nel riprodurre nevrosi e storture del mondo contemporaneo. Il teatro ha vita e dà vita solo se recitato. Ma in questi testi pulsanti di umanità e di empatia la capacità comunicativa dell’attore è decisamente in primo piano. Sono i testi di cui è facile innamorarsi e che ogni lettore potrà provare a riprodurre coerentemente con il suono della propria voce, pista teorica per un audiolibro autogestito. Atti comici ma drammatici che sono piaciuti a Serena Dandini. Particolarmente divertente quello che evoca la esulcerante deriva gastronomica del popolo italiano, la devozione per qualunque tipo di cibo e l’esecrazione per il veganesimo o il vegetarianesimo, autentici tradimenti di una predisposizione quasi primordiale e ferina. Sono testi che montano. Che partono con un adagio che diventa un prorompente assolo jazz nella rottura degli schemi logici verso una devianza di comportamenti che appartiene al nostro mondo di infingimenti, di divisione tra pubblico e privato, impilato in un falso buonismo. Torre ha il piglio del profilo basso ma chiarissime intenzioni distruttive nei confronti del tipo di società che viviamo, dove le colpe sono sempre degli altri (comodo scaricabarile). Attua la destrutturazione con le armi del teatro, scendendo sul campo tecnico della contraddizione che è la vera forma di vita di questa arte. Immaginiamo un possibile futuro su Rai5 per questi monologhi, tra l’altro una piacevole e non intellettualistica proposta di lettura per l’estate. Libri come cibo di cui abbiamo bisogno come medicina e antidoto per l’esistenza.
data di pubblicazione:02/07/2019
da Daniele Poto | Giu 27, 2019
Per alcuni scrittori che avviano una popolarità di ritorno c’è sempre il dubbio che il successo di un singolo libro sia il catalizzatore per la pubblicazione di altre dimenticate opere di minor valore. Herman Koch replica sul mercato italiano con questo testo che ha le dimensioni del racconto lungo più che di un romanzo. La trama è esile, il plot micro ma la storia della letteratura è comunque piena di inneschi modesti che sfociano in risultati superbi. Diremo che non è questo il caso. Una modesta vicenda di incomprensione coniugale vede l’intervento del capo-famiglia che si relaziona con la moglie del figlio in una serie di incontri sempre più fitti. L’inespresso è alla base di uno sviluppo pacato che non rasenta mai il dramma. Il libro è anche un auto-fiction perché s’immagina pianificazione dello scrittore che discetta sulla vita dispensando consigli demagogici e inapplicabile che fanno misurare al lettore la distanza tra teoria e pratica. Una vita facile solo sulla carta perché ricca di contraddizioni, svolte, malumori, litigi. S’intuisce che l’interesse del protagonista non è virato sulla semplice risoluzione di un nodo familiare. Improvvisamente tutte le tensioni di dissolvono nel colpo di scena. La famiglia si sfascia prima che avvenga l’irreparabile e ognuno va per conto suo con scelte di vita che riguardano l’estero. Un libro dunque coraggiosamente originale anche se incompleto. Nel novero degli scrittori di scuola nederlandese (attenzione, non olandese) Koch si conferma un capofila, capace di variare toni ed argomenti delle proprie opere. Anche, come in questo caso, sceglie un profilo basso, un linguaggio piano e familiare per raccontarci un meandro intricato di una storia familiare. Sullo sfondo il successo di uno scrittore, il consumismo espresso con facili icone (una Range Rover sport nera, casette di proprietà sparse per l’Europa): evidenze che non lo metteranno al riparto dal disastro. I manuali non risolvono la vita.
data di pubblicazione:27/06/2019
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