ERAVAMO L’AMERICA di Dario Torromeo – Absolutely Free Libri, 2019

ERAVAMO L’AMERICA di Dario Torromeo – Absolutely Free Libri, 2019

Il sottotitolo è accattivante ed illuminante. “Gli anni ottanta, magia di un’epoca in cui avevamo il mondo in pugno”. Metafora del momento più radioso del pugilato italiano. Con personaggi come Oliva, Rosi, Kalambay, capaci di imporsi su ring nazionali e internazionali decretando il successo del pugilato noble arte non come rissa selvaggia alla Tyson ma come elegante lezione di stile. Era un momento che si prolungava dalla saga di quel Benvenuti, umiliato da Monzon ma capace di proiettare una luce positiva sul seguito di uno sport oggi decaduto a eventi e personaggi residuali. Come infatti paragonare uno Scardina o un Vianello attuale ai Parisi e ai Nati, a campioni mondiali ed europei in un mondo popolato ormai da un’infinità di sigle spesso indistinguibili? Il tramonto della boxe è stato decretato dalla scarsa credibilità del sistema complessivo, dalla relativa buonafede dei giudici, dal proliferare delle sigle e dallo scadimento dell’attività dilettantistica che ha reso sempre più labile il confine con il mondo professionale. Oggi si costruisce un record con una serie di incontri già segnati e la fortuna dei pochi sopravvissuti è soprattutto mediatica. Torromeo ci restituisce invece l’età felice del pugilato italiano con una serie di riuscite immersioni nel mondo dei protagonisti. Vissuto da vicino, confidenzialmente. La serie di fotografia scattate su questo sport in decadenza restituisce il quadro veridico di un’epoca in cui anche gli italiani vivevano meglio forti di una classe media consolidata che, dopo l’esplosione del boom, cercano di consolidarsi come borghesia sull’esempio di Germania, Francia, Inghilterra. C’era anche il sogno imitativo americano dietro i successi sportivi. In effetti non si arrivava per caso a giocarsi su un ring un titolo mondiale. Alle spalle c’era la solidità del movimento, l’intraprendenza dei manager, la voglia di rischiare di una società che non si poneva limiti di sviluppo e non si interrogava sulla possibile decrescita più o meno felice.

data di pubblicazione:04/12/2019

SPETTRI di Henrik Ibsen, traduzione, adattamento e regia di Giuseppe Venetucci

SPETTRI di Henrik Ibsen, traduzione, adattamento e regia di Giuseppe Venetucci

(Teatro di Documenti- Roma, 15/24 novembre 2019)

Un classico della drammaturgia ibseniana, carico di ambiguità e di dissimulazioni. Due ore di spettacolo teso e sobrio, proposto con apprezzabile filologia teatrale e rispetto del testo originale.

Nella suggestiva location di un piccolo teatro storico sfilano i cinque protagonisti di un autore molto rappresentato, tutt’altro che passato nel dimenticatoio teatrale. Sala lunga e stretta, a contatto di pubblico dove i protagonisti recitanti si producono nell’affabulazione e poi si siedono, pazienti, in attesa della loro successiva entrata in scena. Ma attenti anche in situazione di pausa, ad abbozzare nuove caratteristiche che appartengono alla loro profondità. L’apparente verità si colora con l’apparire delle menzogne e di tante situazioni irrisolte, legate a paternità incerte. Realtà fatta di spettri e di ribaltamenti perniciosi. Una virtuale macchina del fango messa in moto dalla ricerca della verità. Un moto quasi inconsapevole provocato dallo sviluppo degli eventi. Rivelazione chiama rivelazione in un vortice che non sembra mai fine, in un processo dialettico in cui il personaggio inizialmente sbozzato si riconvertirà in uno completamente diverso nella catarsi teatrale. Spettacolo ricco di pathos. L’attualità di Ibsen sta nel delineare un mondo completamente privo di certezze, sin dal piccolo nucleo familiare. Tragedia in cui si intravedono baluginii proto-femministi ben in linea con l’autor di Casa di Bambola o Hedda Gabler. Siamo all’interno di uno spaccato borghese con molti derivati ottocenteschi di cui, volontariamente, non ci si sbarazza fino in fondo, per scrupolo di fedeltà e di corretta adesione alle tematiche dell’autore. Spettri come fantasmi e minacce. Opinioni, credenze, pregiudizi e decisioni in atto. Se il teatro è conflitto qui lo scioglimento emotivo è propedeutico alla messa in moto di un rigoroso groviglio di scoperte variamente metabolizzate dai protagonisti. Non tutto è come sembra, non tutto sarà eguale a prima.

data di pubblicazione:24/11/2019


Il nostro voto:

FURORE di John Steinbeck, adattamento di Emanuele Trevi, con Massimo Popolizio, musiche eseguita dal vivo di Giovanni Lo Cascio

FURORE di John Steinbeck, adattamento di Emanuele Trevi, con Massimo Popolizio, musiche eseguita dal vivo di Giovanni Lo Cascio

(Teatro India – Roma, 19 novembre /1 dicembre 2019)

Non un semplice reading, una struttura composta di 80’ con foto, creazioni video, le stesse impennate acustiche conditi da virtuosismi dell’attore in scena..

Inaspettato recupero di Steinbeck, cantore prima giornalistico poi letterario, di una crude temperie della società americana. Migranti ante litteram in cerca di una difficile terra promessa, la California. Pane amaro con una metafora di estrema attualità rispetto alla realtà di oggi. Popolizio definisce “un’operina” il lavoro composito realizzato in appena 15 giorni per volere del Teatro di Roma con una risposta di pubblico esuberante legata al carisma dell’interprete. Le onde della sua voce raccontano in una dozzina di capitoli la sala dei poveri, esemplificata in 685 pagine e recente ri-traduzione dall’autore americano, oggi recuperato sulle scene anche con la fluviale edizione de La valle dell’eden (otto ore di durata) per la regia di Antonio Latella. Non ci si annoia nella scansione dei capitoli anche per la suggestione delle foto (poi ammirabili in una mostra fotografica nel foyer) e per le percussioni del musicista di scena che asseconda il testo con una partitura predefinita ma non priva di qualche guizzo di improvvisazione originale. Il finale è lirico e l’uscita del one man show contrassegnata dalla riproduzione di un famoso brano di Bruce Springsteen pienamente dentro la vicenda. Così Steinbeck esce dal cono d’ombra in cui l’aveva relegato la sua presunta ingenuità e il ben diverso impatto di un Faulkner. Il suo presente storico (sembra raccontare i fatti in presa diretta) riacquista mordente tattile. Intravediamo la polvere e le spighe di mais, i trattori che sostituiscono il lavoro umano. I robot del nostro futuro sono solo il perfezionamento di un mondo del lavoro con regole sempre più spietate e tayloriste. Malavoglia in salsa statunitense con focus sulla crisi agricola che stritolò negli anni ’30 del passato secolo un bel pezzo di società.

data di pubblicazione:22/11/2019


Il nostro voto:

ACCABADORA dal romanzo di Michela Murgia, regia di Veronica Cruciani

ACCABADORA dal romanzo di Michela Murgia, regia di Veronica Cruciani

(Teatro Piccolo Eliseo- Roma, 14/24 novembre 2019)

Tesissima riconversione teatrale di un libro di successo. Prova d’attrice encomiabile in interno sardo per un grande successo di pubblico (e forse anche di critica).

 

Coraggiosa versione teatrale del romanzo che ha reso celebre sul suolo nazionale Michela Murgia, sdoganando la parola del titolo. Nella tradizione sarda, dallo spagnolo acabar, significa uccidere, aiutare le persone a morire. Sull’attualità montante del tema la stupefazione della protagonista Maria che scopre la realtà dell’ambiente e in particolare delle pratiche di Bonaria Urrai, sarta che si dedica a questa attività crudele e insieme umanitaria. L’ammirazione di Maria per questo personaggio fa i conti con questa macabra scoperta che rivoluzione il suo modo di pensare e introduce un elemento anomalo nel rapporto. La musica elettronica e i cambi di luce sono solo gli elementi di spaziatura di un monologo lungamente efficace che solo un attrice di livello poteva gestire con disinvoltura. Ormai, risparmio a parte, sono vastamente diffuse le scenografie minimal chic: sedie, un piccolo salotto, il resto è lasciato alla libera immaginazione. Nel paesino immaginario della Sardegna dove avvengono queste strane manipolazioni tutto sembra ridotto all’essenziale. La regola è il primitivismo nei rapporti. La fuga nel continente non rompe questo strappo feroce con una realtà serena. Il ritorno nell’isola è dovuto a un’emergenza e in un certo modo chiude il cerchio, fa i conti con l’esistente. Non si può cancellare il passato consistente in lutti accumulati. Pietà e ferocia dell’atto hanno bisogno di una decantazione. Lo spettacolo ha avuto il chiaro gradimento della componente femminile, la parte più sensibile e partecipativa della generica utenza teatrale. Una componente video a tratti sorprendente si configura come elemento di rottura dell’affabulante monologo. La drammaturgia di Carlotta Corradi è parte fondante del successo in sala.

data di pubblicazione:20/11/2019  


Il nostro voto:

SESSANTOTTO, L’ANNO DEL NON RITORNO di Carlo Santi- Infinito edizioni, 2019

SESSANTOTTO, L’ANNO DEL NON RITORNO di Carlo Santi- Infinito edizioni, 2019

Tempi di anniversari e di ricordi. Per un 1968 che in Italia è stato soprattutto 1969, data di presunte rivoluzioni di lutti, di cambiamenti tellurici della società. Carlo Santi, non tradendo le proprie origini di cronista sportivo, ci consegna questo instant book che è una realistica fotografia di uno spaccato generazionale di cinquanta anni fa. Non è un caso che in copertina svetti il traumatico gesto di Smith e Carlos, un pugno guantato di nero, esibito durante la cerimonia di premiazione della finale dei 200 metri piani a Città del Messico, a esplicitare quella discriminazione razziale, così viva e cogente negli Stati Uniti. Ma naturalmente quel biennio ha molte altre valenze e significati. I Giochi Olimpici del 1968 furono funestati dal massacro degli studenti che nella calma ovattata delle gare fu quasi ignorato, secondo le testimonianze qui riprodotte di molti italiani medagliati. Quello fu l’anno in cui i calciatori presero coscienza di non dover essere più dei pacchi postali spediti da una società all’altra, varando l’Associazione sindacale di cui fu immarcescibile presidente Sergio Campana. Il 1969 fu anche l’anno dei Giochi della Gioventù, una scossa per dare al Paese un imprinting sportivo, un’innovazione che gli anni hanno provveduto a cancellare e dalle cui leve uscirono comunque atleti come la Dorio o Ortis. Nel 1968 morirono Robert Kennedy e Martin Luther King facendo evaporare un altro pezzetto del sogno americano. Il 1968 fu l’anno in cui la nazionale azzurra di calcio vinse il campionato europeo. Fu l’anno dell’altitudine miracolosa per battere record in quota, del salto in alto reinventato da Fosbury, da mille parabole che, come un sogno infranto d’infanzia, si arrestarono su quel 1968 fatidico. Libro della nostalgia che non dimentica il Vietnam, il clima da guerra fredda, lo sbarco sulla luna con la conflittuale e dispendiosa concorrenza tra Usa e Urss. Quando Nato e Patto di Varsavia erano realtà solide oltre che punti di riferimento della politica mondiale. Erano le stagioni in cui si voleva cambiare il mondo prima che il mondo cambiasse noi.

data di pubblicazione:19/11/2019