da Daniele Poto | Nov 28, 2022
(Teatro Manzoni – Roma, 10/27 novembre 2022, poi in tournèe a Catania)
Un delicato e non malizioso mènage a trois amicale con sullo sfondo il fine vita. Cortocircuito drammaturgico efficace reso con trasparenza e umanità da attori molto affiatati.
Due volte risuonano in scena le note della popolare canzone che offre il titolo alla piece. La canta Paolo Triestino e poi va in loop l’originale con adeguato arrangiamento. Nel titolo sta un’ipotesi sul futuro, quanto mai inquietante per tutte l’umanità, negli anni del Covid e della guerra ucraina. Ma in questo caso particolare per un trio di amici che passano di botto dei pensieri ordinari delle normali preoccupazioni familiari e/o lavorative, alla rivelazione del padrone di casa di una malattia incurabile. Un disvelamento improvviso, traumatico, torrenziale di fronte al quale i due reagiscono differentemente con i mezzi emotivi a loro disposizione. Ovvio che ci sia in ballo l’amicizia, la solidarietà, la richiesta di aiuto che va a toccare le corde più riposte della loro interconnessione pluriennale. Gli attori campeggiano alla grande con invidiabile sinergia. Paolo Triestino, dopo l’avvio in sordina, richiesto dal copione, porta la contraddizione e il conflitto in scena con sfumature d’umore pregevoli. Edy Angelilo regge magnificamente la parte dell’amica piacente, agè, ma disponibile mentre Emanuele Barresi con i suoi toscanismi, i suoi lazzi, è quello che, soprattutto nella prima parte, regala allegri e battute. Sala piena in capo a ben 17 giorni di esibizioni nell’affollato teatro romano caro alla terza età, spesso con doppio turno per uno spettacolo collaudato nel piccolo teatro di Carbognano e che ora gira l’Italia. Triestino dopo il divorzio con Pistoia è più pimpante che mai e dimostra con grande maestria anche nel padroneggiare la regia oltre che la propria parte, alle prese con un tema scomodo ma di estrema attualità.
data di pubblicazione:28/11/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 7, 2022
(Teatro di Villa Lazzaroni – Roma, 4/6 novembre 2022)
Un ennesimo intenso omaggio a Pasolini metabolizzato attraverso le tre icone femminili della sua vita, la madre Susanna, la cantora Laura Betti e la divina Callas.
Uno spettacolo coraggioso nel tentativo sincretico di unire il teatro danza alla parola. Diremo che in un confronto vince nettamente la prima espressione anche se la seconda conduce una sfida serrata con alcuni squarci lirici che sono parole (e sangue) del poeta o della sua affezionatissima genitrice. Le tre attrici si spremono senza risparmio davanti a un pubblico che sembra intuire l’arduo compito espressionista. Scenografia e abiti indicano un continuo mettere e levare. L’irrequietezza della Betti, la classicità della cantante conosciuta sul set di Medea e l’amore materno della madre sono tre immagini ben caratterizzate, unite da un difficile tentativo di dialogo. Evidentemente la narrazione è per bozzetti e non può addentrarsi in un linguaggio compiuto. Originale lo straniamento pasoliniano incarnato da una cantante ben mascherata i cui panni di genere in avvio non sono di facile interpretazione. Un teatro di immagine più che di parola, che suggestiona, a tratti strega. L’invasione degli spazi delle tre donne è la metafora dialettica del tentativo di riannodarsi a Pasolini. Un’utopia forse visto che il poeta aveva contemporaneamente vicinanza e distanza dal trittico. Lo spettacolo enuclea il femminile che era contenuto nello scrittore scomparso, ne denuncia la disperata vitalità. Un amore per la vita che alla fine è vizio, dannazione e che evoca la sua tragica fine. In fondo ostinatamente cercata. Uno spettacolo che è un tentativo originale e sofferto di produrre la consistenza della parola scritta attraverso il movimento, il conflitto e la diversità dei caratteri. All’ultima replica ha assistito plaudente Giuliana De Sio.
data di pubblicazione:07/11/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 27, 2022
(Teatro 7 Off – Roma, 26 ottobre/6 novembre 2022)
Un pepato divertissement che irrida alle gabbie del politicamente corretto e scatena la verve travolgente dell’attrice ciclonica Frazzetto, assistita da partner all’altezza della situazione.
Tutti pazzi per Mary? No, per la mamma. Che non è Cameron Diaz ma Luciana Frazzetto, attrice garanzia che caratterizza fortemente tutte le pochade di cui è anima e corpo (e che corpo!). La donna al centro di tutto. Con un segno nel cuore, un ruolo da controfigura in Beatiful rinnegando i legami con figlio, marito e con una possibile nuora. Nel mirino la gaytudine, il fiato cattivo, l’astinenza sessuale del marito in vigore dal 1998. Insomma un quadro familiare poco soddisfacente. Ma la voglia di evasione della protagonista, dopo aver coltivato il sogno americano, si placa con un malinconico ma sentimentale ritorno a casa. Un happy end che ricuce i buchi del disagio. Così dopo tanto ridere quasi ci si commuove. Il copione scatena la verve e non ci si preoccupa certo per qualche parola fuori dall’ordinario. Questo teatro, a torto considerato minore, funzionerà sempre. Gli attori si donano generosamente e qualche arguta macchietta non stona all’interno di una storia che è un pretesto per una serie di gang senza soluzione di continuità. Spettacolo che è una girandola di colpi di scena, di travolgenti risate e di sanguigni scontri. Del resto il mammismo sembra una malattia delle famiglie italiane e senza pretese sociologiche la piéce ruota attorno al tema senza pretendere di sviscerarlo. Il partner della “prima” era pieno di stelline o aspiranti tali con al centro della platea il consacrato Mattioli. Per la Frazzetto la riconferma di doti in mostra che nessuno può discutere in un funzionale teatro di genere che non nutre complessi rispetto alla “scena alta e altra”.
data di pubblicazione:27/10/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 25, 2022
(Teatro Vascello – Roma, serata unica 24 ottobre 2022)
In scena per una sola serata lo spettacolo che ha vinto il Fringe Festival 2021. Clima rarefatto, vocalità impercettibile ma crescita emotiva con il passare dei minuti (50’). La vita e le percezioni emotive di Camille Claudel. Supporti multimediali fondamentali su un fondale pittorico e scultoreo ricco e seducente..
Le voci interne e quelle esterne nella parabola di Camille Claudel, proto-femminista che cerca di combinare la predisposizione artistica con il complicato e ingombrante rapporto con Auguste Rodin. Timori e palpiti, voglia di realizzazione. Arte e vita sono perfettamente fusi nel tentativo minimalistico di restituire il senso di un’esistenza e di una profonda sofferenza. Camille combatte e alla fine perderà ma non rinuncia a combattere la sua battaglia di emancipazione e realizzazione. Il clima d’epoca viene restituito in uno spettacolo per una sola attrice e tante voci e contributi a margine. L’anima di Camille urla incessantemente con il delirio delle proprie visioni interiori e cerca una difficile salvezza. L’insanità mentale è il bivio da cui separa la propria normalità. L’attrice protagonista al centro della scena domina con continui cambiamenti di tono e di ritmo, con improvvise corse, con il gridato manifestato al microfono, simile a un urlo lanciato verso e contro il mondo. In scena la solitudine, il desiderio di indipendenza, la pesantezza del legame amoroso con una personalità soprabbondante, evocata e in fondo temuta. La rappresentazione dell’intimo sentimentale approda a brividi sottilmente erotici nella perfetta idealizzazione tra corpo e anima, tensione costante. Le vie per l’affermazione di un talento femminile nel mondo dell’arte tutt’altro che scontate.
data di pubblicazione: 25/10/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 17, 2022
(Teatro Vascello – Roma, 11/16 ottobre 2022)
Il crudo naturalismo di Strindberg portato su una scena essenziale con sintesi bergmaniana per un vivo successo di pubblico fino all’ultima replica.
Ci vuole coraggio per approcciare un testo del 1888, proposto in Italia per la prima volta nel 1897, tra discussioni e polemiche. La disinvolta signorina Giulia creca un corto circuito di classe tra padrone e servi, tra la famiglia del conte e il proletariato. Il debutto è come il finale: contrassegnato da una scenografia opprimente. Un muro nero che occupa tutta la scena e da cui salgono e scendono i tre protagonisti. La vicenda è sfrondata di personaggi e situazioni, calata in un clima di ambigua e ammiccante sinteticità con speculazioni evocative. Con il linguaggio dell’ottocento che acquista una sua durezza con scoppi di turpiloquio e l’affabulare istintivo e ferino del servo. Vicenda che nell’originale termina con un suicidio e che qui invece veicola un finale aperto. I tre attori sono bravi ad acuire la tensione in un crescendo di dialoghi convulsi dove l’apparente normalità sembra garantirà dall’iper-religiosità della cuoca, sempre più scandalizzata dalle evoluzioni degli altri due protagonisti ma comunque partecipe del loro rapporto. Balletto dialettico a tre. Con il servo eccitato e una Giulia che vuole e non vuole, irretita ma anche provocatrice in un gioco a specchio in cui non si sa bene chi sia la vittima e chi il carnefice nella manifesta volontà di uscire dagli schermi. Il testo di Strindberg, rivoluzionario per l’epoca in realtà era destinato a stupire la classe media e fu il grimaldello per la fama del drammaturgo svedese che si affaccia sul crinale dei quaranta anni con questa proposta estremamente scandalizzante per l’epoca, comprensiva del fatto che la Signorina Giulia era interpretata da sua moglie. Si respirano temperature del nord, quelle non troppo dissimili dal norvegese Ibsen.
data di pubblicazione:17/10/2022
Il nostro voto:
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