da Daniele Poto | Giu 15, 2022
Franco Battiato ha lasciato un’eredità di affetti che a poco più di un anno dalla sua scomparsa, dopo quattro anni di effettivo silenzio pre-morte a causa di una devastante malattia neurodegenerativa, non accenna a spegnersi. Il sottotitolo del libro indica la latitudine: “Voli imprevedibili e ascese velocissime…”. Dunque l’omaggio non è un instant book per fare cassa in una bibliografia di suo già abbastanza vasta. Scanzi, si sa, è giornalista polemico che incontra simpatizzanti e detrattori per la secchezza delle proprie scelte. E se ha voluto parlarci di Battiato in questo ennesimo libro è per una sorta di ipnotico gemellaggio, peraltro non accompagnato da una diretta simpatia personale. Figurarsi, Battiato a suo tempo aveva proceduto a una querela per un’acida recensione dell’autore sul film Musikanten. Poi, auspice Travaglio, lo strappo era stato ricucito. Con spirito dichiaratamente di parte Scanzi attua le scelte su una filmografia profonda indicandoci predilezioni e hit. La riproposizione dei testi di Battiato mostra un lessico che non è abituale all’ormai scomparsa generazione di cantautori. I richiami a Guenon, Gurdjieff, le collaborazioni con il filosofo Sgalambro e con il pluri-specialista Giusto Pio (sodalizio che ha resistito fino al 1996) fanno di Battiato un vero e proprio unicum nell’ossificato repertorio della musica leggera italiana. E’ un mondo che l’artista siciliano travalica perché le sue partiture meriterebbero una riscoperta. Un cammino lungo iniziato con la musica sperimentale elettronica all’inizio degli anni ’70. Gavetta dura, a Milano, concerti che neanche cominciavano per mancanza di pubblico. E poi il successo con arrangiamenti felici e mai banali. Un successo meritato mai veramente agognato. E Battiato ha consolidato amicizie, collaborazioni inaspettate, realisticamente adattandosi a tre cd di cover (Fleurs) quando l’ispirazione declinava. Ma è un qualcosa di già vissuto: De Gregori, Guccini e Paolo Conte non sfornano ormai da tempo dischi dal vivo arrendendosi a un’impotenza creativa molto naturale e di cui non bisogna vergognarsi.
data di pubblicazione:15/06/2022
da Daniele Poto | Giu 1, 2022
Si può anche leggere come un giallo il dotto saggio che valuta le influenze degenerative del progresso crollo dell’impero romano d’occidente. Con un linguaggio aperto anche ai non specialisti l’autore si apre a un gran ventaglio di potenziali cause della decadenza, misurando il limes, la vastità dei confini, il ruolo giocato dalle personalità imperiali, della burocrazie, alla corruzione, l’influenza religiosa nell’irrompere del Cristianesimo di Stato, la gestione della giurisprudenza. Fa opera di divulgazione approfondendo cause che possano avere attualità e riscontri ancora oggi vista la dipendenza antropologica da quel passato importante per la nostra civiltà. Quindi non semplice storia di sviluppo cronologico secondo un metodo di investigazione lineare ma una vera e proprio discesa approfondita nel cuore del problema e in base a un principio indiscutibile: ogni civiltà si porta sempre dietro le ragioni della sua nascita e, potremo aggiungere, della sua caduta. Una spiegazione monocausale espunge il necessario tema della complessità. Perché ascesa e declino partono da una valutazione complessiva il più ampia possibile. Dunque il metodo è cartina di tornasole tracciante. L’economia è al centro dell’esame in un affascinante caleidoscopio che ci riassume una forza vigorosa e poi una crescente debolezza. Spaccato suggestivo che ci restituisce un’epoca di lussi e conquiste, non prescindendo dall’incidenza nella storia delle storie, cioè delle biografie degli imperatori che si avvicendano nel proscenio di un territorio immenso. E fa effetto intuire che il centro dell’impero, all’apogeo del proprio sviluppo, non era Roma ma mete e obiettivi centrati sempre più a est. Su questo impero poi, in maniera deflagrante, si innestano le conseguenze delle invasioni barbariche, un altro elemento che ne determinerà la progressiva ancorché gloriosa fine. D’Eredità ha messo l’economia al centro della propria ricerca in altri due saggi pubblicati per lo stesso editore.
data di pubblicazione:01/06/2022
da Daniele Poto | Mag 19, 2022
Un originale tentativo di uscire dai talvolta ristretti canoni di genere del cinema italiano grazie a una sceneggiatura vivace e alla perfetta scelta di un cast di attori, magnificamente incastonati nei propri ruoli. Meno nuova e più battuta (vedi anche Tre Piani) la scelta programmata di far interagire le storie. Fatta salva questa chiave però il quadro d’assieme tiene e il finale aperto è un barlume di intelligenza registica.
Una sorte di settembre dell’anima, una mezza stagione autunnale. Una ricerca della felicità declinata meno banalmente che nei film di Muccino. Tre storie molto italiane, molto romane, molto vere, con una stratificazione generazionale varia e un approccio non convenzionale ai sentimenti e al sesso. C’è un Bentivoglio più stazzonato che mai, dove il sale e pepe di una volta è diventato, puro sale, abile nel designare un personaggio demotivato e a disagio nella vita. C’è la giovane e misteriosa prostituta dell’est che aspira a qualcosa di diverso. Ci sono soprattutto due donne amiche, profondamente divise dai propri uomini che non le ascoltano, che non le curano, alla stessa maniera se giocano a poker o le tradiscono con un’altra donna. Poi adolescenti molto credibili ai primi passi nella conoscenza dell’altro. Era da tempo che non vedevamo resi così credibilmente adolescenti sullo scherma in virtù di una recitazione semplice e naturale che non è pura immedesimazione. Escono male, molto male gli uomini da queste storia, disegnando un possibile mondo futuro salvato dalle donne. Sartoretti è bravo nel definire l’assoluta insipienza di un personaggio vuoto e negativo, incapace di ogni reazione emotiva. E Barbara Ronchi forse è all’interpretazione di una carriera, quella che rimane. Tutto questo a merito di una regista evidentemente poco nota che ma padroneggia con piglio eccellente la materia filmica. Opera di respiro, di futuro, di valori montanti.
data di pubblicazione:18/05/2022
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da Daniele Poto | Mag 5, 2022
(Teatro Sala Umberto – Roma, 4/15 maggio 2022)
Partita a quattro con un progetto didascalico e sorpresa finale che non spoileremo. Spettacolo collaudato con qualche difetto strutturale di fondo.
Tre sorelle come in Cechov. Ma una in carrozzella. Per colpa di un’altra. Ma due del quadrettto di famiglia non sanno, anche se sembrano intuire. Poi compare in scena l’unico uomo, una sorta di potenziale angelo vendicatore buneliano. Con un’oscura missione che potrebbe sembrare un ricatto. In ballo un premio definito immeritato, a scelta della sorella colpevole. Ma l’alternativa del potenziale miracolo sarà restituire la piena mobilità alla parente in carrozzella, ricompensare con la vita i due bambini periti per l’incidente da lei stessa provocato oppure soddisfare la propria malattia patologica con una colossale vincita al Superenalotto? Su questo pratico materiale dilemma, un po’ onirico, un po’ reale, si dipana la trama in una scena spoglia dove la disabilità è incarnata dai movimenti della carrozzella. In un coro di chiara fama (la Ferzetti è la moglie di Favino, la Scalera è stata Imma Tataranni, Bellocchio è discendente di illustre famiglia) la rivelazione è proprio la più giovane e meno conosciuta Marra che incarna la disabile. Convincenti i suoi toni rispetto ai momenti di disagio, rispetto al testo, degli altri interpreti. In effetti la drammaturgia si auto-battezza da sola in un crescendo largamente prevedibile, riscattata dalla imprevedibile fuga finale. Spettacolo su inguaribili sensi di colpa, una tragedia italiana con tanti risvolti. Metafisica la possibilità di riscatto dalla colpa. Dialoghi con ampi momenti di vuoto con la pretesa di rendere significativi silenzio e pause. La conferma che alla nuova drammaturgia italiana, volenterosa, manca sempre qualcosa per un pieno e realizzato approdo al un teatro di serie A.
data di pubblicazione:05/05/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mag 4, 2022
Il sottotitolo completa un’informazione che potrebbe apparire sibillina, La storia, i delitti, i retroscena, l’ultima testimonianza del capo della Banda della Magliana. Da Romanzo Criminale in avanti la figura di Maurizio Abbatino è perentoriamente venuta a galla nell’immaginario iconico, forte della propria violenza e di un carisma che le fiction hanno ulteriormente ribadito. Questo è un libro-intervista ma ricco di approfondimenti e vicoli illegali infiniti. Vedi le connessioni con la mafia e la massoneria, non escluso il circolo della P 2. Per accorgersi della centralità della Banda, dal primo sequestro per auto-finanziamento di Grazioli fino ai legami con i servizi segreti e con i tanti misteri della storia italiana degli ultimi quaranta anni. Abbatino, uscito dai ranghi della protezione, fa la figura oggi di una sorta di irredente pecora nera di sistema la cui testimonianza non è stata convenientemente messa a fuoco. E l’autrice lo interroga sulla strage di Bologna, sulla sparizione di Emanuela Orlandi, sul delitto Pecorelli, sulla tante sentenze aggiustate anche grazie all’opera di prezzolati specialisti. Dalle origini della banda come espressione di un quartiere ai legami con i gruppi di Testaccio e Val Melaina, con una serie di regolamenti di conti senza pietà. Un racconto crudo e spiegato di violenza, di un codice dell’onore perverso che ha attraversato la storia politica italiano e non solo quella, limitata, della cronaca nera. Abbatino racconta i segreti dell’organizzazione, le oscure trame di compiacenze in un romanzo verità che vale anche la possibilità di una grande riscatto etico, di un esercizio di memoria. E alla fine ti chiedi se non siano più pericolose le parabole di killer come Giuseppucci o Diotallevi e non invece il compassato cinismo di un politico come Andreotti, scampato a probabili condanne solo grazie all’esercizio della prescrizione. Quel periodo evidentemente non è ancora alle spalle perché tutti i conti con la giustizia non sono stati fatti o, ancora peggio, sono stati truccati.
data di pubblicazione:04/05/2022
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