da Daniele Poto | Nov 16, 2018
Per caso è di vostra conoscenza uno scrittore-matematico che abbia già compiuto cento anni? Il miracolo di lucidità e di intatta capacità pubblicistica è di Mario Fiorentini che ha scritto un pezzo di storia d’Italia da partigiano e ora, celebratissimo, firma con il rinomato giocologo Ennio Peres, un agile e stimolante volumetto che è utile esercizio per la mente oltre che ripasso di alcune nozioni rimosse da molti italiani rispetto al periodo scolastico. Gli obiettivi conclamati del testo sono evidenti: fornire uno strumento gioco e creativo per invogliare i lettori di qualsiasi età allo studio della matematica (materia comunemente, ma a torto, considerata ostica e arida); offrire una serie di spunti stimolanti per riuscire ad approfondire, operando su problemi pratici, la potenzialità degli strumenti matematici. Cibo per la mente ma apprezzabile anche dai profani della materia. Fiorentini è stato professore di geometria superiore all’Università di Ferrara per 25 anni e ha studiato da autodidatta la matematica fino a raggiungere la sospirata laurea. Proprio questo percorso dal basso gli ha ispirato la praticità e il contatto con la vita di tutti i giorni, respirando senso comune e divertimento, nella stesura del libro in combinato disposto con Peres che invece è autentico specialista dell’enigmistica oltre che un pezzo di storia della sinistra italiana. La creatività e la fantasia alimentata dal gioco sono un utile antidoto all’azzardo e alle sue seduzioni. Il punto d’arrivo di molti degli esercizi presentati è sorprendente e Peres ne ha dato una prova al quartiere Esquilino proprio nel giorno di una festa dedicato al compleanno in tripla cifra di Fiorentini, nell’occasione impossibilitato a intervenire per un comprensibile stress da festeggiamento. Una cultura scientifico-matematica certo non contribuisce a risolvere i problemi del Paese ma è una gradevolissima consolazione personale per i cultori della materia, in gran parte lettori dell’immarcescibile Settimana Enigmistica, la rivista che coltiva con orgoglio le centinaia di tentativi di imitazione.
data di pubblicazione:16/11/2018
da Daniele Poto | Nov 15, 2018
Se il teatro è conflitto e scoppio delle contraddizioni attraverso un dialogo serrato, oggi Yasmina Reza, unitamente a David Mamet, rappresenta la punta più acuminata e popolare del mainstream scenico. Il suo Carnage ha fatto scuola e questo successivo piccolo atto unico ne è la diretta conseguenza e applicazione su un piano che -potremmo definire- più frivolo. Il nodo del contendere è un quadro. Una di quelle opere contemporanee che quasi nessuno capisce ed interpreta ma che ha un valore commerciale ragguardevole per la semplice firma dell’autore. Il quadro appunto è la scintilla che accende una vivace discussione tra due collaudati amici. E c’è un terzo incomodo piuttosto casuale. Che non ha alcuna competenza di arte ma che, molto semplicemente, non vorrebbe intaccare il legame di amicizia con i due. Se tre è il numero perfetto, anche a tre la concatenazione del dialogo teatrale punta fortemente su questo numero. Andamento prevedibile? Mica tanto. Lo spariglio è l’attentato alla composizione, il beffardo disegno che ne intacca la consistenza. Danno irreversibile? Niente affatto. L’amicizia è salva ed il sottofondo morale è che mantenerla in vita è più importante del valore effimero di una presunta opera d’arte. Naturalmente l’ambiguità è nel fondo. I due amici e litiganti sapevano della possibilità di restaurare il quadro facendolo tornare al primitivo splendore? O solo uno dei due sapeva ed ha lasciato fare l’altro? Come si vede la realtà anche teatrale può non essere mai facilmente decifrabile. Dunque anche in questo lavoro c’è un “Dio del massacro” attivo e funzionante. La ricetta della Reza è collaudata. A qualcuno potrà apparire un po’ ripetitiva ma gli ingredienti del cocktail funzionano in un crescendo nevrotico di grande efficacia. Lo spettacolo da cui è tratto il libretto ha avuto grande successo in Francia ed è stata tradotto e importato in Inghilterra e negli Stati Uniti, in attesa di approdare in Italia. Vista l’esiguità della trama in questo caso è estremamente improbabile una trasposizione cinematografica.
data di pubblicazione:15/11/2018
da Daniele Poto | Nov 12, 2018
(Teatro della Cometa – Roma, 6/18 novembre 2018)
Monologo a tutto campo. Senza ritenzione né censura. One man show che funziona. Con il contributo sonoro di Gianluca Sambataro al pianoforte.
Tutto il mestiere e la capacità affabulativa di Maurizio Micheli, ormai più che settantenne (ma l’umorismo non ha età) in novanta minuti di spassoso divertissement attorno a usi e costumi italici. Una piccola copia del format di Mi voleva Strehler da parte di un attore a vocazione comica di sicuro mestiere e con numeri pirotecnici nel proprio bagaglio. A tratti divagazioni irresistibili mentre, sul filo della memoria, si scatenano note da karaoke, a soggetto e, apparentemente a libera improvvisazione. Il protagonista cuce lo spettacolo con il piccolo pretesto della permanenza in una sala d’attesa di Equitalia. Il clima è vagamente kafkiano. Vengono chiamati dall’altoparlante numeri a casaccio, c’è gente che aspetta da cinque giorni in quell’angusta sala. Il protagonista dunque ha tutte le possibilità di sfogarsi e suscita risate a scena aperta quando recita Leopardi con l’accento marchigiano. I due poli regionali della comicità di Micheli sono toscano-pugliesi. E dunque che si parli di Marina di Cecina o di Bari la sua inflessione dialettale rivela tutte le doti di imitatore-intrattenitore. Potrebbe anche leggerci l’elenco del telefono con quella verve ammiccante empatica che si salda con la viva simpatia dello spettatore in una pomeridiana di estimatori ma con pochissimi giovani (segno dei tempi?). E quando termina lo spettacolo vorresti chiedere il bis tanto la valigia dell’attore di Micheli s’immagina piena di ulteriori doni da porgere all’utente di teatro. L’interprete è unico e solo in scena ma la sua capacità evocativa crea, con il contributo di regia, altri personaggi imaginari che fanno parte di un vissuto a cui guardiamo con simpatia e con le capacità di una memoria che sembra non appartenere più al Paese e alla sua tradizione. Chi conosce realmente il proprio destino in una sala di Equitalia, un incubo per tanti italiani, ora burocraticamente dismessa ma non per questo dimenticata e rimossa?
data di pubblicazione:12/11/2018
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 12, 2018
Per leggere un manuale sulla depressione ricorreremo a Borgna e a Recalcati. Per constatare la sua traduzione in letteratura, nella vita di tutti i giorni, possiamo avvalerci dell’eclettico Andrea Pomella che, oltre a combattere il male, riesce frequentemente a cambiare lavoro e a prodursi in saggi su Caravaggio, Van Gogh e i Musei Vaticani con la stessa disinvoltura con cui rientra nei panni del malato cronico. L’arte regala seducenti connessioni con la psico-somatica. Il trauma dell’autore è in distacco interiorizzato con il padre. Ma la tara viene saldata a fine libro perché dopo quaranta anni il personaggio rimosso torna a essere genitore, nonno, parente integrato nella famiglia di Pomella. Trattasi di un ritorno alle origini che non cancella la sofferenza precedenza ma la resetta. L’autore vive una depressione creativa in cui sfrutta l’eccesso di sensibilità per leggere un mondo diverso, filtrato dai medicinali specifici e dalle alterne fortune degli incontri con la psicoterapia (personaggi distratti, a volte sinceramente appassionati). Il merito del libro è di restituirci un universo fatto di normalità e di crisi. Un mondo molto capitolino, fatto di vive, di quartieri, di passeggiate riconoscibili. Ci troviamo a partecipare, sia pure dall’altra parte della barricata, come soggetti apparentemente sani e sull’altra, seconda barricata: quella di una lettura attenta e partecipe. Pomella si mette a nudo e infittisce la sua trama narrativa di cittadini puntualmente restituire in bibliografia finale. Appare chiaro che il rimando illuminante, l’accensione è Il male oscuro di Giuseppe Berto, romanzo che nel ’68 venne ridimensionato per la sua evidente estrazione borghese, finendo col venire ampiamente rivalutato in seguito. Pomella alimenta un rapporto quasi fisico con quella trama attraverso la casa di Berto e il suo ricordo. Quel romanzo è un memoir, un percorso da seguire quasi obbligato per uscire dalle spire della depressione e combattere un male che a volte è un nemico esplicito e non più tanto oscuro. La voce dell’uomo che trema è uno scritto importante, a tratti profondo. Che stimola più che far discutere.
data di pubblicazione:12/11/2018
da Daniele Poto | Ott 29, 2018
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 25 ottobre/11 novembre 2018)
Letteratura a teatro. Più nera che gialla. Piccoli crimini coniugali all’interno di una famiglia squassata. Muoiono un gatto e un pappagallo. Troppo facile rinvenire l’assassino.
Due attori esperti per tradurre un romanzo breve (o un racconto lungo) in palcoscenico in una scena simbolicamente semplice. Un tavolo, due poltrone dedicate, una scala che porta a un’immaginaria camera da letto. Questa la minuta logistica dove si traduce il massacro quotidiano della vita domestica di due over che, per solitudine e per mancanza di alternative, non hanno trovato niente di meglio che mettersi insieme, sposarsi e continuare a coltivare la propria insopportabilità del vivere. Lei odia il gatto, lui ricambia con un profondo disamore per il pappagallo. Nell’instancabile gara alla consumazione delle energie psichiche e nervose dei protagonisti sono i due animali domestici a farne le spese. Ma la sorpresa è dietro l’angolo. Perché anche quell’odio è insostituibile e non può essere surrogato da crudeltà accessorie. Simenon quando vuole sa essere spietato. La sua pagina è evocata, distante come una didascalia ma letterariamente icastica e di grande efficacia. Il piccolo mondo degli orrori quotidiani è quello che lui stesso ha sperimentato tradendo innumerevoli volte la consorte con una vita replicante alternativa. Elia Schilton e Alvia Reale con grande esperienza fanno rivivere il dramma domestico dissimulando ironia (i due si parlano alla fine solo con dei bigliettini insultanti). Descritto un orrore realistico e claustrofobico che allude a una banlieu parigina spoglia e disadorna. Era lo spettacolo d’apertura di stagione. L’amore è lontano e in questo secondo matrimonio dei due è impossibile ritrovarne le perdute tracce. Dunque disprezzo, rabbia, desiderio di libertà e frustrazione nella piccola e meschina vita di tutti i giorni. Lei cuce, lui legge il giornale, scorre il silenzio della loro divisione, specchio di incomunicabilità. La produzione è della compagnia di Umberto Orsini che ha creduto in questo piccolo ma significativo teatro drammatico da camera.
data di pubblicazione:29/10/2018
Il nostro voto:
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