da Paolo Talone | Apr 15, 2022
(Teatro Quirino – Roma, 12/17 aprile 2022)
Tutte le sere un gruppo di attori ebrei si riunisce per stabilire a processo se l’imputato Gesù di Nazareth sia colpevole o no secondo la legge giudaica. Capolavoro dimenticato di Diego Fabbri, proposto nel cartellone del teatro Quirino di Roma, per la regia di Geppy Gleijeses e l’interpretazione dello stesso (in sostituzione dell’impossibilitato Paolo Bonacelli), insieme a un folto numero di artisti tra cui Marco Cavalcoli, Daniela Giovanetti e Giovanna Bozzolo.
È innegabile che la figura di Gesù abbia destato nel tempo molti interrogativi. Giudicato ora scomodo, ora sobillatore dell’ordine costituito, uomo o dio si pensa a lui come a un personaggio straordinario, i cui insegnamenti hanno rivoluzionato il mondo. Alcuni lo credono una favola, uno scandalo, un racconto ben orchestrato davanti al quale è inutile ogni tentativo di spiegazione razionale. Che si abbia fede o meno, è una figura davanti alla quale ci si pone delle domande e contemporaneamente non si può esprimere giudizio che non possa essere confutato.
Gesù è la pietra di inciampo che genera l’azione drammatica. La sala si riempie così di accusatori e difensori. Viene sorteggiato tra gli attori chi dovrà prendere le difese di Caifa, Pilato e Gesù stesso, e così anche l’accusatore. Un giudice anziano e saggio è al centro della scena. I testimoni sono gli apostoli Pietro, Tommaso e Giovanni, ma per volere di una delle attrici, vengono invitati a dare la loro testimonianza anche altri interlocutori: Maria, la madre di Gesù, Giuseppe, il padre putativo, la Maddalena e Giuda, il traditore. La prima parte del dramma scompone e ricompone così i fatti noti che conosciamo già dai Vangeli, soprattutto quello di Giovanni, ritenuto il più vicino alla realtà dei fatti e insieme quello più spirituale. Il linguaggio è filosofico, giuridico, impone concentrazione per essere seguito. Ma è nella seconda parte della vicenda che tutto si fa più vicino alla nostra condizione, più umano. Dalla platea prendono parola altri personaggi che via via offrono la loro testimonianza, ora favorevole ora contraria, ma sempre legata a un’esperienza concreta nella quale, per qualche aspetto, ci si riconosce. Il ragazzo scappato di casa, la prostituta irrequieta, il prete e l’ex seminarista, fino alla commovente storia della donna delle pulizie che lavora in teatro: tutti depongono la propria testimonianza.
Ciò che pone in evidenza Diego Fabbri in Processo a Gesù è proprio questa molteplicità di visioni e prospettive, che discutono tra loro in un interminabile e acceso confronto. Autore scomodo anche lui, che nella letteratura teatrale e nella proposta sul palcoscenico non gode di molta fortuna. Senza contare che riproporre questo suo capolavoro implica un notevole sforzo di risorse e un consistente numero di attori, ben diciannove in questa versione, tutti con un proprio stile recitativo e una preparazione artistica che non deve essere stato facile accordare.
È al regista allora che va il merito di aver compiuto il gesto coraggioso di rimettere in scena questo testo, di aver riesumato un autore dimenticato e poco conosciuto. La sua regia si affida
totalmente alla parola scritta. Non ci sono orpelli scenografici a contestualizzare la vicenda. Tutto si svolge come in un’aula di tribunale appunto, approntata alla meglio nello spazio libero da quinte e fondali del teatro. Non c’è finzione, ma la cruda realtà resa ancora più manifesta dalla presenza degli attori tra il pubblico. Un espediente forse non più di moda, ma necessario al testo, poiché avvicina la domanda a chi assiste in platea. Il processo tocca inevitabilmente quelle questioni che tutti nella nostra vita ci siamo posti. Si rimane così confutati o chiariti nella nostra personale idea di Cristo e della cristianità. Il caso è appassionante.
Certo, il pubblico in sala non è lo stesso del 1955, anno in cui vide la luce l’opera. Allora ci si stava riprendendo da una guerra, ci si riteneva protagonisti di una ricostruzione. Esprimere la propria opinione in pubblico e discuterne era un gesto di responsabilità politica, nel significato di presa di posizione davanti a una questione. Oggi forse non è più così. Oggi chi va a teatro vuole essere intrattenuto, provare piacere per lo spettacolo, emozionarsi insieme a un personaggio. Almeno così è per molti. Ma quella di vedere rappresentato un testo come questo rimane un’occasione unica – non a caso proprio nei giorni in cui si celebra la Pasqua – un’opportunità che difficilmente avremmo modo di rivedere proposta.
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Apr 14, 2022
(Teatro Lo Spazio – Roma, 7/16 aprile 2022)
Jennifer vive nell’attesa che il telefono squilli per lei. Franco avrebbe dovuto chiamarla la sera dopo il loro primo incontro, ma da allora sono passati già tre mesi e mezzo. Nella speranza che si faccia vivo, lei indossa ogni sera il suo vestito più bello e si trucca per farsi trovare pronta. Le cinque rose di Jennifer racconta la difficile condizione dei travestiti all’inizio degli anni Ottanta, un dramma di emarginazione e solitudine.
La regia di Agostino Marfella rispetta in pieno il testo di Annibale Ruccello, marcandone gli elementi di inquietudine e isolamento che denotano la vicenda di Jennifer, il travestito interpretato da Leandro Amato sul palco insieme a Fabio Pasquini. Un omaggio ad Annibale Ruccello, scomparso troppo presto trentasei anni fa.
Avvolto nella completa oscurità, un tappeto di rose rosse di stoffa irrora la superfice del palco, la stanza dove vive Jennifer. L’appartamento è in un ipotetico quartiere, dove vivono solo travestiti, forse alla periferia di Napoli o chissà in quale altra città. Le cose che possiede sono espressione di un mondo artificioso che parla di sé con uno specifico linguaggio, fatto di gusti e oggetti esageratamente kitsch, ma sono anche il ripieno che tiene in piedi un’esistenza fragile, al limite della disperazione. Necessario è il telefono che intercetta, per un problema alla linea, chiamate destinate ad altri interlocutori, ma non dell’unica persona dalla quale Jennifer aspetta un saluto. Fondamentale è il suo guardaroba di abiti di lamé e trame trasparenti, che definiscono la sua scelta. Il mondo raccontato da Annibale Ruccello è fermo al periodo a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, un’epoca fondamentale per la lotta ai diritti delle persone LGBT+.
Indispensabile la radio, che trasmette canzoni di Milva, Patty Pravo e Mina, nei cui testi la protagonista cerca conforto e spiegazioni e che per questo assurge di diritto a ruolo di personaggio dialogante (le voci sono di Gioia De Marchis Giannini e Enzo Avolio). La radio è anche lo strumento che avverte della presenza di un maniaco killer – sicuramente omofobo – che sceglie le sue vittime soprattutto tra i travestiti. È il dato che infonde la graduale inquietudine che fa da sfondo al dramma e che obbliga la protagonista a prendere ancora più distanza da ciò che la circonda.
Jennifer è un personaggio amabile, esilarante, comico, espressione di quella napoletanità che piace perché sfrontata, orgogliosa, comunque ironica di fronte al brutto della vita. Leandro Amato le dà vita e carattere, con la sua voce ricca di toni e sfumature e dalla splendida musicalità. Non lascia cadere mai il personaggio nel ridicolo, riducendolo a pura macchietta di “femminiello” al quale siamo abituati, ma gli conferisce una sacralità che lo rende inviolabile, specialmente quando il dramma – in modo lento e inesorabile – trascina Jennifer in un vicolo senza uscita, di una felicità e una rivalsa che non arrivano. Anche Anna, un travestito che si presenta a casa di Jennifer con la stessa speranza di intercettare una telefonata, è un altro esempio di questa disperazione votata alla solitudine e all’emarginazione. Nei panni del personaggio, Fabio Pasquini sembra uscito da un quadro espressionista. Grottesco e caricaturale, appare ancora più estraneo alla realtà sociale che li ha isolati. È proprio attraverso Anna che il dramma diventa ancora più inquietante, quando accusa l’amica di averle ucciso il gatto Rosinella, alla quale era visceralmente legata. Inquietudine che la complessa regia di luci, di taglio e dal basso, amplificano in modo sconcertante.
L’occasione di vedere Le cinque rose di Jennifer è da non perdere, in scena fino a sabato al teatro Lo Spazio.
data di pubblicazione:14/04/2022
Il nostro voto:
da Maria Letizia Panerai | Apr 7, 2022
Johnny (Joaquin Phoenix), giornalista radiofonico, sta conducendo un lavoro in giro per gli Stati Uniti intervistando bambini sulle loro aspettative, i loro sogni ed i loro desideri. Con pochi fidi collaboratori, un microfono ed un registratore, spostandosi tra New York, Los Angeles e New Orleans, l’uomo raccoglie con passione ed amorevolezza le giovanissime testimonianze su come gli intervistati vedono il futuro e cosa pensano del mondo in cui vivono.
Johnny ha una sorella, Viv, con cui non parla da un anno: dopo la scomparsa della madre, in seguito ad una brutta lite, i loro rapporti si sono interrotti. Una sera Viv rompe il muro di silenzio: al telefono chiede al fratello di occuparsi di suo figlio Jesse, di appena 8 anni, perché lei deve raggiungere il marito, e padre del bambino, ricoverato a Detroit. Johnny, nonostante l’esperienza accumulata con il suo lavoro, resta spiazzato dall’incontro con il nipote, così attento e consapevole (interpretato da uno stupefacente Woody Norman), e non potendolo affidare a nessuno decide di portarlo con sé durante il suo itinerario lavorativo. Sarà un’occasione formativa per entrambi, di scambi mentali e fisici, che sancirà l’inizio di un legame inaspettato. Entrambi, con le dovute differenze, opereranno un inevitabile cambio di prospettiva, in un confronto continuo che li farà crescere.
Il film ha dei contenuti molto profondi e Joaquin Phoenix, l’uomo dai mille volti, è perfetto nel rappresentare la crescita interiore di un uomo alle prese con un bambino molto impegnativo, senza calcare mai la mano, in maniera equilibrata, tenera, reale. Intenso e dalla trama impalpabile, il film si interroga sui traumi personali presenti ad ogni età, ed affronta le difficoltà di linguaggio per il raggiungimento di una reciproca conoscenza tra adulti e bambini. Da questo continuo confronto tra zio, nipote e i bambini intervistati da Johnny che raccontano cosa si aspettano dalla vita, cosa desiderano nonostante l’incertezza dei tempi che stanno vivendo tra difficoltà economiche e sociali, il regista trae spunto per rivolgere l’obiettivo sulla necessità di vivere il presente, di andare avanti anche senza un’idea precisa del futuro, impedendo alle aspettative di non farci mettere a fuoco tutte le sfaccettature dell’oggi, prestando così il fianco solo ad ansie e dubbi.
Il film scava nel rapporto tra adulti e bambini analizzando anche la difficoltà di essere genitori ed i traumi presenti ad ogni età, in una sorta di itinerario di crescita, di stimolo ad incontrarsi, di sprone ad andare avanti (come il titolo stesso recita) anche se non si ha idea di cosa accadrà nel futuro, regalando allo spettatore una vera e propria meditazione su quanto i rapporti d’amore aiutino a crescere nel modo migliore e ad ogni età.
Inquadrature e fotografia di livello alto, un bianco e nero emozionante accompagnano questo film profondo ma lieve, sapientemente girato ed interpretato.
data di pubblicazione:07/04/2022
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da Antonio Jacolina | Apr 6, 2022
Ritornando a curiosare fra i libri di nicchia abbiamo trovato il bel libro di Pierre Assouline, giornalista, storiografo ed autore letterario molto noto oltr’Alpe e ben apprezzato anche in Italia.
Assouline con Hotel Lutetia uscito in Francia nel 2005 ed edito da noi solo nel 2017, mette in mostra tutto il suo talento narrativo di giornalista, biografo e storico. Difatti, con una notevole erudizione, frutto evidente di un profondo lavoro di ricostruzione d’archivio e di ricerche, senza mai scadere nel noioso o pedante, dimostra di saper ben miscelare ed amalgamare in modo fluido e gradevole la realtà storica con il piacere della fiction.
Ancora una volta la piccola storia incontra la Grande Storia grazie alla capacità dell’autore di creare con il suo stile letterario inconfondibile un microcosmo, un universo a sé: l’Hotel Lutetia, ove sfruttando tutte le possibili cifre della finzione il lettore è portato a fare un viaggio nel tempo ed in un luogo: in un periodo ricompreso fra il 1938 ed il 1945. Un’Epoca tra le più drammatiche nella storia dell’Umanità.
Le vicende vengono viste e vissute dietro le quinte del palcoscenico, vale a dire dietro le porte vetrate del Lutetia. L’unico Grand Hotel posto sulla rive gauche di Parigi. Fuori c’è l’Europa, la Francia, Parigi, l’Umanità. L’io narrante, il coprotagonista oltre all’Hotel stesso, è Edouard Kiefer, un uomo discreto, solitario e riservato. Di origini alsaziane ha fatto il poliziotto a Parigi ed ora è il responsabile della sicurezza del Lutetia (ove vive) e dei suoi clienti. Una persona attenta, abituata ad analizzare a fondo la realtà e le persone, che, dal suo “osservatorio” ci descrive con tono pacato una Società che va verso il dramma totale. Kiefer è uno di quegli eroi modesti e pudichi, è profondamente umano e non è né rassegnato né impegnato. Tramite i suoi occhi e le sue riflessioni, l’autore con mano salda e prosa asciutta ci fa rivivere le vicende di quegli anni. L’atmosfera ancora gioiosa e serena di prima della Guerra quando la clientela dell’Hotel è fatta di artisti, poeti, politici, nobili e ricchi habitué. Il periodo dell’umiliazione, del terrore e delle delazioni quando, sconfitta la Francia nel 1940, il Lutetia diverrà per 4 lunghi anni la sede dei Servizi Segreti della Wehrmacht, tutt’attorno spoliazioni, retate, arresti, torture, antisemitismo e collaborazionismo. Infine, liberata Parigi, quasi catarticamente nel 1945, l’albergo diviene centro di raccolta delle migliaia di prigionieri, di deportati e di sopravvissuti di ritorno dai campi di prigionia e di sterminio.
Alcuni momenti non vanno raccontati ma solo letti tanto sono toccanti. Testimonianza storica e racconto divengono tutt’uno!
Assouline sa dare vita ai suoi personaggi ed al mondo che li circonda sia nella parte romanzata che nella parte storiobiografica. Ha indubbiamente una bella penna, una scrittura raffinata ed elegante, sa ben cesellare le parole ed è un piacere leggerlo. Il suo stile è chiaro ed il tono è giustamente sobrio, il ritmo narrativo poi segue correttamente l’evolversi degli eventi storici. Hotel Lutetia è dunque un bel libro: una biografia/ un romanzo/ una ricerca storica molto interessante che si legge con passione e velocemente. Un libro che dalla hall di un Grand Hotel ci porta piano, piano, senza mai uscire fuori dalle sue porte, dritti, dritti nella Grande Storia.
data di pubblicazione:06/04/2022
da Daniele Poto | Apr 6, 2022
Carlotto si è conquistato un meritato spazio nell’editoria noir italiana e, per una volta, ha accettato l’invito di una casa editrice mainstream, ricadendo sotto l’egida del prestigioso Giallo Mondadori. La chiamata, vantaggiosa per l’interessato, richiede qualche non trascurabile contropartita perché il libro risponde alle necessità di una chiamata e sembra meno ispirato rispetto alla saga dell’Alligatore oltre a richiedere un notevole esborso per l’acquirente del libro. E’ evidente l’esigenza dell’autore di uscire da uno schema seriale collaudato e di battere nuove piste. Il personaggio del macrò, tanto caro a tanta fiction francese (Manchette, Le Breton) nasce da studi di settore, interviste, frequentazioni, ma non si può dire che Carlotto ci restituisca un personaggio troppo credibile soprattutto quando questa attività borderline di protezione, tollerata dalla legge, sfocia in imprese delinquenziali senza limiti. Ovviamente il libro pullula di caratterizzazioni di donne prostitute, più o meno fidate o alleata del Francese, il protagonista. Ci si tuffa nei meandri di una vicenda ingarbugliata e in una trama e non sempre facilmente decifrabile che Carlotto colora con la consueta vivacità e con qualche compiacimento erotico. La caduta nell’inferno di vendette incrociata e para-mafiose è inevitabile. Il personaggio del commissario donna è di una durezza senza precedenti ma nel suo conclamato cinismo si attira pure qualche simpatia. L’ambientazione è come di consueto nel Veneto bigotto ma peccatore, ricco di devianze e di ipocrita borghesia. E’ la provincia nel cui torbido Carlotto sguazza da tempo. Come documentarista che chiaramente illustra senza avere la pretesa di indicare una via d’uscita. La Maison del Francese accontenta tutti ma è in un equilibrio precario che presto si rompe. Ed i destini delle 12 donne che gli sono legate per interesse si collocano su un precario asse di resilienza. Senza indulgenza e pietà.
data di pubblicazione:06/04/2022
da Paolo Talone | Apr 5, 2022
(Teatro Quirino – Roma, 30 marzo/3 aprile 2022)
Nello studio dell’avvocato tutti i giorni, in moto perpetuo, si ripete lo stesso gran da fare. Poi arriva Bartleby, lo scrivano scassinatore che inceppa l’ingranaggio facendo esplodere tutto quello che ha intorno. Esprime una sola preferenza: quella di non fare ciò che gli si chiede che faccia.
Formula dal risultato felice quella di affiancare sulla scena una compagnia di attori compatta e di grande esperienza nel mestiere del teatro a un mattatore sensibile e attento come Leo Gullotta. La versione drammaturgica di Francesco Niccolini del racconto di Herman Melville, messa in scena da Emanuele Gamba, pone in evidenza proprio il distacco che si crea tra un gruppo di impiegati nello studio di un avvocato e un uomo eccezionale nella sua singolare stravaganza, che improvvisamente irrompe nella loro routine in risposta a un annuncio di assunzione. Fatta eccezione per i due personaggi femminili di Rita, la maniacale e comica donna delle pulizie Giuliana Colzi (che dello spettacolo è anche la costumista), e della signorina Ginger (Lucia Socci), l’impiegata che vive in equilibrio tra il lavoro e gli sbalzi emotivi dei suoi colleghi maschi, l’impianto drammaturgico rimane fedele al racconto originale. Fedele soprattutto nel ritmo, costante e lento, di una narrazione che incentra sul solo personaggio di Bartleby lo svolgersi della vicenda. Tuttavia è sulle spalle dell’avvocato, e quindi di Dimitri Frosali, che tutto il peso si sposta: è lui a raccontare quello che accade nel suo studio, a presentarci i personaggi e le loro abitudini, che rimane come folgorato e ammirato davanti a Bartleby, l’impiegato che improvvisamente smette di eseguire le sue mansioni gettando tutto lo studio in subbuglio ma per il quale, per qualche motivo, comincia a provare compassione. Ad agitarsi sono soprattutto gli altri due personaggi maschili della vicenda: Turkey (Massimo Salvianti) e Nippers (Andrea Costagli), sempre a litigare per contendersi il ruolo di miglior impiegato, che letteralmente esplodono di rabbia davanti all’incomprensibile blocco del loro collega appena arrivato.
Il Bartleby di Leo Gullotta è un uomo semplice, come l’abito liso e anonimo che indossa, incastrato in un mondo che non gli appartiene. Un mondo fatto di soffocanti pareti grigie, in uno spazio appena illuminato da una piccola finestra posta troppo in alto, dalla quale cerca di afferrare i deboli raggi di sole che lascia entrare (le scene sono di Sergio Mariotti). Fissa di continuo qualcosa con un sorriso educato e composto (lascia ammirati la resistenza di Leo Gullotta a mantenere ferma la stessa espressione). È laconico e conciso nell’esprimere la sua volontà di non voler fare ciò che gli si chiede. “Avrei preferenza di no” è il ritornello che ripete di continuo, eppure sempre con una sfumatura diversa di senso, segno che è presente a sé stesso in ogni momento del dramma. È un personaggio che rifiuta il dialogo e non si esprime in monologhi neanche quando è solo. Non compie azioni significative all’infuori del fatto che mangia biscotti allo zenzero eppure è capace di scuotere tutto il piccolo mondo che gli vive intorno. Si potrebbe definire un eroe anti-teatrale. È solo nella sua battaglia, non chiede nemmeno al pubblico un sostegno. Anzi, lascia tutti in silenzio a osservare, talvolta generando una sensazione di irritante fastidio per questa continua inazione. Ci si aspetta una tirata che dia una soluzione, ma quello che torna è sempre e solo il ritornello della preferenza a dire di no. E allora non si può che fare un passo indietro, accettare di non ricevere nessuna giustificazione, e lasciarsi interrogare da Bartleby.
data di pubblicazione:05/04/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Apr 1, 2022
(Teatro Il Parioli – Roma, 31 marzo/10 aprile 2022)
Omaggio a Peppino ma anche a Luigi a quattro anni dalla scomparsa. Un classico del repertorio del più farsesco dei De Filippo. Con un De Caro all’altezza della parte e della commemorazione. I suoi partner sono la compagnia del compianto Luigi.
Prima fastosa per un classico tutto esaurito da debutto con tanti significati. Pittoresca confusione da generone romano all’ingresso (citazioni per Giovanni Ralli, festeggiatissima e Gianni Letta, di meno). Ma la ricompensa è ghiotta sul palcoscenico per uno spettacolo da 90 minuti senza interruzioni ma con tre suture. L’evocazione della superstizione partenopea è caricata all’eccesso in avvio ma poi si diluisce nella concentrazione sulla gobba portafortuna. Peppino sulla particolarità è più leggero di Eduardo. Poi senza spoilerare il ricorso a quello che viene definito “il regolamento” evapora nella sorpresa finale. Ovviamente l’happy end è in vista con una scena corale che è la fotografia istantanea che riassume tutto l’impegno della compagnia. L’ambientazione è spostata negli anni ’80, senza dimenticare ovviamente Maradona e Pino Daniele. Il poliedrico Muscato ha una storia antica, un sodalizio ventennale con parte della famiglia e non si nega dedizione all’opera di ravvivamento del testo. Concede persino una coreografia di balli moderni nel finale quando l’inevitabile matrimonio salda tutte le contraddizioni, le paure del protagonista. De Caro culmina un bel percorso attoriale, lontano ormai decenni dagli antichi compagni di viaggio. Mostrando di sapersi evolvere da solo, assolvendo un compito non banale. Piero Maccarinelli con questa tappa salda un altro pezzettino di stagione come tanti altri teatri romani. Alti e bassi, non sempre omogenei ma all’insegna della poliedricità per accontentare vaste fasce di pubblico. Senza dimenticare che siamo a Roma nord, in quello che una volta era il tempo del Maurizio Costanzo show.
data di pubblicazione:01/04/2022
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Apr 1, 2022
(Teatro Ambra Jovinelli – Roma, 29 marzo/10 aprile 2022)
Il racconto in prima persona delle disavventure, comuni a molti italiani, legate all’acquisto e la ristrutturazione della casa. Per Rubini il pretesto per proporre uno spettacolo divertente ma anche colto e intelligente.
Sulla scia di una programmazione che privilegia un divertimento mai becero e banale, l’Ambra Jovinelli riporta a Roma il nuovo spettacolo di Sergio Rubini, attore, autore e regista di apprezzate performances cinematografiche e teatrali. Ristrutturazione, ovvero disavventure casalinghe raccontate da Sergio Rubini, questo il titolo completo del lavoro scritto a due mani con Carla Cavalluzzi, è il monologo autobiografico – quasi una confessione – dell’attore pugliese ( nativo di Grumo Appula, paese su cui lui stesso trova modo di ironizzare) alle prese con problemi sempre più drammatici connessi all’ acquisto e alle ristrutturazioni delle sue diverse abitazioni. Rubini, con il suo stile unico, porta sulla scena diversi comprimari incontrati nelle sue vicissitudini: la mamma che gli fa comprare la prima casa a Roma, le Banche con i loro mutui, gli architetti e soprattutto idraulici …più o meno capaci.
Il brillante monologo è costantemente arricchito da inserti musicali di alto spessore, grazie ai professionisti della band, Musica da Ripostiglio (Luigi Pirozzi, Luca Giacomelli, Raffaele Toninelli, Emanuele Pellegrini, assolutamente meritevoli di citazione) e da momenti decisamente “colti” (letture tratte da pagine di Vitruvio, Melville, etc). Ma, ripeto, la chiave di lettura preminente è il divertimento intelligente, mai volgare, sempre brioso, proposto e condotto da un Rubini nelle vesti di “entertainer” confidenziale, ma sempre ironico e spassoso .
Episodi, apparentemente banali nel racconto in scena, diventano battaglie epiche (il seminterrato che si allaga, la vasca che sprofonda, il tritarifiuti che richiede “lo spurgo”, la varechina che lo salva dagli odori pestilenziali…) e suscitano negli spettatori sincere risate e divertite riflessioni. Così, due ore trascorrono liete e godibili, perché dove non c’è Rubini con i suoi paradossali eventi casalinghi o le sue letture importanti, c’è la musica e le atmosfere splendidamente rese dalla band rigorosamente “live”. Dunque uno spettacolo completo in cui divertimento, musica e persino cultura si armonizzano appieno.
data di pubblicazione:01/04/2022
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Mar 30, 2022
Per eventi misteriosi e inconcepibili la luna esce dall’orbita terrestre e rischia di schiantarsi sul nostro amato pianeta con prevedibili disastrose conseguenze. Fortuna che la NASA vigila e prima di lei un appassionato cospirazionista, astronomo improvvisato. Si crea dunque un’improbabile “ammucchiata” di esperti e dilettanti che insieme all’ex astronauta Jo Fowler intuisce una soluzione e ahinoi ce la propina…
Se è vero che la prima scena di un film di azione targato USA può costare quanto un medio film di casa nostra, è altrettanto vero che, nel caso di cui trattasi , il livello di scempiaggini raggiunto è direttamente proporzionale ai costi. In generale, non sono incline alle stroncature, ma se, per errore, ci si imbatte in pellicole come Moonfall, l’etica professionale impone una severa censura e un affettuoso sconsiglio. La doverosa premessa non esclude naturalmente che ci siano state e ci siano pellicole di genere (fantascienza, disaster movies, fantasy, super eroi) pienamente riuscite e altamente spettacolari. Non così Moonfall, peraltro diretta da un buon artigiano come Roland Emmerich che senza essere Kubrick ci aveva regalato il godibile Indipendence Day.
Questa volta il pateracchio è completo e dal menù estraggo a caso pagine di complottismo che neanche un no vax, ansie artificiose che neanche Crepet…, teorie scientifiche che neanche Paperino sotto allucinogeni (la Luna, tutt’al più si allontana dalla terra…). Purtroppo non esagero nel segnalare che per due ore e dieci minuti, confortati – si fa per dire- da un commento sonoro assordante e distonico ci si sottopone alla visione di un campionario misto che va dall’incredulità, all’impossibile transitando per una ingenuità fanciullesca. Se quanto sopra non bastasse a dissuadervi da insani propositi (lo so, non è che al cinema ci sia tanto in questo periodo!), e sorvolando sulla trama per decenza, non posso che evidenziare lo scarso contributo dei poveri attori, il premio Oscar, Halle Berry e John Bradley, sbiaditissima copia del grande Paul Newman, immeritatamente coinvolti nella scombicchieratissima e irresponsabile sceneggiatura e incapaci di dare un sia pur minimo spessore ai personaggi. Ma, almeno gli effetti speciali? Non mancano e non oso pensare a quanto siano costati, ma sono lì anche loro come un corpo estraneo, confusi e slegati, roboanti ma poco coinvolgenti come purtroppo tutto il film.
data di pubblicazione:30/03/2022
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da Antonio Jacolina | Mar 30, 2022
Per singolare coincidenza, quasi a volersi scusare con i cultori di Simenon della “colpa” di aver recentemente dato alle stampe una raccolta di raccontini: Il capanno di Flipke che più che appunti di un grande scrittore sono da considerarsi invece solo veri e propri Scarti d’Autore o Avanzi di Cassetto, la casa editrice Adelphi si riscatta pubblicando ora un bel libro del nostro scrittore belga. Un libro già apparso in Italia nel 1964 nella celebre collana della Medusa. Questa volta si tratta di un vero Roman Dur o Roman Roman come amava definirli l’Autore stesso. Un vero romanzo scritto nel 1939, appartenente quindi, per periodo ed ispirazione, proprio alla stagione più creativa dello scrittore, quella che ha dato i migliori frutti letterari Il periodo in cui Simenon definisce magistralmente, libro dopo libro, il suo universo. Un mondo in cui ogni lettore poteva e può ancora identificarsi in una galleria di personaggi autentici, senza tempo e quindi universali. Poco importa che siano francesi, cittadini, paesani o come questa volta, piccoli professionisti di provincia, su tutti grava, ieri come oggi, il Destino da cui non si può sfuggire!
Bergelon è un piccolo medico di quartiere in una cittadina di provincia. Coglie al volo l’allettante offerta di un suo collega più fortunato di intascare l’intero onorario previsto per la degenza del primo paziente che farà ricoverare nella clinica di lusso gestita dal collega e poi di dividersi metà e metà gli introiti dei successivi. Il mediocre Bergelon fa ricoverare una sua paziente prossima al parto. Purtroppo per colpa del collega che era ubriaco durante l’intervento, sia la puerpera che il neonato muoiono. Il giovane vedovo, venuto a conoscenza della realtà dei fatti, decide di vendicarsi su Bergelon per il cattivo consiglio. Il “dottorino” si sente responsabile e… fugge. Fugge senza una vera meta, fino ad Anversa… fugge dal rimorso della morte che ha causato… fugge dal marito assetato di vendetta… fugge soprattutto da una vita, la sua, segnata dalla mediocrità e dal fallimento professionale… fugge dalla sua famiglia… fugge per provare a cambiare vita, per sfuggire al Destino, o… almeno provarci! Ma … il “dottorino” apprenderà che nulla si può fare e che arriva sempre il momento in cui si devono pagare le proprie colpe! Apprenderà altresì che alcune punizioni sono ben peggiori della morte!!
Più che un noir Il Dottor Bergelon è un dramma psicologico, un racconto diretto ed oggettivo, scritto in modo magistrale con la solita bella prosa scorrevole, asciutta ed essenziale. Al centro di tutto è la provincia francese, eguale però a tutte le province quale che sia la loro latitudine o l’epoca. Un mondo fatto di aspirazioni frustrate e di mediocrità, un mondo sempre sospeso fra il sogno ed il bisogno di un cambiamento con le connesse illusioni e poi le amare rassegnazioni. Simenon ne riproduce i contesti esistenziali, le persone, i loro pensieri e le atmosfere con tocchi realistici e naturalistici. Da profondo conoscitore della natura umana, al di là dei fatti narrati, i suoi veri protagonisti sono gli animi e le coscienze dei vari personaggi. Coscienze che Simenon svela progressivamente con la sola forza della sua capacità analitica. Il romanzo delinea infatti una duplice analisi psicologica: da una parte quella di Bergelon sconvolto dalla presa d’atto della propria meschina esistenza e dello squallore di tutto il suo ambiente, dall’altra quella del giovane vedovo cui il dramma subìto innesca la constatazione del proprio fallimento esistenziale. Due crisi umane frutto della propria superficialità e fragile essenza.
Il Dottor Bergelon è un romanzo che risponde in pieno alla giusta fama che merita Simenon! Molto più di un giallo o di un noir! E’ una vera opera narrativa, un romanzo che si divora fino alla fine pur con una crescente sensazione di turbamento e di inquietudine, proprio come Simenon voleva che dovesse essere leggendo della Realtà.
data di pubblicazione:30/03/2022
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