da Antonella Massaro | Mar 6, 2024
Un altro Ferragosto, sequel di Ferie d’agosto, riporta sull’isola di Ventotene il conflitto ideologico e culturale che, ora come allora, segna e caratterizza la società italiana. Un affresco nostalgico, che condensa il cinema di Virzì, senza, però, quel mordente che, di solito, caratterizza il modo di fare commedia del regista livornese.
Altiero Molino (Andrea Carpenzano) decide di riunire la famiglia a Ventotene, stringendosi attorno a suo padre Sandro (Silvio Orlando), ormai malato, ma che in quell’isola di confino trova ancora conforto per i suoi ideali di resistenza e di antifascismo. L’isola, però, è invasa dai preparativi per il matrimonio di Sabry Mazzalupi (Anna Ferraioli Ravel) e di Cesare (Vinicio Marchioni), che “neppure erano nati” ai tempi di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Sandro Pertini.
Paolo Virzì, dopo quasi trent’anni da Ferie d’agosto (1996), dirige il nuovo sbarco della famiglia Molino e la famiglia Mazzalupi sull’isola di Ventotene, raccontando un nuovo e inevitabile incontro-scontro culturale e ideologico. Sullo sfondo si intravede un’Italia che deve fare i conti con lo strapotere dei social network e con una memoria storica sempre più debole e sbiadita.
Un altro Ferragosto si cimenta con un bilancio non semplice, in cui i toni nostalgici sovrastano in maniera evidente quelli della commedia, licenziando un sequel forse meno incisivo di Ferie d’agosto, ma comunque di impatto. I personaggi di Ferie d’agosto (interpretati da Silvio Orlando, Laura Morante, Sabrina Ferilli, Paola Tiziana Cruciani, Gigio Alberti, Rocco Papaleo) sono, forse, più appannati da un punto di vista narrativo. Sullo schermo, invece, mentre le “nuove entrate”: perfettamente “nella parte” Christian De Sica e Vinicio Marchioni, mente ad Emanuela Fanelli si deve il monologo più incisivo dell’intero film.
Ventotene, poi, si prende meritatamente il ruolo di autentica protagonista, con la sua carica simbolica, i ritmi lenti e i colori vivi ma non invadenti, che la fotografia calda di Guido Michelotti proietta in quello spazio senza tempo in cui ancora, ostinatamente, resta sospeso Sandro Molino.
data di pubblicazione:06/03/2024
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da Daniele Poto | Mar 6, 2024
Dopo aver visto questo docufilm dentro la storia di Navalny il vostro giudizio su Putin e sulla sua politica non sarà più lo stesso. Quasi un giallo con un chiaro mandante e un sicuro predestinato alla morte. Ben dopo la realizzazione della pellicola.
La tragica fine del principale oppositore all’autocrazia russa, davvero molto sovietica, ha un prodromo nella domanda iniziale rivolta al protagonista. Che messaggio darebbe al popolo russo se dovesse venir ucciso? In avvio Navalny si schernisce e avvisa che un tema del genere sarebbe davvero molto noioso se proposto dopo la sua scomparsa. In chiusura di film invece la prende sul serio e dichiara che se ciò succedesse vorrebbe dire ha fatto davvero paura al regime e che l’opposizione può riconoscere in questo atto estremo la propria forza e condurre fino in fondo la propria lotta. Navalny si rivela nel suo privato, nel calore degli affetti, nella banalità della vita quotidiana ma non si sottrae alle domande più polemiche e che riguardano il proprio passato di nazionalista estremo con deviazioni razziste (errori di gioventù?). Ma il filone più appassionante è la ricerca investigativa condotta in combinato disposto con il giornalista bulgaro Christo Grozer grazie alla quale si identificano gli esecutori materiali del suo avvelenamento. In una registrazione-trappola si stabilisce un lungo colloquio con uno dei suoi eversori che il giorno dopo misteriosamente sparirà dalla circolazione. L’opera restituisce un clima soffocante di controllo poliziesco e rivolge un interrogativo che non avrà mai risposte. Per quale motivo Navalny ha fatto ritorno nell’amata patria sapendo quali conseguenze poteva produrre questa sua reimmissione nell’agone politico. Ci sono anche brani delle conferenza stampa di Putin in cui l’aspirante rivale non viene mai nominato (ricordate Veltroni quando evitava di citare Berlusconi?). Il Navalny degli anni all’estero è un perfetto utilizzatore dei social network grazie alla rubrica su youtube e a picchi di visualizzazioni che raggiungono oltre sette milioni di utenti.
data di pubblicazione:06/03/2024
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da Daniele Poto | Mar 5, 2024
Una bolgia dantesca nell’inferno di Napoli. Chi prende per buono il racconto cinematografico avrebbe paura ad affacciarsi in città. Il film non si fa mancare niente droga (overdose), prostituzione, miseria, naziskin, islam, accentuando sopra le righe il testo base di Ermanno Rea Napoli Ferrovia. Siamo dalle parti di Gomorra, Suburra, un genere mainstream che D’Amore replica ad oltranza ed abuso.
Pellicola scura, discontinua con un Servillo a tratti in difficoltà nell’assecondare le trame tortuose della sceneggiatura. Crudeltà violenza, irrazionale dominano la scena. Certo riesce poco convincente la conversione di Caracas, il protagonista che prima picchia gli extra-comunitari e in un amen si converte all’Islam, subito trascinato all’esercizio della preghiera in una lingua di cui nulla sa. Bisogna aver fiducia nella regia di D’Amore che nella recitazione non è de Niro ma neanche Favino, più solido personaggio in un altro film incentrato sul ritorno a Napoli per l’arte di Martone. Uno scrittore in crisi torna a Napoli e dopo essere stato scippato improvvisamente prende fiducia nelle risorse e nel vitalismo terreno degli adolescenti fino a trovare un terreno di amicizia apparentemente solida con Caracas. Che nel non fortunatissimo libro da cui è tratto lo script ha 55 anni, qui venti anni di meno ma qualche chilo in più e si vede quando corre. Si può scegliere tra due finali subliminali, ad abundatiam: il matrimonio tra il delinquente convertito e la sposa tossicodipendente oppure la morte dei due. Rispettivamente per mano dei fascisti e di un eccesso di eroina. Per la mestizia dello scrittore che però da questi drammi ha prodotto secondo la vulgata della critica immanente il suo libro più bello. Film di visione e di effetti forti, più che di dialoghi. Ma quello che più spicca è l’accentuazione di una Napoli maledetta e assolutamente poco solare.
data di pubblicazione:05/03/2024
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da Rossano Giuppa | Mar 4, 2024
Al Teatro India di Roma è stato scena il 2 e 3 marzo 2024 Gli anni, opera coreografica di Marco D’Agostin con l’interpretazione di Marta Ciappina che trae ispirazione dal racconto biografico ed al contempo generazionale del romanzo di Annie Ernaux e dalla popolare canzone degli 883. Lo spettacolo, costruito a partire da una playlist di brani pop e rock dagli anni ’60 a oggi, disegna situazioni e ricordi, attraverso una sovrapposizione geometrica di ambienti, scene e spezzoni di vita familiare, nel tentativo di salvare e mantenere in vita quante più immagini ed emozioni possibili.(foto di Michelle Davis).
Una narrazione condotta per mezzo del gesto coreografico che è anche e soprattutto una rappresentazione del movimento che scava nel tempo e nella memoria. La coreografia di Gli anni è concepita per costruire un ponte tra passato e presente, offrendo uno sguardo su una ipotetica realtà che assomma ciò che è stato e ciò che è.
Un viaggio intimo e nostalgico fatto di piccoli e leggeri dettagli che danno colore e forma al ricordo in cui grande efficacia è garantita dal corpo e dal movimento espressivo di Marta Ciappina, che cattura lo sguardo e l’emozione del pubblico, visto che tocca i ricordi personali di ciascuno. Le storie, gli oggetti, le canzoni e i momenti vissuti si mescolano e si intrecciano in un insieme indefinito che altro non è che una riflessione profonda sullo scorrere del tempo e sul desiderio di ognuno di bloccare e tenere con sé alcuni momenti significativi.
Uno spettacolo sentito e realizzato con il cuore che ha già ricevuto riconoscimenti significativi, tra cui il Premio UBU 2023 come Miglior Spettacolo di Danza e il Premio UBU 2023 per la Miglior Attrice/Performer assegnato a Marta Ciappina.
data di pubblicazione:04/03/2024
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da Daniele Poto | Mar 3, 2024
con Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Cristina Pellegrino e con Giordano Agrusta, scene Francesco Ghisu, luci Luca Barbati. Produzione Marta Morico
(Teatro Vascello – Roma, 27 febbraio/3 marzo 2024)
Una famiglia tribale, di stampo sudista, allocazione calabrese è un intrico di patriarcato e antichi riti. La moglie non ha diritto di parola, il figlio si macera nella frustrazione. Si parla una lingua arcaica ricca di invenzioni. Frutto della fantasia di Mattia Torre,autore scomparso ma ancora riccamente e giustamente rappresentato.
Personaggi rozzi, minimali complessati, racchiusi in un mondo di rara grettezza. L’ignoranza si mescola con la povertà e il ricorso ai cibi, spesso solo evocati è una possibile ancora di salvezza. Anche perché quel sugo della nonna, annunciato ancora prima della rappresentazione bolle lì da 4 anni se non addirittura da 13, cioè dalla prima assoluto dello spettacolo. Ovviamente De Lorenzo si trova benissimo con le varianti del calabrese e Carlo De Ruggieri fa apparire credibili i 19 anni di un figlio traviato dalla grottesca educazione familiare che gli è stata impartita. Il focus è l’apparizione di un personaggio altrettanto rozzo che però deve dispensare un favore. Che appare enorme al capofamiglia ma che è figlio di una assoluta mancanza di visione. Anzi, la dissipazione del gruzzoletto per ottenere questo benefit scatena l’ultima rissa finale. Dove tutti uccidono tutti.. Un cupio dissolvi che è una sorta di specchio di un sentire molto italiano dove la speranza di futuro è ridotta ai minimi termini. In sala pubblico di generazione miste, contrariamente al solito, per un evergreen che, come sempre, funziona. Bando alla solidarietà, a un’idea qualsiasi di progresso, di apertura al mondo femminile. È iscritto nel DNA dei personaggi un’uscita di scena catastrofica anche quando la presunta bella notizia sembra allietare l’umore del riconosciuto capofamiglia. Ma la brace che cova non tarderà a manifestarsi con inaudita violenza.
data di pubblicazione:03/03/2024
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da Paolo Talone | Mar 2, 2024
con Giada Prandi, regia di Renato Chiocca
(Teatro Cometa OFF – Roma, 27 febbraio/3 marzo 2024)
Torna anche quest’anno in cartellone al Cometa OFF la celebre tragicommedia firmata dal compianto Annibale Ruccello per la regia di Renato Chiocca. Giada Prandi è Anna Cappelli, l’impiegata comunale ossessionata dal bisogno di possedere le cose, anche l’amore. (foto di Umbi Meschini)
Per Anna Cappelli tutto, anche l’amore, ha un valore materiale. È determinata a ottenere ciò che desidera, dovesse anche rinunciare alla reputazione o perfino al matrimonio. Tanto è solo un contratto. Così poco vale se per andare ad abitare con il ragioniere Tonino Scarpa deve rinunciare a sposarsi e accettare la convivenza che lui le propone. Nessuno scandalo oggi, certo. Ma non nell’Italia degli anni ’60, in cui Annibale Ruccello ambienta il monologo scritto nel 1986 (lo stesso anno della morte del drammaturgo stabiese, scomparso a soli trent’anni nel tragico incidente sulla strada che da Roma lo riportava a Napoli).
Se tutto si riduce a cosa da possedere, allora anche lei diventa un oggetto tra gli oggetti. Una bambola, di tutto punto vestita e accessoriata (nel meraviglioso costume dell’epoca realizzato da Anna Coluccia), riposta nella scatola immaginata per lei dal regista Renato Chiocca. Da questo spazio cubico, appena tracciato in un perimetro nel vuoto della scena costruita da Massimo Palumbo, prende forma il dramma.
Per Anna le giornate sono tutte uguali. Scorrono monotone tra le scartoffie impolverate e i timbri dell’ufficio comunale di Latina. Vive ospite a casa della signora Tavernini, di cui odia i gatti e il nauseante odore di pesce bollito che esce dalla cucina. Non sopporta il fatto che i genitori abbiano dato la sua vecchia cameretta alla sorella Giuliana. Dopotutto quella stanza le appartiene, anche se non abita più con loro. Il riscatto sembra arrivare quando il ragionier Scarpa le chiede di andare a convivere, e lei accetta attratta, più che dall’amore, per il fatto che Tonino ha una casa di proprietà con dodici stanze. Ma anche questo le verrà tolto e allora la disperazione si tradurrà in un gesto folle.
Ogni volta che qualcosa le sta per essere portata via, nei sui occhi guizza una scintilla di rabbia e isteria. L’apparente ordine di cui si circonda è presto rovinato dal disordine che la abita. Eccezionale Giada Prandi a sottolineare nella recitazione questo forte contrasto tra armonia esteriore e rancore sopito. Abilissima nell’anticipare le parole del testo con gli occhi, sbarrati e sempre attenti alla lucida follia che la divora. Una recita solo in apparenza leggera, ma profondamente espressiva, piena di vibrante energia, come il personaggio che interpreta. Le luci di Gianluca Cappelletti e le musiche originali di Stefano Switala completano il lavoro di una squadra che si distingue per il perfetto equilibrio dei ruoli. Lo spettacolo non può che guadagnarne in limpidezza e comprensibilità.
data di pubblicazione:02/03/2024
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da Daniele Poto | Mar 1, 2024
drammaturgia di Antonella Ottavi, con Chiara Bonome, Bruno Maccallini e Pino Cangialosi, musiche originali ed elaborazioni suonate dal vivo da Pino Cangialosi, regia di Bruno Maccallini
(Auditorium, Goethe Institut – Roma, serata unica 29 febbraio 2024, poi in tournèe per l’Italia)
Rigorosa ricostruzione di uno dei periodi più emblematici della storia del passato secolo. Salto all’indietro di cento anni per captare umori e prodromi di quello che sarà il nazismo. Musica come complemento essenziale, grande fisicità della Bonome e fiuto e competenza di Maccallini
Goethe Institut come collocazione ideale per documentare la breve parabola di una parentesi del secolo ancora soggetta ad analisi. Spessore culturale avanzato a Weimar prima della repressione e della caduta nell’infausta stagione hitleriana. Conosciamo Bertolt Brecht, Kurt Weill, Marlene Dietrich ma qui si affacciano le sagome di giornalisti, polemisti, autori ingoiati poi dalla repressione se non condannati a morte in qualche lager discriminatorio. Attraverso la vita di un caffè si snoda lo spirito del tempo. Con i nuotatori, punte di una cultura avanzata e celebrata e, in un altro angolo della sala, i non nuotatori che aspirano ad entrare nell’atra categoria e magari non avranno il tempo di riuscirci. Il finto orgasmo nella danza erotica della Bonome è evidentemente uno dei momenti più divertenti sulla scena mala tensione teatrale è alta, sempre. La Diva o le Dive sono personaggi spregiudicati che riflettono lo spirito del tempo come punte avanzate, rivendicazione di una figura femminile al passo con la modernità. I video sullo sfondo di macerie dei bombardamenti riflettono il dopo che sarà ovvero il disastro di un’ideologia mortifera. Eppure la nuova donna di un secolo che non sarà breve era nata a Weimar, invano soffocata dal totalitarismo. L’originale approfondimento di Maccallini è un unicum del teatro contemporaneo. Ammirevole nel suo isolamento ma anche per la sua perspicuità. Pubblico di spessore in sala con molti addetti ai lavori capaci di apprezzare quanto proposto.
data di pubblicazione:01/03/2024
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da Daniele Poto | Feb 28, 2024
Sta girando l’Italia e si ripromette di entrare nelle scuola questo documentario di montaggio che si appoggia a un immenso patrimonio archivistico con un focus sul più grande partito comunista dell’Europa Occidentale. Ha ottenuto il contributo economico della Presidenza del Consiglio, pur di opposta tendenza partitica perché c’è un fondo speciale dedicato agli anniversari. Carrellata nostalgica sul Pci che fu, attraverso le immagini di Berlinguer, la svolta della Bolognina di Occhetto, le sezioni, le manifestazioni, il riflusso con la marcia dei 40.000 quadri della Fiat a Torino, volta pagina della sconfitta..
Un film che stimola la memoria indipendentemente dalle idee politiche personali. Un grande viaggio all’indietro ricco di cinema militante (Gregoretti, Serra, Scola, Montaldo) quando c’era la speranza di invertire il senso della storia, prima che fallisse il compromesso storico e che 400.000 militanti abbandonassero il partito, una volta dismessa l’etichetta di comunista. Atmosfera dunque alla Nanni Moretti per un reducismo che non vorrebbe essere d’accatto. Le immagini del passato vengono contrappuntate dalla lunga intervista a Luciana Castellina (anni 95), quattro parentesi in prigione, protagonista del distacco dal Pci. Lei è una che non ancora smesso di credere a quella rivoluzione che l’Italia non ha mai avuto, a differenza della Francia e della Russia. Piperno informa ma si diverte anche mostrando i personaggi di quadretti familiari e amicali che appartengono alla sua personalissima storia. Erano i tempi in cui il Pci arrivò a dotarsi di 1,8 milioni di iscritti, toccando percentuali tra il 33 e il 34% tra il 1976 e il 1977. Tanto per dare un’idea dell’attuale disaffezione alla politica nelle ultime primarie del Pd hanno risposto all’appello in 152.000. Alla proiezione a cui abbiamo assistito c’era anche Lucia Mascino, ormai romana d’adozione. Un film che richiede un dibattito che difatti c’è stato. Anche per chiedersi perché la maggioranza degli italiani non va più a votare.
data di pubblicazione:28/02/2024
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da Maria Letizia Panerai | Feb 28, 2024
Il regista e sceneggiatore Andrew Haigh reinterpreta, con la sua personale cifra stilistica, ambientazione e personaggi dell’omonimo romanzo di Yamada Taichi. Il suo protagonista è Adam, uno sceneggiatore intento a scrivere una nuova sceneggiatura che stenta a decollare. L’uomo vive in un piccolo appartamento all’interno di un condominio disabitato a nord di Londra, dove un giorno bussa alla sua porta Harry.
In evidente stato di ubriachezza, Harry gli chiede compagnia in maniera piuttosto esplicita. Ma Adam, isolato nel suo appartamento sovente in preda ad immagini oniriche che lo rimandano ad un passato difficile da accettare, lo respinge. Finché un giorno, osservando alcune fotografie che lo ritraevano bambino assieme ai genitori, decide di prendere un treno per andare a ritrovare la casa dove viveva con la sua famiglia. Da quel momento Adam salirà spesso su quel treno perché in quella casa riesce ad entrare in contatto con la madre ed il padre strappati prematuramente alla vita per un incidente automobilistico quando lui era appena dodicenne.
Estranei è un film doloroso, dalla trama impalpabile. Il film si muove sul profondo desiderio che il protagonista ha di vivere nel presente un legame con un passato familiare durato troppo poco. Tuttavia riesce ad alternare il dolore di un lutto ancora da elaborare, espresso sovente da immagini claustrofobiche, a sentimenti di riconciliazione e di pace. Il personaggio di Adam sente l’esigenza di raccontarsi ai propri genitori come non ha mai potuto fare, per renderli testimoni e partecipi della sua vita da adulto. Come figlio desidera essere rassicurato su come, quel timido bambino che piangeva la notte, è diventato l’uomo che è. Un uomo che oggi può girare mano nella mano con il suo compagno senza essere deriso, sposarsi, creare una famiglia. Nell’alternare immaginazione a realtà, il regista vuole anche che il suo protagonista trovi il coraggio di non avere paura di amare nel dare ad Harry quella occasione inizialmente rifiutata.
Una colonna sonora meravigliosa, sospesa tra passato e presente, accompagna immagini potenti, sguardi e pensieri. Il film è un delicato affresco di dolore e sentimenti, interpretato da un cast di attori in stato di grazia. L’estraneità viene espressa in tante forme, dalla solitudine causata da una metropoli al rifiuto di permettere a qualcuno di entrare nella parte più nascosta di noi. Un’analisi profonda delle proprie insicurezze ed un invito di pacificazione con i traumi del proprio passato.
data di pubblicazione:28/02/2024
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da Daniele Poto | Feb 28, 2024
Una romantica storia d’amore. Quasi un Matarazzo rivisto alla coreana per far capire che siamo dalle parti del mèlo senza dramma. Si potrebbe contare il numero infinitesimale di parole pronunciate nel film dagli scarsi dialoghi per carpire il fascino sottile del non detto.
Rituale è il dodici (anni). Due amici quasi fidanzati si rivedono a 24 e poi a 36 anni. Inevitabilmente ogni salto ha uno scatto nelle loro vite senza l’altro. Girovagando tra Seul, Toronto, una New York quasi da cartolina. Tra la cultura tradizionale coreana, la velocità del life style americano, un po’ di ebraismo dell’antagonista maschile. Melting pot da cui si estrae la storia di un rapporto che non sboccia in una relazione per l’asimmetria dei sentimenti. Storia tenera, dai risvolti interessanti al botteghino per l’apprezzamento che gode la cinematografia di questa parte d’Asia nel Vecchio continente (non evidentemente in America). Non ha coraggio di dichiararsi compiutamente il coreano mediaman che invano segue l’amore giovanile mentre lei piano piano declina i sogni di una grande carriera come sceneggiatrice. Un cinema che sa di verità e di scenari già percorsi. Negli scarni dialoghi ogni espressione è significativa e non sprecabile. Non c’è né ambiguità né morbosità nel rapporto sentimentale a tre con un angolo falso. Il momento più imbarazzante della visione è quando il trio converge in un bar e i due coreani si lanciano in un’animata quanto rara discussione, ignorando completamente il terzo ospite a digiuno della lingua parlata. Interminabili attimi vissuti con il cuore in gola per una reazione che non scatta, la massima comprensione per una spiegazione che deve avvenire tra i due irrisolti innamorati. Un film in cui il sottotesto e l’interpretazione è tutto, lasciando una traccia abbastanza profonda nello spettatore per la fascinazione che emana e per il tempo che si prende nella narrazione, uno slow cinema.
data di pubblicazione:28/02/2024
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