da Accreditati | Mag 23, 2024
Un bambino lasciato da solo in casa fino a tarda sera, in assenza della madre, barista in un locale notturno, decide di mettersi a friggere patate per fame improvvisa e finisce per ustionarsi. Dal ricovero in ospedale alla “presa in carico” da parte dei servizi sociali il passo è breve. A partire da quel preciso momento ha inizio l’incubo delle “sabbie mobili”. Sylvie tenterà in ogni modo di riprendere con sé il proprio figlio Sofiane, trasferito contro la sua stessa volontà in una casa- famiglia.
Opera prima della regista Delphine Deloget, che è anche sceneggiatrice della storia, sostenuto da ritmi vorticosi e dialoghi incalzanti, questo film dipinge un dramma familiare, e si spinge oltre. Lo lascia parlare, gli dà voce. E lo fa con un linguaggio diverso, trascinando chiunque vi si accosti in una vera e propria discesa agli Inferi. Là dove Orfeo perde per sempre la sua Euridice, per non aver resistito all’impulso di volerla rivedere. Dove è relegata la giovane Kore, strappata dalle braccia della madre da un’entità oscura, più grande e più forte. E dove le paure ataviche – separazione, perdita, abbandono – si materializzano come ombre nella caverna.
Allontanato dalla propria casa per avere garantita una “maggiore tutela”, Sofiane (interpretato dal piccolo Alexis Tonetti) vede il fratello Jean Jacques (Félix Lefebvre), e persino la propria madre, sempre più raramente. In contesti “protetti”. Per rimanere attaccato a lei, non può fare altro che annodarle i capelli, una ciocca dopo l’altra, con le dita sottili. E poi, scaduto il tempo della visita, aggrapparsi a quella treccia come fosse il cordone originario, che ancora li lega.
La donna, dal canto suo, lotta anche lei, con le poche risorse a sua disposizione. I due fratelli innanzitutto, fragili e sgangherati ma presenti e pronti a sostenerla. Alcuni amici fidati, solidali ciascuno a modo proprio. E i compagni di terapia, cui hanno ugualmente sottratto i figli. Fagocitati anch’essi dalla macchina giudiziaria, questi compaiono sulla scena seduti in cerchio, come in una sorta di rito iniziatico, e annunciano mostri: “Ricorda di passare la candeggina ovunque, prima che loro ti tornino dentro casa”.
In questo viaggio “dentro la notte”, lo spettatore si identifica con madre e figli, provando empatia. Vive con loro, partecipa della loro storia. Poiché non è solo “finzione”, questo film. È un pugno allo stomaco, un getto d’acqua fredda sparata sul viso, un tizzone che brucia, contro il petto, e che lascerà cicatrici. E proprio la cicatrice – tanto reale quanto metaforica – “tatuata” sul petto del bambino è il leitmotiv della storia. Motivo di sofferenza e al tempo stesso di orgoglio (“me l’ha fatta un drago!”), e di forza interiore.
Convincente la prova dei due giovani attori, fratelli indivisibili e complici, dall’inizio alla fine.
Notevole, al di sopra di ogni altra, l’interpretazione di Virginie Efira – Sylvie – di volta in volta imponente e sommessa, inarrestabile e meditativa. Con lo sguardo fermo e fisso all’orizzonte, lungo il cammino di feuilles mortes.
data di pubblicazione:23/05/2024
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da Antonio Iraci | Mag 22, 2024
Maria vive in famiglia a Nazareth e come tutte le donne di quell’epoca deve occuparsi solo delle faccende di casa. Presto dovrà andare sposa a un uomo che le verrà imposto, in base agli accordi tra le famiglie. La ragazza ha però altri progetti. Lei vuole studiare le sacre scritture, conquistare il mondo e non pensa proprio al matrimonio. Dopo vari tentativi, finalmente si convince a sposare un certo Giuseppe, falegname benestante che la istruirà e la preparerà al grande viaggio…
Paolo Zucca trae spunto dall’omonimo romanzo di Barbara Alberti per presentarci un’immagine del tutto inedita di Maria, la madre di Gesù. Il regista, sardo d’origine, trasferisce la sua storia proprio nella sua Sardegna, tra una fitta vegetazione a volte però soffocata da un paesaggio desertico e arcaico. In questo contesto si muove Maria, giovane oramai pronta al matrimonio, che però ha le idee ben chiare su come impostare la propria vita, ben lontano dai modelli patriarcali che le vengono imposti. Quindi una ribelle ante litteram che rompe gli schemi della società del suo tempo. Lei rifiuta il suo ruolo di moglie destinata solo alle incombenze domestiche e aspira a ben altro. Vuole imparare a leggere e scrivere, e fare tutte quelle cose che sono destinate solo agli uomini e vietate alle donne dalla legge. Solo Giuseppe, tra tutti i pretendenti che le vengono proposti, sarà in grado di capirla in fondo e assecondare i suoi desideri. La sposerà, la manterrà casta fin quando lei vorrà, le insegnerà tutto ciò che la renderà una creatura libera e emancipata. Un giorno un essere alquanto strano si presenta per annunziarle che qualcun altro, Dio in persona, avrebbe già deciso per lei. Rimanere incinta dallo Spirito Santo e non dal suo Giuseppe, è qualcosa che Maria non può proprio accettare. Se i Vangeli Apocrifi erano ritenuti sacrileghi per aver presentato una figura di Gesù ben lontana dai rigidi canoni del cristianesimo, il regista qui dà il via a interpretazioni su Maria a dir poco fantasiose. Una rilettura della figura della Madonna che farà sicuramente riflettere anche le più sfegatate femministe. E che dire poi di Gabriele, l’Arcangelo incaricato ad annunciare una gravidanza imposta e non voluta? Un giovane biondastro con tanto di ali piumate che si esprime con un tono arrogante e saccente. Nonostante la recitazione, molto teatrale in verità, di Benedetta Porcaroli (Maria) e di Alessandro Gassman (Giuseppe) il film non decolla e a tratti risulta quasi irritante. Senza passare per bigotti, si fa veramente fatica a seguire una storia che forse, almeno nelle buone intenzioni del regista, avrebbe invece dovuto dare una immagine di Maria più credibile, anche se fuori dagli schemi tradizionali della Chiesa.
data di pubblicazione:22/05/2024
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da Antonio Jacolina | Mag 22, 2024
Parigi, durante un casting Chiara Mastroianni viene invitata dalla regista Nicole Garcia a recitare cercando di essere “meno Catherine e più Marcello”. Frustrata dal continuo confronto con i genitori, stanca di essere “la figlia di…” Chiara è alla ricerca della propria identità. Catarticamente affronta la crisi esistenziale e professionale appropriandosi dell’identità, del look e degli atteggiamenti del padre. Si veste e si fa chiamare come lui: Marcello …
In concorso a Cannes ’24, esce sugli schermi, distribuito dalla LUCKY RED il film Marcello Mio. Si rinnova ancora una volta dopo L’Hotel degli amori perduti (2019) il sodalizio artistico fra lo scrittore, regista e sceneggiatore francese e Chiara Mastroianni. L’occasione è il centenario della nascita di Marcello Mastroianni. Un tenero omaggio al grande attore scomparso nel 1996.
L’estroso spunto iniziale può far pensare di primo acchito ad una commedia sul trasformismo o al solito film nel film. In realtà Honoré abilmente in bilico fra realtà e fiction continua la sua ricerca sui temi a lui cari dei rapporti familiari e sulla “mancanza”. Una riflessione sulla nostalgia, l’amore, la morte e la vita. Lo fa, da par suo intelligentemente, osservando con fantasia dolce-amara il mestiere dell’attore e le implicazioni che il recitare genera sugli equilibri psichici, sui sentimenti, sugli affetti e sui ricordi. Lo fa con grazia, con poesia ed ironia, trasformando una realtà molto particolare e privata in un racconto di valore universale.
L’atmosfera narrativa tanto buffa quanto poeticamente suggestiva è in equilibrio fra realtà e sogno. Il regista, fra infinite citazioni cinefile, tiene saldamente in pugno la direzione, supportato da una sceneggiatura fantasiosa ma ottimamente scritta e ritmata. La messa in scena e l’ambientazione è circoscritta al gruppo di amici parigini della famiglia Deneuve-Mastroianni. Ognuno di essi reagisce in modo diverso alla sorprendente decisione di Chiara di rivestire i panni del padre Marcello e di assumerne i comportamenti ed i tratti caratteriali. Quasi una metaforica recherche del padre perduto. Chiara Mastroianni è ovviamente al centro di tutto. Con talento, stile, sensibilità ed autenticità supera la difficile sfida di essere se stessa e… Marcello. Veramente affascinante nella trasformazione! Attorno a lei e con lei ci sono: Nicole Garcia, Melvil Poupaud, Benjamin Biolay, Fabrice Luchini e ovviamente Catherine Deneuve. Tutti recitano se stessi in una versione gioiosamente un po’ esagerata ma complici sinceri e giusti. Su tutti spicca Luchini che con verve ironica ed a tratti sottile comicità interpreta l’attore, l’amico con cui confidarsi. L’unico che accetta, comprende e condivide complice la scelta di Chiara.
A parte una lunghezza forse un poco eccessiva e la forte dissonanza con il resto del film della breve esperienza romana Marcello Mio è un buon film non privo di charme ed una bella evocazione di Marcello Mastroianni. Un’opera sulla Memoria e sul Cinema, ben recitata da attori di gran pregio, diretta con delicatezza, equilibrio, humour e sincerità.
data di pubblicazione:22/05/2024
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da Antonio Jacolina | Mag 21, 2024
Francia 1976. Pierre Goldman ebreo, intellettuale e militante di estrema sinistra già condannato all’ergastolo per quattro rapine a mano armata è sottoposto a nuovo processo per due omicidi avvenuti durante l’ultima. Si proclama innocente con irruenza provocatoria divenendo un’icona politica. L’approccio ideologico è in contrasto con la strategia del suo giovane avvocato. Rischia così la ghigliottina …
Dopo Anatomia di una caduta ecco un nuovo film processuale francese. Altrettanto interessante e coinvolgente anche se molto diverso nella forma. Kahn rievoca il famoso e tumultuoso processo Goldman. Personalità carismatica ed affascinante l’imputato utilizzò l’aula per denunciare la Polizia di antisemitismo ed accusare il Sistema Giudiziario e tutto l’Establishment francese. Il regista avrebbe potuto tranquillamente scegliere la via convenzionale del biopic. Preferisce invece concentrarsi sul dibattimento vero e proprio. Coerentemente, fatto salvo un breve prologo, il racconto si svolge tutto nell’aula giudiziaria. Una scelta rischiosa. Una scelta che però offre al cineasta l’opportunità di una direzione e di una messa in scena classiche nella forma ma del tutto originali nella sobrietà e nella precisione. Una ricostruzione priva di qualsiasi artificio (filmati, flashback, voix-off…).
I film processuali traggono forza e fascino dalla capacità con cui la regia riesce a rendere apprezzabile il predominio della parola sull’immagine. Il processo è un teatro ove ognuno rappresenta la propria verità. Le opposte versioni vengono narrate attraverso le diverse capacità dialettiche. Mettendo in scena solo l’aula, Kahn si concentra unicamente su ciò che viene detto. Un film verboso? Tutt’altro. L’autore sa bene utilizzare il fascino delle parole restando sempre in un contesto cinematografico. Un gioco abilissimo di alternanze di campo e controcampo e di piani ravvicinati resi tutti incisivi e dinamici da un ritmo serratissimo e da un montaggio perfetto. È evidente il riferimento a capolavori come L’Affaire Dreyfus e, soprattutto, la Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer. La scelta compositiva di un formato di immagine di 4/3 che riduce lo schermo, le inquadrature fisse sui soggetti o sui volti sottolineano il rimando ai classici del passato ma servono anche a rafforzare la logica narrativa. L’unica vera azione nel film sono infatti le parole pronunciate o urlate.
Il regista con intelligenza non prende alcuna posizione di parte né pretende di fare una ricostruzione fedele dei fatti. Trascende dalla vicenda e vuole piuttosto riflettere su un passato in cui risuonano echi di un presente. Una riflessione sulla Giustizia, sui vincoli culturali, sul razzismo occulto e, soprattutto sulla fragilità dei ricordi e delle certezze. La difficoltà di fare Giustizia e di fare emergere la Verità.
Come in Anatomia di una caduta la Giustizia è un problema di punti di vista! A chi credere? Lo spettatore è lasciato solo, nella stessa difficile situazione dei giurati e con lo stesso peso di coscienza.
Il Caso Goldman è un lavoro riuscito, un film autoriale di dialoghi ed altissima recitazione. Un dramma teso ed asciutto che brilla per le sue qualità di scrittura. Un’opera di grande intensità, coinvolgente e mai noiosa che continua a risuonarci dentro anche parecchio tempo dopo averla vista.
data di pubblicazione:21/05/2024
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da Paolo Talone | Mag 20, 2024
regia di Marcella Favilla, con Paola Giglio e Matteo Prosperi
(Teatro Tor Bella Monaca – Roma, 9/11 maggio 2024)
Fotografia fedele e riuscita di una coppia ordinaria alla ricerca di un posto nella società. Marta e Pietro sfidano un mondo che gira troppo in fretta, trovando nella lentezza l’antidoto al veleno della frenesia. (foto di Giovanni Chiarot)
Avvicinarsi alla soglia dei trent’anni nel secondo decennio del nuovo millennio pone sfide di una difficoltà non trascurabile. Crisi finanziarie, pandemie, guerre e cambiamento climatico sono fattori che interessano tutti. Ma per la generazione dei millennials, a cui appartengono i protagonisti di Interno camera, diventano una barriera ulteriore che impedisce una costruzione serena e lineare della propria carriera e posizione sociale.
È stato in scena negli spazi del bellissimo teatro di Tor Bella Monaca lo spettacolo scritto da Paola Giglio nel 2019 durante un laboratorio guidato dalla drammaturga Lucia Calamaro, il progetto SCRITTURE, che vede protagonista l’autrice affiancata dal compagno di vita e di lavoro Matteo Prosperi, diretti da Marcella Favilla.
In scena sono Marta e Pietro, una coppia che vive in un grazioso ma disordinatissimo appartamento di città. La stanchezza non celata di Marta difronte all’impossibilità di realizzarsi come scrittrice di romanzi, che per sbarcare il lunario è costretta a formulare contenuti trash su un sito internet, e il blocco di Pietro, che non riesce a terminare la sua tesi di dottorato in filosofia e per vivere effettua consegne a domicilio, sono motivi di stallo e depressione. Sono il riflesso dettagliato della condizione di un’intera generazione. Se da un lato a chi ora si affaccia all’età adulta è stata concessa l’opportunità di potersi formare per la professione dei sogni, dall’altro gli si preclude la possibilità di poterla praticare. Lavori precari e mal pagati sono il necessario compromesso per sopravvivere. Per non parlare dello sviluppo tecnologico che ha reso tutto più veloce e inconsistente, ponendo gli individui attraverso i social in continua competizione tra di loro.
Il testo drammaturgico fotografa con precisione questa condizione che interessa tanti giovani di oggi, mutando la parte dialogica direttamente dal vissuto quotidiano. Per questo linguaggio e trama si svolgono in maniera naturale, senza forzature o incantesimi anche nel finale positivo. La tentazione di diventare dottrinale viene poi evitata con una sana, pragmatica ironia. Paola Giglio e Matteo Prosperi affiancano a questo testo così credibile una recitazione spontanea, al limite dell’improvvisazione e per questo istintiva, che cela un grande legame e un’alchimia che sul palco si manifestano in naturalezza di espressione e divertente complicità. Teneri quanto coinvolgenti e veri.
Paradossalmente per Marta e Pietro superare lo stallo, generato dall’ansia dell’essere sempre all’altezza delle aspettative sociali, significa riprendere a camminare. In senso metaforico ma anche fisico, soprattutto per Pietro che parte solo per un lungo viaggio nel quale avrà tutto il tempo per ritrovare sé stesso. Concedersi il lusso di rallentare per rimettere a posto pensieri e progetti è finalmente la soluzione. Una lezione utile, che ancora una volta viene dal teatro, per chi si trova impantanato nella stanchezza e nella mancanza di ispirazione.
data di pubblicazione:20/05/2024
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da Daniele Poto | Mag 20, 2024
con Massimo Ghini. Produttore esecutivo Enzo Gentile
(Teatro Il Parioli – Roma, 15/26 maggio 2024)
Una rivisitazione di un personaggio storico più che religioso. Graffiante, stimolante, creativa. Ghini regge brillantemente la scena per un’ora e mezzo validamente assistito da un corredo video iconico che vale il prezzo da solo del biglietto. Storia, cinema e teatro per l’obiettivo finale di trovarci così simili a Giuda.
Riscoperta in otto passaggi del presunto “grande traditore”. Ma sarà andata poi così? Rileggendo i Vangeli e la cronaca dell’epoca c’è da dubitare che Giuda abbia venduto Gesù per soli trenta denari. Da ritoccare una patina di ruggine stesa sul personaggio grazie a frettolose etichettature. Sapevate che esistono i Vangeli di Giuda e che il Barabba collocato in crudele alternativa al Salvatore aveva la funzione di Messia alternativo, come uomo di battaglia rispetto all’uomo d’amore? Ghini va a frugare nei nostri pregiudizi assistito da un testo potente che però non rinuncia all’aspetto mondano, liberandosi dei vestiti, indossando uno smoking di gala per far intuire che è un’operazione di modernità quella a cui si accinge. Il suo solo assistente centellina solo qualche battuta oltre a rifornirlo di acqua e a beccarsi qualche lamentela. La riscoperta di Giuda è laica ma si butta nel profondo della religione, fatta di mistero e di credenze per fatti molto lontani nel tempo. Ma la cornice storica è impeccabile e non opinabile. Giuda si batte per un auto riabilitazione attraverso Ghini che semina il dubbio ricorrente: siamo poi così diversi da Giuda nella nostra mancanza di coraggio nelle scelte di tutti i giorni? Se il teatro è contraddizione Giuda è la perfetta epitome del conflitto. E a fine spettacolo, ovviamente, si merita qualche accusa in meno e qualche simpatia in più, pur non ricorrendo a facili strumenti di riabilitazione se non quelli fondati sulla storia e su un legittimo dubbio.
data di pubblicazione:20/05/2024
Il nostro voto: 
da Daniele Poto | Mag 20, 2024
con testo e regia di Maria Paola Conrado con Martina Scaringella, Paola Narilli, Giacomo Ricci Caterina Camerini, Vincenzo Ferrari, Alessandra Luzzi, Marina Spagoni, Elvira Pallotta, Vincenza Toce, Alessandra Giudice, Roberta Baietti, Anna Virgilio Simoni, Simona Porcu, Elisa Cimino. Luci Diego Caterino. Produzione: La Compagnia dei Pasticceri
(Teatro Sette -Roma, 19 maggio 2024)
Il Teatro dentro il Teatro. Pretesto non nuovo ma espresso con ricchezza di personaggi. Fuori dai grandi giri degli Stabili chi ha più il coraggio di programmare spettacoli con una quindicina di attori? Tra emozione e spontaneità un baedeker di molti secoli di scena. Con disinvolta vivacità e spazio per tutti, anzi soprattutto per tutte vista la grande prevalenza al femminile.
Quattro attori sono prigionieri di un teatro viste le avverse condizioni atmosferiche. Potrebbero provare ma non ne hanno alcuna voglia anche per alcune croniche incompatibilità con l’autore. Preferiscono mettersi a dormire e rinviare la lettura del copione al giorno dopo. Ma la notte sarà popolata di sogni che a volte rischiano di trasformarsi in incubi. Perché se la vita è sogno (Shakespare, Calderon de La Barca) qui l’immaginario del teatro prende il sopravvento. E con uno stratagemma forse troppo volte ripetuto compaiono in scena personaggi creati dalla fertile fantasia del bardo britannico, un personaggio extra tra quelli pirandelliani, una Baccante euripidea e persino un Godot che cerca di rescindere la corda fatale che lo lega metaforicamente a Beckett. Siparietti da assolo poi reimmergersi nella trama corale che prevede anche disinvolti balli e persino un twist. Ovvio che la trama del lavoro in progress sarà più ricca con questo clamoroso valore aggiunto. Dunque nella retrospettiva non ci si fa mancare niente, comprese Le tre sorelle di Cechov e la riapparizione di un Puccini addolorato per non aver potuto terminare quella Turandot che fu affidata al maestro Toscanini alcuni mesi dopo la sua morte. Incuriosito per tanta generosità tra il pubblico il direttore artistico del teatro Michele La Ginestra, sempre fresco e inossidabile Rugantino.
data di pubblicazione:20/05/2024
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da Daniela Palumbo | Mag 20, 2024
I cinque figli di Manfredi Alicante, avventuriero impunito e padre latitante da sempre, si ritrovano a condividere per alcuni giorni la stessa casa, dopo la morte improvvisa di lui. Il tempo di aprire il testamento e decidere il da farsi. L’eredità è un allevamento di ostriche a Bordeaux, convertito in una coltura di perle, illusoria come un miraggio in una duna di sabbia; un mucchio di debiti, qualche mollusco dal sapore salmastro e un’unica perla, imperfetta e di poco valore; una perla di nome Luisa.
Sei fratelli è una storia di famiglia. Una come tante, ma amplificata tanto nel numero quanto nella materia. In questo nucleo “allargato” e sfilacciato, Luisa (interpretata da Valentina Bellè) è la sorpresa, la sesta figlia, fino a quel momento ignota a tutti; la sesta punta della stella, il lato nascosto dell’esagono (la storia è ambientata in Francia, forse non a caso), una sesta nota “stonata”, che fa fatica ad entrare nel coro, in una polifonia già di per sé dissonante. Cinque fratelli “legittimi”, noti e riconosciuti, ciascuno con un suo “carattere” senza mai essere fino in fondo stereotipi si contendono la scena, in perenne conflitto con se stessi e con gli altri a loro vicini; perennemente alla ricerca di un proprio centro di gravità, di un legame da recuperare – o da creare – malgrado tutto. Con gli abbracci o con le botte. Urlando vecchi rancori o sussurrando nuove confidenze.
Al di sopra di tutto – narratore onnisciente già dall’incipit del film attraverso la voce fuori campo di Gioele Dix – quel padre che ha dato più volte la vita, ma senza curarsene, e generando menomazioni dell’anima come del corpo: così Marco, il prediletto (Riccardo Scamarcio), zoppica per un male al tallone, il giovane Mattia (Mati Galey) è quasi muto e Leo (Gabriel Montesi) ha problemi d’udito, oppure finge. E poi c’è l’ibrido, Luisa, l’intrusa nella famiglia, simbolo dell’alterità straniante che però aiuterà a chiudere il cerchio (anche fisicamente, attorno al tavolo del notaio, in esordio e in chiusura). Lei che di quel padre “anche suo” ha preso quel “poco” che ha potuto, e che se l’è “fatto bastare”.
E adesso che sono lì, tutti quanti, orfani di colui che era insieme pecora nera e capro espiatorio, quel padre amato e odiato, voluto e respinto, lontano e accusato in contumacia di essere il cattivo per eccellenza… “a chi daranno la colpa, per la loro infelicità”.
Il regista Simone Godano, metteur en scène e direttore d’orchestra, scandisce bene tempi e dinamiche all’interno del film, e si lascia seguire, grazie anche a una sceneggiatura semplice ma intensa, che non cede a facili coups de théâtre, né a luoghi troppo comuni.
Belle le luci di Bordeaux di notte; suggestive le note di quella sonata in si minore, eseguita al piano sin dalle prime scene e che ritorna, più volte, nella storia.
data di pubblicazione:20/05/2024
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da Antonio Jacolina | Mag 17, 2024
Come ogni anno dal 2017 si rinnova l’appuntamento con il Ciclo di Conferenze Lectures Méditerranéennes promosse dall’Ambasciata di Francia a Roma. Un’opportunità per gli appassionati di Storia, Letteratura ed Arte. Un’occasione per conoscere il passato di quella realtà unica che è il Mondo Mediterraneo. Meglio ancora, i tanti Mediterranei che lo compongono, ieri come oggi. L’area del Mediterraneo, per la sua originalità e complessità, ha avuto, ha ed avrà infatti un ruolo centrale nel processo di costruzione del Mondo Europeo.
Obiettivo delle Lectures è dare alle grandi questioni di questo millennio (mobilità, denatalità, religioni, ambiente…) la profondità e l’analiticità di una riflessione storica. Capire la realtà contemporanea infatti richiede la rivisitazione delle epoche e delle persone del passato attraverso gli occhi e le domande degli studiosi del XXI Secolo. Quest’anno il Ciclo sarà articolato in quattro incontri tra Maggio e Giugno in contesti già di per sé affascinanti. Palazzo Farnese (21 Maggio h.18), Villa Medici (27 Maggio h.18), Palazzo Primoli (3 Giugno h.18), Palazzo Altemps (10 Giugno h.18). Il tema centrale è “La morte di una scrittura e l’inizio di un mito. I Greci ed i geroglifici”.
Un fenomeno tanto suggestivo quanto concettualmente istruttivo. La scomparsa di una scrittura utilizzata continuativamente dagli Egizi dal 3100 A.C. a tutto il IV secolo D.C. significa molto più di un tramonto e della fine di una Cultura e di una Civiltà. Cosa c’è storicamente al di là del Mito creato dai Greci e della sua influenza sull’immaginario collettivo? Quali i fattori che determinano il declino e la morte di una scrittura e della Cultura che essa rappresenta? Quali i cambiamenti? Quali le rivoluzioni culturali, religiose, politiche e demografiche che sottostanno a tale processo? Quale è l’elemento detonatore? E’ possibile e ripetibile nel presente o nel contesto prossimo venturo?
L’ingresso è libero previa iscrizione presso l’Ambasciata o il Centro Culturale Francese.
data di pubblicazione:17/05/2024
da Daniele Poto | Mag 17, 2024
riduzione e regia di Fabio Gravina, con Fabio Gravina Mara Liuzzi, Antonio Lubrano, Sara Religioso, Giuseppe Vitolo, Michele Sibilio, Eduardo Ricciarelli, Rosella Celati, scene e costumi di Francesco De Summa, musiche originali di Mariano Perrella
(Teatro Prati – Roma, 5 aprile/26 maggio 2024)
Cinquanta giorni in cartellone per una delle più scoppiettanti farse di Scarpetta in una stagione mono-autore di un teatro che testardamente da 25 anni ripropone il teatro della tradizione napoletana.
Fabio Gravina è il tenore, sinergicamente assistito da un coro di caratteristi che lo spalleggiano impeccabilmente di spettacolo in spettacolo secondo il numero fisso e chiuso della base scarpettiana. Riduzione rigorosa e fedele con il dialetto che vira nella facile comprensione della lingua italiana. Gioco di equivoci senza corna, con matrimoni contrastati sempre in ballo e giocose ripicche. Ritmo trascinante, senza punti deboli con rilanci continui di trama. E i caratteri sono ben scolpiti. C’è la procace sciantosa, la moglie brutta, l’amico fedele, il parente ricco. Soldi e amore dietro l’angolo, spesso in contrasto. Felice Sciosciammocca, sempre lui, è il pilastro attorno a cui si snoda la vicenda. Lo scioglimento non ha bisogno di particolari approfondimenti psicologici. Happy ending in agguato con ricomposizione di tutto quanto viene chiarito nel bozzetto finale. In fin dei conti un gioviale ottimismo chiude la vicenda. Potrebbe sembrare un teatro minore di pura rappresentazione ma ipoteca un enorme dignità della scena, senza presuntuosi velleitarismi. La compagnia stabile ha già preparato la prossima stagione che si presenta appetitosa con testi di Gravina, il rilancio di Raffaele Viviani e, ancora, immancabilmente Scarpetta, un amo da cui partì la meravigliosa avventura de tre De Filippo, dando il via al vero teatro d’autore italiano. Dopo Eduardo capisaldi Giorgio Strehler e Luca Ronconi.
data di pubblicazione:17/05/2024
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